Al Palazzo delle Esposizioni di Roma/1
Doppia inquadratura
Le due mostre dedicate a Don McCullin e a Boris Mikhailov illustrano alla perfezione due modi diversi di intendere la fotografia. Uno costatemente fuori dall'obiettivo, l'altro sempre dentro
Don McCullin e Boris Mikhailov: nel cartellone di questa ripresa di autunno anche il Palazzo delle Esposizioni di Roma si conquista un ruolo di prima fila chiamando in scena due grandi firme della fotografia. Inglese il primo, il più visitato e più noto al grande pubblico. Ucraino il secondo. Entrambi ultra ottantenni. Entrambi inseriti in stagioni diverse e con diversi copioni nel programma del festival della fotografia, manifestazione di grande impatto divulgativo per la Capitale, inspiegabilmente interrotta anni fa per il mancato sostegno del Campidoglio. Ma di cui ha fatto tesoro, giocando per una volta in casa, il nuovo presidente del Palaexpo Marco Delogu, che quel festival ha inventato e diretto, spendendo la sua esperienza e i suoi rapporti di amicizia per ingaggiare i due maestri. Lo ha fatto confezionando due mostre davvero d’eccezione, non le solite incomplete antologiche ma due retrospettive che rivisitano l’intero arco della loro carriera e del loro modo di interpretare l’arte e il mestiere della fotografia.
Un confronto ravvicinato di approcci e di stili al quale ci prepara con efficacia l’allestimento dell’atrio del padiglione umbertino. E in particolare
le due gigantografie appese alle colonne come manifesti che si fronteggiano lungo la diagonale della sala. Il primo è il volto di un senza casa colto al volo da Don McCullin e inserito in un ciclo di lavori con cui documentava il collasso delle città di varie regioni inglesi stravolte dai processi di de industrializzazione dei primi anni ’70.
Impossibile cancellare dalla memoria quella faccia. La pelle scura, probabilmente un paria del subcontinente indiano che ha perduto ogni sogno di riscatto, una maschera sulla quale la miseria e la vita all’aperto hanno tatuato cicatrici di un biancore inquietante, i capelli incanutiti che lo sporco drizza in testa come una corona di spine, la barba arruffata e sbilenca a incorniciare due labbra arricciate più a dire spaesamento ed attesa che a urlare rabbia e rivendicazioni. No, è molto più dello sgomento della povertà. Nella povertà del dopoguerra, McCullin c’è nato e cresciuto, a Fosbury, un sobborgo degradato a Nord di Londra, una famiglia senza mezzi, un padre ammalato, amici che dalla vita si aspettavano poco ma il sabato sera mandavano giù l’amarezza in un pub, girando in giacca e cravatta con gli abiti da festa. No, quel barbone è oltre quella soglia, non ha più appigli per sentirsi umano. Ma lo sguardo del fotografo è dalla sua parte. Senza pietà ma al suo fianco. Schierato e mai neutrale, o complice della distrazione che ci rassegna all’ingiustizia contro i più deboli, voci che McCullin registra e gli restano dentro come cicatrici indelebili.
Dicono molti discutibili manuali di istruzione che un professionista della fotografia è sempre fuori dall’inquadratura che il suo scatto circoscrive come un confine. McCullin quel muro invece l’ha spesso superato, il suo occhio collassa sempre o quasi su ciò che osserva, si guarda, ci guarda dentro anche se è rivolto al fuori. E in quel dentro riconosce, scopre ogni volta una parte irrinunciabile, misteriosa, dolorosa di se, verso la quale poi indirizza anche il distacco apparente del suo mestiere: il suo modo di avvicinarsi il più possibile a ciò che sta riprendendo, anche a rischio di morire se si muove su un teatro di guerra, la scelta mai rinnegata del bianco e nero, il ricorso a tecniche antiche nel f issagio delle immagini e nella stampa.
Sul fronte opposto l’altra gigantografia. Condensa con stupefacente precisione il tragitto di un altro autore, Boris Mikhailov, che invade invece lo spazio dell’inquadratura senza remore e senza inibizioni e ruba alla fotografia altre possibilità meno ortodosse: colore, tinteggiatura del negativo, sovrapposizione del montaggio. È non a caso un autoritratto. In quello scatto una foto di quando aveva appena vent’anni – prestava sevizio militare e indossava la divisa da ufficiale – e la sua vena anarchica doveva fare i conti con il gusto e le imposizioni del regime sovietico che dominava il suo paese, l’Ucraina, una colonia decentrata dell’impero comunista. Occhio ai colori. È li che la fantasia di Mikhailov deborda. Una tavolozza pastello. Uno sfondo rosa da sberleffo gay, una tinteggiatura ammorbidita e sfocata come il trucco di un burattino. E occhio alla divisa. Al posto delle mostrine da eroe della patria c’è il frammento di un tappeto da souvenir.
Evidenti le differenze. L’inglese entra in empatia con i soggetti che inquadra, il tormento degli altri diventa suo. Ne distilla una epopea della condizione umana come Tolstoj, altri scrittori classici. Il suo infinito romanzo. L’ucraino invece usa la macchina come un’estensione del suo corpo che mette e rimette in gioco. È sostanzialmente un performer.
Ecco subito le chiavi per introdurre e assaporare le due mostre.
