Cosa ci insegna la Storia
Ahi, l’onore!
Alexander Hamilton, Évariste Galois, Aleksandr Sergeevic Puškin: tre storie di duelli ottocenteschi sospesi tra onore e banalità. Dall'odio alla paura (con una coda al femminile, perché non è stata solo una questione tra maschi...)
Il diciannovesimo secolo ha ucciso in duello alla pistola un gruppo non indifferente di uomini geniali. Quanti uomini banali? Non è registrato.
L’insensatezza del rito cruento è palese ai nostri occhi di oggi, e non mi addentro, in questa riflessione, nell’affascinante terreno delle radici antropologiche e storiche del duello nel mondo occidentale come in quello orientale, con tanto di complessi “methodi pugnandi”. Voglio soltanto riflettere su tre casi di questa tradizione mortifera. Maschile, è inutile sottolinearlo; le donne non sono così stupide.
A ogni notizia di morte prematura, che sia dovuta a malattia o incidente, per non parlare della guerra, ci prende la sensazione angosciosa dello spreco di vita, di destino mancato, di sogno interrotto. Ma nella morte in duello c’è la “scelta” di rischiare la vita, una scelta dettata dall’orgoglio (la “vana-gloria”, ostentazione futile di un’alta opinione di sé stessi) e dalla stupidità. La morte era evitabile ma non è stata evitata in base alla ritualizzazione sanguinaria di un discutibile senso dell’onore che mette in atto il banale e primitivo – ma codificato – desiderio del maschio di azzannare l’altro, oggetto di odio. O di difendersi da quell’odio.
Manzoni ne fa una metafora illuminante in un flashback al capitolo IV° del suo romanzo. Ludovico, figlio di un ricco mercante, “andava egli un giorno per una via della sua città” insieme a due guardie del corpo (due “bravi”) e un servitore di casa (un padre di otto figli, di nome Cristoforo). Incontra un nobile, “un signor tale, arrogante e soperchiatore di professione, col quale egli non aveva mai parlato in vita sua ma che gli era cordiale nemico, e al quale egli rendeva pur di cuore il contraccambio: giacché è uno dei vantaggi di questo mondo quello di potere odiare ed essere odiati senza conoscersi.” Costui procede in senso opposto, seguito da quattro guardie del corpo; entrambi camminano rasente un muro, e poiché il muro si trova sul fianco destro di Lodovico egli avrebbe diritto che l’altro gli ceda il passo (“dove mai si va a cacciare il diritto!” chiosa Manzoni), mentre il nobile esige la stessa cosa vantando suo quel “diritto”, in quanto aristocratico. Ecco che inizia il duello impari, violento e cretino tra i due giovanotti e i loro “bravacci”. Lodovico viene ferito e quando il suo avversario gli piomba addosso con la spada, il Cristoforo lo protegge venendo trapassato dall’arrogante rivale. Lodovico uccide a sua volta il nobile. A questo punto i bravi di entrambi si danno alla fuga, mentre Lodovico rimane steso in strada, ferito, accanto ai cadaveri di Cristoforo e del signor tale, arrogante e soperchiatore. Tutti noi italiani sappiamo che Ludovico, per espiare l’assassinio e la morte di un brav’uomo che lo ha salvato, diviene Fra Cristoforo.
Splendida metafora letteraria della stupidità e della scelleratezza della pratica del duello. Quanto al pentimento e all’espiazione, è scelta manzoniana. Ho l’impressione che, nella realtà, la stragrande maggioranza dei duellanti assassini tenda a non pentirsi.
Voglio raccontare, come dicevo, tre illustri (assai differenti) duellanti del diciannovesimo secolo.
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Comincio da Alexander Hamilton. Il suo volto è impresso sulla banconota da 10 dollari. È un personaggio memorabile e celebrato; nel 2016, un musical sulla sua vita ha vinto il premio Pulitzer e ha avuto 16 nominations ai Tony Awards.
Hamilton nasce nei Caraibi nel 1755. Studente ventenne, sposa la causa rivoluzionaria, si arruola e si batte valorosamente accanto a George Washington. Trentenne, è uno dei principali artefici della nascita della Repubblica americana e tra i più brillanti autori della Costituzione. Fonda e guida il partito federalista contro il partito repubblicano di Jefferson; sono suoi i principi fondamentali del federalismo moderno.
