Al Teatro dell'Opera di Roma
Modernissimo Cesare
"Giulio Cesare in Egitto" di Georg Friedrich Händel messo in scena da Damiano Michieletto è la dimostrazione della modernità (possibile) dell'opera lirica: idee e emozioni insieme
Domenica scorsa, 15 ottobre, ero al Teatro dell’Opera di Roma e ho assistito a una delle messe in scena più affascinanti – ben pensate, ben realizzate e ben interpretate – che io abbia visto e sentito in tanti anni di consuetudine e frequentazione dei teatri d’opera italiani – non da esperta, s’intende, ma da semplice innamorata della lirica. Mi riferisco alla seconda rappresentazione del Giulio Cesare in Egitto di Georg Friedrich Händel (la prima si era tenuta il venerdì precendete, il 13 ottobre).
L’opera, datata 1724, è di per sé affascinante, un capolavoro della musica barocca, privo di un vero tessuto narrativo e tutto costruito su “arie” che si susseguono una dopo l’altra, come tanti “quadri di un’esposizione” legati dal filo di quella che il direttore Rinaldo Alessandrini chiama la «consapevolezza drammaturgica e psicologica» di Händel. Un «dispositivo complesso e articolato» in cui la musica e le voci si rispecchiano, si rispondono, si esaltano per la gioia dell’udito e della mente.
Ma nel Giulio Cesare di Roma c’è dell’altro, e molto, oltre alla perfetta direzione d’orchestra di Alessandrini, rigoroso conoscitore e interprete di Händel. Perché nella messa in scena romana l’aspetto spettacolare appare teso al massimo, curato in ogni particolare, con invenzioni continue che consentono di godere la musica arricchendola con inarrestabili sorprese e invenzioni.
Se, come ricorda lo stesso Alessandrini, «l’opera barocca è all’opposto del concetto di sintesi, è grande, retorica, piena di dettagli, di avvenimenti e di sorprese», la produzione romana restituisce pienamente questa ricchezza di stupori e meraviglie grazie all’altro suo deus ex machina: Damiano Michieletto, uno dei più intelligenti e innovatori registi d’opera nel panorama mondiale.
Il regista veneziano è da sempre al centro di polemiche furenti, tra chi considera ancora l’opera lirica come qualcosa di sacro e intoccabile, bloccato nel tempo a un’età non ben individuata ma che sta circa tra il primo e il secondo Ottocento, e chi al contrario la vede come uno spettacolo attualissimo e sempre risorgente (una nuova e sempre mitica Fenice), uno spettacolo completo che – grazie alla fusione tra musica, voci, regia, scena, luci, costumi, interpretazione – sa dar vita a momenti di teatro puro e difficilmente superabile. Michieletto è tra coloro che stanno rinnovando l’opera lirica con una profondità di studi e una facoltà di invenzione che trovano pochi confronti. E qui, nel Giulio Cesare, in questa musica fluida e cantante che – come egli stesso osserva – «permette di scavare nell’animo umano», dà il meglio di sé con invenzioni di forte presa simbolica e di intenso impatto emotivo.
In alcuni momenti mi sono quasi commossa, perché se c’è un filo conduttore in tutta l’opera, nella sua musica come nella sua struttura teatrale di racconto-non racconto, questo si trova nell’intreccio di amore e morte: Cesare e Cleopatra, i grandi, insuperabili amanti; Tolomeo e Cleopatra, fratelli legati da un fatale legame di odio-amore; Cornelia, vedova lacrimosa di Pompeo, e il figlio Sesto; il comandante Achilla, il carnefice, e Cornelia, la vittima; ancora Cornelia di cui è pazzo anche Tolomeo… tutti si innamorano di tutti e tutti muoiono o pensano di morire. E Michieletto gioca con la morte nell’indugiare sugli aspetti introspettivi e sul senso della fine che spira dall’inizio alla fine, nelle lunghe ma lievissime tre ore della rappresentazione.
Se tutto questo ha un senso – e a mio avviso ne ha molto – la perfetta intesa tra direttore d’orchestra e regista trova un indispensabile riscontro, un supporto essenziale nell’esecuzione e nella presenza dei cantanti, interpreti straordinari, da lasciare senza fiato: tre controtenori di primissimo piano come Raffaele Pe, «artista di riferimento e infaticabile promotore della musica barocca» (così recita la scheda a lui dedicata nel libretto d’opera), uno straordinario Giulio Cesare la cui entrata in scena all’aprirsi del sipario lascia sbalorditi per potenza e maestria di una voce tanto insolita quanto affascinante; come il celebre Carlo Vistoli, un Tolomeo spezzato, disperato e insieme ironico, tanto cattivo da risultare quasi grottesco ma anche molto credibile nella sua sete di morte; come il giovane americano Aryeh Nussbaum Cohen, astro nascente del canto barocco, un Sesto Pompeo dalle mille sfumature, che modula il suo timbro più alto, quasi da sopranista, in elegante scioltezza.
Se i tre controtenori sono un po’ la novità per il pubblico del teatro, va detto che anche le voci femminili sono superbe, quella della bravissima Sara Mingardo, una Cornelia dal registro patetico tesissimo fin dalla prima aria “Priva son d’ogni conforto”, e quella dell’altrettanto intensa Cleopatra, il soprano britannico Mary Bevan, la cui limpida voce sa intrecciare “contrasti” sorprendenti con quelle altrettanto pure di Giulio Cesare e Tolomeo.
Un difetto di questo Giulio Cesare? Essere finito troppo presto. Tanto che vien voglia di rivederlo, anche perché credo davvero che si tratti di un’occasione eccezionale, una dimostrazione esemplare di come sia ancora e sempre possibile fare teatro, intrecciando musica, immagine, canto, gesto per creare una bellezza che si nutre di storie antiche per parlare a questo difficile. oscuro presente. Per farlo sognare ancora, nonostante tutto.
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La fotografia nel testo è di Vincent Pontet.