Il 30 ottobre alla Casa delle Letterature
Il caso Sandro Onofri
Ritratto di Sandro Onofri in occasione della ristampa di “Luce del Nord” e dell'uscita della raccolta di reportage "L'Italia ieri mattina". E lunedì prossimo si assegna a Roma il premio intitolato a suo nome
Lunedì prossimo, 30 ottobre, presso la Casa delle Letterature di Roma si svolgerà la cerimonia finale del Premio Sandro Onofri dedicato al reportage letterario. In quell’occasione saranno presentate anche due novità editoriali che riguardano lo scrittore romano morto prematuramente nel 1999: la riedizione del romanzo Luce del Nord da parte di Elliot e la pubblicazione di una raccolta di reportage intitolata L’Italia ieri mattina da parte di Succedeoggi Libri. Nell’occasione, pubblichiamo questo articolo di Andrea Carraro dedicato a entrambi i libri.
* * *
Luce del nord, il primo libro di Sandro Onofri, il suo esordio narrativo, del 1991, meritoriamente ristampato da Elliot; vorrei provare a rileggerlo con gli occhi di oggi, trent’anni dopo, facendomi condurre, orientare, dalla bella postfazione di Nicola Fano, un micro-saggio obbiettivo, esaustivo su tutta l’opera del compianto scrittore romano, precocemente scomparso, nel 1999. Rendendo conto anche della sua attività giornalistica, e giornalistico-narrativa, come pure di quella didattica, di insegnante-scrittore (Registro di classe uscito postumo, 2000).
Dunque, riletto Luce del nord con gli occhi di oggi, posso dire di aver provato, la stessa forte impressione di verità, di realistica necessità, che avevo provato allora, quando il libro uscì con Theoria, quando me lo segnalò Enzo Siciliano.
Crediamo che sia nelle tue corde, mi aveva detto, laconico, allungandomi una copia del libro sopra la scrivania; eravamo nella redazione della rivista Nuovi argomenti, un ufficietto ingolfato di libri e scartoffie in uno scantinato della Mondadori, nella sede storica di via Sicilia. Lo presi in mano, lo sfogliai, lessi il titolo, Luce del nord, poi la quarta, “La difficile gioventù di Angelo, in una Roma cattiva e stremata”, e ancora la biografia, stringatissima, in una bandella quasi vuota: «Di origine proletarie, Sandro Onofri è nato e cresciuto in una borgata della periferia romana. Ha trentacinque anni. Ha fatto il rilegatore e ora insegna in un liceo». L’altra bandella era invece quasi piena di testo, e nelle ultime righe dichiarava: “Nella tradizione che va dai racconti di Moravia all’epopea pasoliniana, Sandro Onofri fa sentire la sua voce autentica, un timbro acre ma vero nella narrativa italiana di questi anni”.
Come poteva non interessarmi? Lo sentii subito come un sodale, un compagno di strada. Parlai nel pezzo di realismo icastico, in controtendenza rispetto al gusto dominante, di sensibilità sociologica che non aveva uguali nel panorama letterario: nella prima parte Onofri con poche e incisive pennellate dipinge fra l’altro un ritratto non convenzionale di una certa esperienza di vita errabonda e sregolata. I miti sono quelli dell’epopea underground con uno spirito di osservazione pieno di allegro cinismo, e di pietà. Che per me era la sigla vincente di tutto il romanzo.
La lingua di Onofri era una lingua colta, educata sui classici, ricordo che insegnava italiano in un liceo della Magliana, – una lingua che veniva anche dalla strada, dalla periferia, Pasolini era per lui un nume tutelare. C’era anche un filo diretto con Pasolini, rappresentato dalla figura di Vincenzo Cerami, colui che lo aveva scoperto e che era stato a sua volta “scoperto” da Pasolini sui banchi di una scuola media di Ciampino. Cerami, – già scrittore famoso, autore del Borghese piccolo piccolo (1976, uno dei migliori romanzi degli anni 70) lo spronava a tirar fuori la sua verità semplice, – dal blog della scrittrice Sandra Petrignani in un suo omaggio a Vincenzo Cerami – a non perdere mai quell’autenticità schietta e popolana che lo faceva diverso da tutti noi figli di una borghesia contestata, ma pur sempre borghesi”.