Di corporatura sottile e con due bellissimi occhi tra l’azzurro e il viola, Hamilton è un uomo coraggioso e un politico deciso. Nominato da Washington, è il primo Segretario al Tesoro degli Stati Uniti, ruolo che svolge in maniera brillante, risanando le finanze pubbliche e i crediti internazionali. Convinto che soltanto una banca pubblica possa essere in grado di finanziare lo sviluppo con il solo scopo del bene comune, Hamilton crea la Banca federale. A 25 anni sposa per amore, e non senza contrasti con la famiglia di lei, una donna bella, ricca e intelligente, Elizabeth Schuyler; una bruna dagli occhi neri e con un carattere insieme dolce, vivace e determinato. Elisabeth è sempre accanto al marito “consigliandolo e facendo ordine nei suoi lavori”. Supervisiona i suoi scritti, tratta con l’editore dei suoi Federalist Papers, è accanto a lui e lo consiglia in tutta la sua carriera politica. Hanno otto figli. Attraversano una crisi quando lui ha una relazione adulterina. Per evitare attacchi e speculazioni, Hamilton l’ammette pubblicamente. Elizabeth, incinta del loro sesto figlio, si allontana ma, dopo alcuni mesi ritorna con lui e non si separeranno più. Il loro primogenito si chiama Philip. Padre e madre lo adorano e così la sorella secondogenita Angelica. Il giovane, studente di legge, ha 19 anni quando sfida a duello un ventisettenne avvocato, tale George Eacker, che in un discorso pubblico aveva politicamente insultato suo padre e insulta anche lui, quando Philip gli chiede spiegazioni. Il duello, proibito nello stato di New York, si svolge in New Jersey, sulle alture di Weehawken sulla riva dell’Hudson, domenica 22 novembre 1801, a mezzogiorno. Philip è colpito e muore dopo una lunga agonia. I genitori (la madre è incinta dell’ottavo e ultimo figlio) sono devastati; la sorella Angelica, 17 anni, ha un breakdown nervoso così violento da passare nella follia il resto della sua vita. Una lezione tragica per Hamilton. Certo, ma non sufficiente da impedirgli di affrontare a sua volta, soltanto tre anni dopo, un duello e, caso vuole che anche costui sia un avvocato. E non solo, è il vice-presidente degli Stati Uniti Aaron Burr. È una delle figure più controverse nella storia di questo paese; The Times lo ha definito, nel 2008, “il peggior vicepresidente americano di tutti i tempi”. Burr sfida Hamilton ritenendolo colpevole di animosità, di attacchi pubblici e della sua sconfitta a Governatore dello Stato di New York. Burr ha idee molto più progressiste di Hamilton in molti campi, in quello sul ruolo pubblico delle donne, ad esempio. Ma non è per questo che si battono. Burr è un cospiratore ambizioso e un gaudente, capace di ferocia ma anche di umanità. Per lui, la politica, giusta o sbagliata che sia, non è al servizio dei cittadini come pensa Hamilton, ma è “divertimento, onori e guadagni”. Il duello tra lui e Hamilton si svolge mercoledì 11 luglio 1804, nello stesso luogo dove si era scontrato ed era morto il figlio di Hamilton. Ci sono rapporti contrastanti sullo svolgimento del duello. Tutti e due sparano ma non si sa se Hamilton abbia sparato a vuoto di proposito o premuto il grilletto involontariamente, vuotando l’arma in aria dopo essere stato colpito. Hamilton muore. Ha 49 anni. Prima di avviarsi al duello ha scritto alla moglie: “Adieu, migliore delle mogli e migliore delle Donne. Abbraccia i miei amati figli per me.”
Aaron Burr, l’assassino di Alexander Hamilton, è un personaggio di fascino sinistro, un corrotto, maledetto, ambiziossimo gaudente. Nel 1973, Gore Vidal ha scritto su di lui uno splendido romanzo storico (“Burr”, edito in Italia due anni dopo da Bompiani nella traduzione di Pier Francesco Paolini, e ripubblicato da Fazi nel 2022). Con la sua iconoclastica ironia, Vidal attacca e demolisce il “mito americano”, dà dell’incompetente a George Washington, dell’ipocrita a Thomas Jefferson, difende in parte la discussa figura di Burr, e dipinge un mondo politico intriso di corruzioni, menzogne, follie e complotti. Ma questa è un’altra storia.
