Ida Meneghello
Diario di una spettatrice

Zuppa di cinema

"Il sapore della felicità" con Gerard Depardieu racconta di uno chef che va in cerca dell'umami, il sapore dei sapori. Un film che insegue il primato della raffinatezza senza mai raggiungerlo. Anzi!

Ci sono quattro sapori che il nostro palato distingue con chiarezza: dolce, amaro, aspro, salato. È così in tutto il mondo, vale per tutte le lingue. Ma nel 1908 i giapponesi scoprirono un quinto sapore che semplicemente indicarono con la parola “umami” ovvero saporito, sapido. Un sapore saporito di cosa saprà? E quali cibi contengono questa misteriosa qualità? Sono le domande che – nel film Il sapore della felicità – si fa Gabriel Cravin, chef francese tristellato che col suo Monsieur Quelqu’un detta legge in un mondo in cui gli chef sono più potenti dei politici e dei guru. Gabriel è arrivato a fine corsa, non ne può più di questa fiera delle vanità, il respiro ansimante, il corpo ingestibile per l’eccesso dei chili e dei rimpianti accumulati negli anni. Parte dunque per il Giappone alla ricerca del sapore saporito, in realtà del gusto perduto per la vita. Perché quarant’anni prima fu proprio l’umami di uno sconosciuto chef giapponese a decretare la sua unica sconfitta in un concorso internazionale.

Scoprirà non solo il segreto di un sapore, ma la ricetta per guardare la vita e le relazioni umane con altri occhi. Un confronto fra culture agli antipodi che avrebbe potuto ispirare un film di ben altro spessore e profondità rispetto alla pellicola firmata da Slony Sow, un regista che troppo platealmente vuole accontentare il palato del cliente/spettatore. Se si fosse presentato a Masterchef, il trio degli implacabili Barbieri-Locatelli-Cannavacciuolo lo avrebbe certamente bocciato giudicando il piatto sbagliato per la presenza di troppi ingredienti (quindi l’assenza di un’idea) e sbilanciato per un sapore così ingombrante da cancellare tutti gli altri: Gérard Depardieu e la sua fisicità smisurata.

Al film manca proprio quell’esprit de finesse che contraddistingue l’umami come cifra elegante e inafferrabile della civiltà nipponica in tutte le sue espressioni, cucina inclusa. La ricerca del sapore misterioso e del gusto per la vita che quel sapore racchiude, si ferma alla superficie di una storia ben più complessa che le prime inquadrature (il corpo immenso di Depardieu e quello smilzo del giapponese immersi nei vapori di un bagno pubblico) facevano intravedere. E per dirla con Barbieri, il temuto effetto “mapazzone” è assicurato.

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