In memoria di un campione
Generazione Bobbicialton
Ritratto di Bobby Charlton, campione nobile e compassato del calcio in bianco e nero. Sul campo sembrava un gentiluomo di vecchia aristocrazia di campagna, ma segnava di destro, di sinistra e di testa
Erano anni di calcio in bianco e nero (e guai se le squadre vestivano casacche che, in quel grigiume da perenne autunno, potevano confondersi: bisognava andare a senso), di dirette rare, con immagini che spesso mostravano la stessa nitidezza di quelle che rendicontarono lo sbarco sulla luna (andate a raccontarlo agli arbitri addetti al Var). In quel tempo, Bobby Charlton era una leggenda in un calcio già di per sé leggendario, ancora di più quando si parlava del football di oltremanica. Bobby Charlton, per noi ragazzini tifosi di quell’epoca ingrata, andava pronunciato come se fosse un nome solo, anche perché gli altri due attaccanti che allora costruivano epopee a suon di gol, il cognome l’avevano unicamente come un’opzione da ufficio anagrafe. Insomma: Pelé, Eusebio e Bobbicialton.
Bobbicialton nelle immagini che lo ritraevano in tenuta da gioco aveva l’aria seria e compassata, un aspetto da gentiluomo di vecchia aristocrazia di campagna. Anche in maglietta d’ordinanza (quella rossa del Manchester United, di cui fu l’indiscussa bandiera, la vestì in 758 partite, segnando 249 gol) sembrava fosse in attesa di una tazza di té, il cane per la caccia alla volpe ai suoi piedi, invisibile ma solo perché la realtà fotografata si fermava solitamente al busto. E la regina Elisabetta il titolo di baronetto glielo concesse, anzi glielo restituì, rendendo ufficiale quello che era da tempo sotto gli occhi di tutti. I Beatles erano già stati insigniti dello stesso titolo nel 1965. Per l’occasione dovettero cambiare look e si mostrarono goffi e nervosi. Per Charlton fu tutto più facile: s’inchinò davanti alla regina con lo stesso atteggiamento con cui salutava i tifosi sugli spalti.
Bobbicialton intanto, in attesa della consacrazione araldica arrivata qualche anno dopo l’incoronazione dei Beatles, avrebbe vinto con la nazionale i Campionati del mondo in Inghilterra nel 1966 e la Coppa dei Campioni, ovviamente con lo United, due anni dopo. Con la maglia della nazionale d’Inghilterra giocò 106 partite realizzando 49 gol.
Eppure il signorile Bobby ‒ movenze da Sir anche sul terreno di gioco ‒ era nato, l’11 ottobre del 1937, da una famiglia di minatori di Ashington, cittadina nella regione mineraria della contea di Nothumberland, a un passo dalla Scozia. Il football però lo aveva in qualche modo nel sangue, come dimostrano i parenti stretti che avevano così evitato il destino di minatori: il fratello maggiore Jack, difensore, anche lui campione del mondo nel ‘66, e cinque zii (George, Jack, Jim, Stan, Jackie) calciatori professionisti.
Nel 1958 Charlton era scampato a un incidente aereo a Monaco, nel quale avevano perso la vita ventuno persone, tra cui otto suoi compagni di squadra. Forse anche questo gli dava quell’aria distaccata ma insieme partecipe, quella voglia di correre e correre, il rincorrere perenne come per andarsi a prendere quel pallone che era il segno della sua aristocracy.
Sembrava alto, Bobbicialton, ma misurava solo un metro e settantatré centimetri (quello alto era il fratello Jack, la Giraffa), ma saltava e segnava di testa, con la stessa facilità con cui faceva gol di destro e di sinistro: con un tiro di destro aveva chiuso la sfida per la conquista del titolo continentale di club, insomma la Coppa dei Campioni, contro il Benfica di Eusebio. E correva, correva Bobbicialton, in una sorta di preveggenza di calcio totale e di falso nueve, come si dirà più tardi. E correndo non perdeva il suo aplomb tutto british, a cui si aggrappavano i compagni di squadra del Manchester United, a cominciare da quelli di reparto. Con il giovane scapestrato talentuoso George Brest e lo scozzese Dennis Law formeranno un trio d’attacco da favola: risultato, due scudetti e la Coppa dei Campioni. Gli altri due erano i giovani, Bobbicialton era il vecchio saggio, che era stato vecchio da sempre, con il suo riporto a tentare di nascondere la calvizie incipiente fin dagli esordi.
Il 1968 (l’anno del 4 a 1 rifilato al Benfica, ma solo ai supplementari: suoi il primo e il quarto gol) è trasgressione, voglia di nuovo, il mondo che cambia, i capelli lunghi, la gioventù, la musica rock. Bobbicialton non può che continuare a essere quello che è sempre stato: uno che sembra vecchio, uno che sembra alto, uno che sembra lento, uno che sembra distaccato e assente. Uno che sembra in attesa di una tazza di té, mentre tutti intorno a lui bevono birra.
Uno dei più forti calciatori di tutti i tempi, l’aristocratico centravanti di un calcio in bianco e nero, è morto il 21 ottobre, all’età di 86 anni, ma era già da tempo assente dalla vita, in questo caso veramente assente, per demenza senile.