All’ombra, ma forse dovrei dire “al centro”, di questo duello (del doppio duello) c’è una donna che, in seguito agli infami “affari d’onore” tra maschi ha perso il primogenito e il marito e ha visto impazzire una figlia. Elizabeth sopravvive al marito per mezzo secolo. Fino alla sua morte, a 97 anni, si batte per conservare e difendere il pensiero e gli scritti di Alexander. Fonda il primo orfanatrofio di New York. Porta, legata al collo, una piccola busta dalla quale non si separa mai. Contiene una poesia che il marito aveva scritto per lei ai tempi in cui la corteggiava.
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Veniamo al secondo duellante. Siamo in Europa, in Francia. Sulla Gazzette des Tribunaux del 7 giugno 1832 si legge: “Il giovane Évariste Galois, di 21 anni, buon matematico, conosciuto soprattutto per la sua ardente immaginazione, è morto il 31 maggio 1832 all’ospedale Cochin nell’attuale XIII° arrondissement di Parigi, dopo 12 ore di agonia in seguito a una peritonite acuta determinata da un proiettile sparato da 25 passi.”
Indirizzato agli studi classici, questo ragazzo viene folgorato, durante gli anni in cui frequenta il famoso liceo parigino Louis-le-Grand, dai testi sulla “teoria delle funzioni analitiche” del grande matematico torinese Giuseppe Lagrangia (i francesi se ne erano impossessati trasformandolo in “Lagrange”). Il giovane Évariste, come dice un suo biografo, “… immersosi nella matematica, viene trascinato con una vertiginosa velocità dal folle desiderio di andare in avanti, provocando e pungolando, in maniera originale e bizzarra, compagni e insegnati; era originale e ribelle nel suo comportamento, ma senza cattiveria, era anzi dolcissimo e con uno spirito davvero innocente.” Abbandona tutti gli altri studi, assorbito completamente dalla matematica (il biografo scrive Mathématiques, al plurale e con la M maiuscola). Ha un solo pensiero, entrare all’École Politechnique. Dicono i suoi insegnanti di matematica: “Questo allievo ha una marcata superiorità sui suoi condiscepoli (…) e lavora soltanto ai livelli superiori delle Matematiche.” A 17 anni, Évariste fa delle scoperte di grandissima importanza sulle teorie delle equazioni. Ma entrare all’École Politechnique non è facile, viene respinto perché, come scriveranno più tardi, succede spesso che “Un candidato di una intelligenza superiore sia cassato da un esaminatore di una intelligenza inferiore.” Évariste è però accettato all’École Normale, dove studia e coltiva il suo spirito libertario e repubblicano, nell’atmosfera politica tesa e reazionaria del governo di Carlo x°. Si iscrive alla perseguitata Sociétè des amis du peuple e, in nome delle sue idee repubblicane, finisce per scontrarsi duramente con il grezzo direttore dell’École Normale che lo caccia. I compagni, vigliaccamente, non lo difendono. La rabbia e l’ingiustizia feriscono Galois ma non lo fermano. Inizia immediatamente a tenere, presso la libreria Caillot al n° 5 di rue Sorbonne, un corso pubblico di algebra superiore su “nuove teorie” tra cui la “teoria delle equazioni risolvibili attraverso i radicali” e quella delle “funzioni ellittiche trattate dall’algebra pura”. Soltanto nel xx° secolo ci si rende conto che Évariste Galois aveva gettato le basi di una nuova teoria dei corpi, al più elevato grado della moderna astrazione matematica. Nel frattempo, dice lui stesso, “il mio cuore si rivoltò contro la mia testa”. Asseconda la passione politica e dedica anima e corpo al sogno di un mondo nuovo, giusto, libero, senza re o dittatori. Considerato pericoloso, viene arrestato e processato e, nel processo, pronuncia lui stesso un’arringa appassionata di autodifesa. I giurati lo assolvono. Non resta libero nemmeno un mese perché viene di nuovo arrestato per precauzione, in occasione di una manifestazione repubblicana. Si ritrova di nuovo in prigione.
Il giovane matematico fa paura al potere. Lo fanno marcire in prigione per diversi mesi. Scrive Évariste: “Odio, ecco tutto. Chi non lo sente profondamente, questo odio del presente, non conosce davvero l’amore per il futuro.”