Nel mio articolo su N.A., però, gli rimproveravo di aver esagerato appena troppo sul fronte dei travestimenti, dei cambi di identità, di ispirazione pirandelliana, rendendo alcune pagine poco verosimili. Ma mi sbagliavo. Luce del Nord è il romanzo di formazione di un personaggio sempre un po’ sradicato, dovunque si trova, votato al fallimento, ma anche voglioso di migliorarsi, cinico ma anche sentimentale: – «È vero che poi tutto sommato io scrivo libri realistici, – ha detto Sandro in un’intervista – però dentro c’è la ricerca di una figura molto importante […] che è l’iperbole. Ecco, la romanità è garantita dall’iperbole che in romanesco è l’allargasse, l’esagerazione. I personaggi miei sono sempre un po’ esagerati, sempre senza pelle, con i nervi di fuori».
Abbiamo un protagonista narrante trentacinquenne, Angelo, reduce da un lungo viaggio di sette anni in America, durante il quale ha perso tempo, fra festicciole alcoliche e corse in moto. Si è appena ripreso da un grave incidente in motocicletta, e rientrato in Italia, decide di presentarsi alla famiglia sotto le mentite spoglie di un fantomatico suo amico Cesare, conosciuto in America: lo fa in ospedale dalla madre gravemente ammalata, parlando alla sua vicina di letto, un donnone – scriveva l’autore – “un donnone dalla figura altèra e dallo sguardo fulminante” – che il nostro raggira allegramente, mentre sua madre, annebbiata dai farmaci, non lo riconosce. E continua a recitare con la cognata vedova, Clara, ascoltando le sue giaculatorie contro l’irresponsabile Angelo, che se ne sta in America a farsi i suoi comodi, fregandosene dei problemi economici della famiglia, della salute dei genitori… Di ragioni per nascondersi, o per fingersi qualcun altro, Angelo ne aveva… Finisce per mettersi con Clara, l’attraente cognata, che lui aveva sempre ammirato da lontano, oramai vedova, e madre di un figlio piccolo. Finge di avere in corso una causa di separazione negli Stati Uniti, per non impegnarsi, per evitare di doverla sposare, cosa che lei – la pazza – ha pericolosamente ventilato, ma lo fa ancora per una sua attitudine alla recita, e continua a fingere, al funerale della madre, al cospetto di un padre sconvolto dal dolore, che un po’ misteriosamente non lo riconosce.
Ma i genitori davvero non lo riconoscono, oppure non vogliono riconoscerlo? – mi chiedo, oggi rileggendo certi passaggi.
E se considerassimo tutta quanta la vicenda, freudianamente, come un lungo sogno di disconoscimento, di negazione, da parte dei suoi genitori?
Anche se il padre lo aveva accompagnato fiero alla seduta di laurea, restando in disparte, chiacchierando coi parenti e gli amici degli altri laureandi, e ricomparendo solo dopo la cerimonia, esultante, già nel corridoio della facoltà: “Qui siamo cazzuti, eh!”, dopo aver elargito una mancia cospicua al bidello antipatico. E lo porta in officina a festeggiarlo coi suoi colleghi operai, brindando alla salute del neodottore col vino rosso, “E chi se lo immagina Angelo dottore?”, mangiando le pastarelle.
Nicola parla opportunamente di un realismo visionario di Sandro Onofri, “un Faust in sedicesimo, in cerca di sé, di un qualunque equilibrio cognitivo e delle regole che sorreggono la casualità del mondo: un giovane uomo che crea un suo doppio, Cesare, per andare in cerca del mistero di Angelo”.
Nel libro, in quell’antieroe che non riesce a prendersi sul serio, il tema del doppio si intreccia ironicamente a quello del figliol prodigo, del marito ipotetico e mancato, del padre di famiglia, tutti in bilico sulla farsa; comunque un uomo in fuga (dalla famiglia, dal peso delle responsabilità, da se stesso, dai propri connazionali), che alla fine se ne torna in America, come il Mete, personaggio de Gli sfiorati di Veronesi, che emigrava nelle Filippine al seguito del suo domestico; il ceto era diverso, ma c’era lo stesso senso di estraneità e lo stesso sentimento di evasione da quella Italia di lustrini e corruttele e televisioni e mafia e tutto il resto che sappiamo: gli spiriti liberi sognavano di evadere e scappare.
