Diario di una spettatrice
L’Africa e il coraggio
"Io capitano", il film di Matteo Garrone premiato a Venezia con il Leone d'argento e il Premio Marcello Mastroianni è di quelli da non perdere. Per come racconta il sogno e il coraggio di due ragazzi africani che vanno in cerca del loro mondo
Quanto siamo disposti a rischiare per realizzare i nostri sogni? Seydou e Moussa, i protagonisti adolescenti del nuovo film di Matteo Garrone Io capitano, rispondono senza esitare: tutto, gli affetti familiari, le certezze di una vita magari precaria ma felice, il paese in cui sei nato, l’identità, persino la morte. Perché il sogno di portare un giorno nel mondo la musica dell’Africa che ti esplode dentro – e saranno allora i bianchi che ti chiederanno l’autografo – questo sogno ingenuo vale qualsiasi pena, qualsiasi dolore. È questa la domanda che il regista impone in fondo allo spettatore raccontando la parabola a lieto fine dei due cugini che partono da Dakar per raggiungere l’Europa. Partono senza dire niente alle madri e alle sorelle perché non c’è l’urgenza di una guerra da cui scappare, il Senegal non è la Siria.
Ma il sogno di realizzarsi, come per tutti gli adolescenti, è più potente della paura di non farcela, di morire ai margini di una pista nel deserto, torturati in una prigione libica, affogati in mezzo al mare da leggi inique che negano il più umano dei soccorsi. Non c’è retorica né paternalismo nel racconto della loro odissea che attraversa l’Africa dal Senegal fino alla Libia per concludersi davanti alla costa siciliana, sotto le pale assordanti dell’elicottero della guardia costiera, con Seydou che sfoga tutte le sue paure, tutto il suo dolore, tutta la sua rabbia, nel grido liberatorio “io capitano!” battendosi il petto, ridendo con gli occhi pieni di lacrime per aver portato in salvo, lui che non aveva mai guidato una barca né sapeva nuotare, la sua gente, uomini, donne, bambini che non sono numeri, non sono statistiche, sono vite e sogni.
Così il film di Garrone offre un’altra prospettiva alla narrazione tragica dei migranti, cronaca quotidiana cui rischiamo di assuefarci: la racconta con i loro occhi, occhi che riescono a vedere la poesia della vita anche nei momenti più drammatici. Ci sono due scene da nodo in gola e non sono quelle crude, sono quelle oniriche: la donna morta nel deserto che vola leggera tenuta per mano da Seydou come nel celebre quadro di Chagall, un aquilone cui aggrapparsi per sollevare, nonostante tutto, il cuore e la speranza. E lo spirito alato che come Ariel nella tempesta shakespeariana accompagna Seydou dalla madre per vederla un’ultima volta.
Fresco vincitore del premio per la miglior regia alla Mostra del Cinema di Venezia nonché del Premio Marcello Mastroianni per l’interpretazione di Seydou Sarr, il film di Matteo Garrone vale assolutamente la visione, per questa poesia, per la fotografia e la musica che mi hanno riportato l’odore dell’Africa, per le sonorità del Wolof impossibile da doppiare, per la bravura di tutti gli attori che hanno recitato sé stessi. Ma soprattutto perché Io capitano ci ricorda che ci vuole coraggio per vivere, che è questo a fare la differenza, e che non possiamo arrenderci alla banalità del male.
Accanto al titolo, Matteo Garrone e Seydou Sarr a Venezia (Foto Ansa)