Più tradizionale, la prima. La più ampia retrospettiva dedicata a McCullin in Italia. Sgranata nelle sei sale che si aprono ai fianchi dell’atrio. Ogni sala dominata da una gigantografia a parete intera che riassume il motivo conduttore del capitolo. Quello iniziale è dedicato alla cornice della sua adolescenza, Fosbury. Ecco sul fondo i suoi amici in posa sulle arcate di un palazzo in costruzione, forse un relitto che racconta la guerra. Tutti indossano l’abito della domenica. Pronti alla festa. Decisi a trovar festa anche in quel sobborgo buio e desolato, di pozzanghere, interni spogli e soffocanti, di notte anche il transito di un gregge di pecore portate al macello. È il reportage da cui parte la sua carriera. Un giornale di prestigio lo ingaggia, i suoi bianco e nero fanno notizia.
Gli altri due capitoli esaltano il suo sguardo di inviato sui fronti di guerra. Il suo decollo è a Berlino, dove ad Est il regime ha iniziato a costruire il muro che spezzerà in due per oltre un ventennio la città. Lo scatto più intrigante? Quella siepe di volti e di corpi affacciati a quella barriera di mattoni che ora li imprigiona. Poi passa a raccontare guerre e rivolte. Dall’Irlanda in fiamme a Cipro devastata dall’attacco dei greci. E ancora l’Africa, dal Congo al Biafra. E l’Asia che si ribella all’invasione del Vietnam da parte degli americani. Qui per la prima volta vìola il suo rigido codice di testimone. Due soldati Usa hanno ucciso un Vietcong e lo stanno depredando. Lui li riprende mentre frugano nelle sue tasche. Poi appena si allontanano prende le carte che quel corpo straziato portava con sé e le dispone a corona attorno alla testa sfiguata, accanto alla sacca con i proiettili del suo fucile. A spiare e piangere quella vita bruciata restano le foto delle donne che aveva nel portafogli, una sorella? La moglie. È lo stesso McCullin a raccontare quel falso. Un appunto che accompagna l’immagine, ne commenta la nascita. Come fa e farà con altre foto. Un vero colpo d’ala di grande regia aver integrato con quei brani di diario le didascalie. Perché quelle parole dilatano gli echi delle immagini, fotografano l’istante dei suoi pensieri di fronte ad ogni frammento di scena rubato dal suo obiettivo. È la cronaca di un corpo a corpo continuo con l’orrore, il dolore, la paura che lo inseguono come fantasmi, costellano la Storia, conti da saldare con sé stesso e col mondo.
Un’ossessione che lo accompagna anche quando, con l’età che avanza, rinuncia a quella patente da inviato da battaglia, che gli ha dato il successo e la fama. E passa ad altri temi. Un tragitto d’autore ripercorso nelle sale sul lato opposto.
Eccolo misurarsi con l’archeologia, rivisitare le tracce dell’Impero romano
prima nelle colonie affacciate sul Mediterraneo o sulle rotte carovaniere, poi a Roma. Templi, colonnati, relitti di un dominio secolare naufragato. Un gigantesco mausoleo di pietre esposte al sole e al vento, di forme imponenti e leggiadre che raccontano un universo perduto. Eppure anche qui, annota nei suoi appunti, lo spettacolo della bellezza, quelle preziose schegge di memoria collettiva, gli fanno rinascere dentro il veleno di una sorta di rimorso stridente, un oblio di morti, sacrifici, schiavitù, sfruttamento, angherie che ognuna di quelle gigantesche rovine racchiude. E in cui lui si è specchiato in ogni parte di mondo in trasformazione e subbuglio.
Neanche la campagna del Somerset, dove si rifugia, gli consegna la pace che cerca. Certo c’è l’incanto di quei paesaggi spogli e sassosi, la quiete di quelle colline brulle e di quelle terre fangose arate dal transito degli abitanti, che continua a fermare nei suoi scatti, passeggiando all’aperto. Ma a lui sembra comunque un panorama d’attesa. Sfibrata da un cielo che sembra pronto a soffocare la terra. Una linea d’ombra perpetua, che inquadra ad ogni scatto. E poi accentua nel dosaggio dello sviluppo e della stampa. Regalandoci forse le immagini più intense del suo repertorio di maestro inquieto.
Anche Boris Mikhailov vive e registra la febbre di una perenne inquietudine. Una scontentezza anarchica che lo accompagna negli anni del regime, con cui non riesce a venire a patti e da cui viene emarginato. Ma lo insegue anche quando il suo paese, l’Ucraina, riconquista l’indipendenza e una precaria autonomia, alle quali lui sente che il popolo minuto e la classe politica che lo governa non sono ancora capaci di dare un volto per il futuro. Un disagio e un ritardo che con occhio indagatore e maligno lui scopre e fotografa nei volti, nei corpi e nelle abitudini della gente qualunque. Senza ostentare disprezzo, se lo prova lo camuffa con un velo di onnipresente ironia. E a volte lo mette in scena usando il suo stesso corpo. Non crede in un futuro che ha bisogno di eroi o di supereroi. Le sequenze di immagini che raccoglie con il suo obiettivo e organizza per capitoli, seguendo l’estro di esperimenti di linguaggio e posture d’immaginario, non si spingono fino a documentare gli scenari della guerra in corso. Ma le domande che sollevano non cambierebbero probabilmente poi tanto. E non finirebbero impantanate nella palude di propaganda da tifosi di calcio, che avvolge e offusca ogni ricostruzione del devastante conflitto in corso.