Nei personaggi di Luce del nord, nella voce narrante, ci ho sentito echi della migliore e più acre commedia all’italiana, il Bruno Cortona del Sorpasso, il Cerami-Monicelli di Il borghese piccolo piccolo… il Troisi/Benigni di Non ci resta che piangere, ecc. e ho pensato anche all’autartico Nanni Moretti, nel suo “morboso disgusto”, nelle sue “pulsioni anarcoidi” (in bandella dell’edizione Theoria).
Quella giovane donna che schiaccia i punti neri sulla schiena del suo amante pareva uscita dalla penna di Age e Scarpelli… “La scena che ci si spalancò davanti era esattamente come l’avevo immaginata. Oberdan stava seduto su uno sgabello davanti al televisore, in pantaloni e canottiera. Teneva i gomiti sulle ginocchia in modo da agevolare il compito a Clara la quale, seduta dietro di lui su una sedia, gli aveva alzato fin sulla nuca la canottiera e cacciava famelicamente sulla schiena nuda e sulle spalle i “punti neri” più evidenti “.
Ma c’è un’altra scena terribile (genialmente perfida) in Luce del nord, che riguarda sempre Oberdan, l’odiato cugino, mentre racconta al protagonista, a riprova del proprio cinismo, quasi vantandosene, come avesse bruciato la vagina della sua donna con la sigaretta: “Non mi fidavo. Nel momento in cui l’ho vista distratta, le ho ficcato la mano tra le cosce e le ho bruciato la vagina col mozzicone della sigaretta. Gli urli! Non te li puoi immaginare! Poi chiaramente l’ho portata subito all’ospedale, le ho pagato tutte le cure necessarie, perché capii di aver esagerato. Però intanto quel mese di lontananza l’ho passato tranquillo.”
Leggendo ho pensato, queste sono le vendette che si prende un narratore della realtà quale era Sandro Onofri contro i personaggi che disprezza. Smarcando sempre il giudizio, ma mostrandoli senza sconti. Oberdan era antropologicamente, moralmente, culturalmente, contiguo ai miei criminali del Branco. E infatti due anni dopo Sandro fu il primo a recensire il mio libro sulle colonne de l’Unità.
Era un realismo anche aspro, ruvido, quello di Sandro, che tuttavia sapeva aprirsi liricamente quando, per esempio, dopo un litigio con una ragazza americana, che ritrova inaspettatamente a Roma, scende le scale sotto Ponte Sisto e arriva al fiume: “D’incanto i rumori della città sparirono o, meglio, cambiarono in un ronzio che si confondeva col risciacquo del Tevere, e sembrava accompagnarne il corso lento e pesante. E poi se alzavi la testa ecco l’incendio del tramonto. Bruciava tutto: nuvole, cielo e tetti”.
In queste immagini, nella prosodia di queste frasi, Filippo La Porta ci sente dentro Pasolini: “In entrambi cogliamo il senso di un nucleo riposto dell’essere che resiste alla storia, all’etica, ai doveri civili stessi, e che sembra appartenere ad un “altro mondo. Il soffuso “ronzio” di Onofri richiama la “ronzante pausa in cui la vita tace” delle Ceneri di Gramsci”
Voglio ricordare anche quest’altro frammento, dove con precisione sintetica e quasi cinematografica, Sandro descrive un degradato e opprimente paesaggio urbano, che fa pensare, senza mai nominarli, all’America degli ultimi, dei reietti, delle minoranze… La descrizione del Buco, a New York: “quel tunnel che dai binari della metropolitana linea I portava alla “175 W”, così lo chiamavano, il Buco, The hole, un budello buio di duecento metri, attraversato da un vento micidiale e umido. Le lampade al neon, sistemate orizzontalmente lungo le pareti, erano quasi tutte rotte, e le poche che funzionavano mandavano una luce debole e troppo gialla. Sul pavimento scorreva perennemente un rigagnolo d’acqua che filtrava dalla strada e colava giù dai muri tormentati da quei motti misteriosi. Bisognava stare attenti a non scivolare”.
Nel finale, il patto di autenticità col lettore resiste, sul filo della satira metaletteraria e si ride, con una risata anche liberatoria, dopo tanta sofferenza, tanto cinismo! Angelo è appena sbarcato all’aeroporto di New York JFK, squattrinato (ha speso tutto quello che aveva nel biglietto dell’aereo), non sa a che santo votarsi, si fa offrire la colazione dalla barista, alla fine chiama un’amica al telefono pubblico, un’amica con cui si era lasciato male, e comincia a parlarle della madre, ch’è morta, ma che lui per l’occasione resuscita, le dice che la vecchia è stata molto male e poi: “E allora mi è venuto in mente di sfruttare quel momento, e ho cercato di improvvisare lì per lì una storia che fosse capace di commuoverla. Mi sentivo pronto, forte, sentivo il ferro rispondere alle mie mani. «È una storia molto complicata» ho cominciato a dire, senza avere ancora ben chiaro in mente come proseguire. «Tu sai che io ho un fratello, vero? Che si chiama… Renzo! Ecco, lui doveva sposarsi con la sua fidanzata, Lucia. Ma tu sai che qualsiasi cosa vuoi fare in Italia, devi fare i conti con la mafia… Bene, senti che è successo. Il giorno prima del matrimonio, il prete che doveva sposarli, mentre tornava bel bello dalla passeggiata verso casa, con la Bibbia nella mano, è stato fermato da due delinquenti che lo hanno minacciato dicendo: «Questo matrimonio non s’ha da fare, né domani né mai».
«Oh! Ma è assurdo!» ha esclamato Regina, scandalizzata. «E perché?».
«Perché?» ho risposto, ormai preso nella mia narrazione. «Perché un figlio di puttana, un certo Don Rodrigo, un mafioso, si era innamorato di Lucia e non voleva che lei sposasse mio fratello! Ti rendi conto? E il bello è che quella merda di prete, appena sentito il nome di Don Rodrigo…
Quando ho attaccato sono tornato di corsa alla panchina dove c’era la statua e mi sono steso, con la testa appoggiata su una sua coscia. Stavo proprio bene. Sentivo il vento sbattere violentemente oltre i muri degli edifici intorno a me, fischiare nelle strade, smuovere l’aria sopra i terrazzi, ma nella piazzetta non entrava, pareva di stare in una bolla di vetro, calda calda e protetta.
Ed è finita che mi sono addormentato.
Ecco, questa era la formula che aveva trovato Sandro Onofri per congedarsi definitivamente dal lettore, divertito dall’ennesima pantomima, propinata a quella americana credulona, e quasi pacificato. “Pareva di stare in una bolla di vetro, calda calda e protetta”.
Ma la scrittura di Onofri non si esauriva nel romanzo. Egli, come sappiamo, scriveva anche magnifici reportage giornalistico-narrativi, nel bellissimo Vite di riserva (sugli indiani d’America) del ‘93, e ne Le magnifiche sorti – Racconti di viaggio (e da fermo). Adesso la Succedeoggi Libri ha fatto uscire un aureo libriccino rosa, l’Italia ieri mattina, che raccoglie alcuni dei migliori reportage che Onofri scrisse per Diario della settimana e per l’Unità, alcuni dei quali inediti in volume (prefazione di Bruno Quaranta). Bellissimo il primo, Pianeta giovani, un Personal-essay digressivo, meditativo, poetico: il ritratto di un suo alunno difficile e violento, Fausto, che finisce anche in carcere per un pestaggio a un ragazzo arabo, e che lui non riesce a salvare, con un magnifico elogio della lentezza (lentezza nell’apprendimento), e delle pause del lavoro: “Sarà perché vengo da una famiglia di artigiani, ma sono stato educato a considerare le pause non semplicemente come una convenienza e un lusso, ma come una necessità”.