In prigione, si rimette a lavorare, lavora con la testa, camminando, com’era sua abitudine, e lo fa per diverse ore di seguito; medita, girando in tondo nel cortile, ed elabora lo studio sulle “funzioni ellittiche”. Il celebre scienziato rivoluzionario François Vincent Raspail è nella stessa prigione (molte, ne conoscerà nella sua coraggiosa carriera politica). Raspail prende in simpatia Évariste, gli dà il soprannome goldoniano di Zanetto, il gemello veneziano tontarello che, nella nera commedia, muore ucciso; e così descrive il giovanotto: “Il nostro povero Zanetto ha, nel suo gracile corpo, tanto di quel coraggio che darebbe la sua vita per la centesima parte della più piccola buona azione (…) Grazia per questo bambino così mingherlino e così temerario, sulla cui fronte lo studio ha già inciso rughe profonde e, nello spazio di pochi anni, la conoscenza di un’intera vita passata nelle più intense meditazioni! In nome della scienza e del merito, lasciatelo vivere! Fra tre anni, Zanetto sarà il grande Évariste Galois!”
Amara profezia di morte prematura (Zanetto) e ambigua profezia sul destino del nostro (non vivrà altri tre anni ma certo, sì, sarà il grande Galois).
Raspail riporta un toccante dialogo tra lui e Évariste, “Amico mio…” gli dice il giovane matematico, “… io porto due uomini in me e sfortunatamente indovino chi avrà la meglio sull’altro. Sono troppo impaziente di arrivare alla meta (…) le passioni della mia età sono tutte impregnate d’impazienza (…) sapete cosa mi manca? Qualcuno da amare e da amare solamente con il cuore. Ho perduto mio padre e nessuno l’ha mai più sostituito.”
Évariste viene liberato “sulla parola” per curarsi in una clinica in rue de Lurcine. Qui, incontra quel “qualcuno da amare”. Si innamora ingenuamente di una non ingenua ragazza, “una infame coquette”, la chiamerà più tardi, alla vigilia del duello che lei ha provocato. Le ragioni vere della provocazione e del conseguente duello rimangono oscure. In una lettera agli amici, Évariste chiede scusa di non dare la vita per “… il bene pubblico e il mio paese…” E si chiede, disperato: “Ma perché morire per un motivo così spregevole, costretto da una provocazione che, giuro, ho cercato di evitare in tutti i modi!” Lui, miope e maldestro, è sicuro di non avere chances di uscire vivo dallo scontro alla pistola. Conclude la lettera: “Perdono quelli che mi hanno ucciso. Sono in buona fede.”
Il duello ha luogo il 30 maggio 1832, al mattino presto, presso lo stagno de la Glacière. Non è certo il nome di chi lo ucciso. Erano due, forse il fidanzato e lo zio della ragazza (tale Stéphanie D.), persone che Évariste rispettava. L’autopsia, che fra l’altro racconta il cervello di Galois con un che di evocazioni geografiche (“… pesante, con larghe circonvoluzioni, profondi anfratti, alture davanti a ogni lobo anteriore…”) segue il percorso del proiettile: “… entrato a un pollice verso l’interno della spina antero superiore dell’osso iliaco destro, ha attraversato i visceri addominali, perforato i muscoli psoas e ileo e lo stesso osso iliaco ed è arrivata a sporgere sotto la pelle tra i muscoli mediano e grande del gluteo… nel suo percorso ha lacerato i rami ascendenti dell’arteria iliaca anteriore, ha fatto un ponte nella parte mediana degli intestini, ha demolito il colon discendente strappandolo mentre lo attraversava, ed è passato attraverso l’osso iliaco sinistro che ha fatto esplodere…” eccetera). Ecco descritta la passeggiata di un proiettile sparato, per una ragione insensata, nel corpo di un giovane uomo.
Évariste muore il giorno dopo, alle 10 del mattino. Si legge che, nel pieno delle sue facoltà, lo scienziato Galois rifiuta l’assistenza del prete. Il suo giovane fratello Alfred (17 anni) gli è accanto nell’agonia e piange. Évarsite gli dice: “Non piangere! Ho bisogno di tutto il mio coraggio per morire a vent’anni!” In una lettera, la notte prima, aveva scritto lui stesso, in latino, il suo epitaffio: “Nitens lux, horrenda procella, tenebris aeternis involuta.” (Luminoso splendore, nel terrore della tempesta, avvolto per sempre nelle tenebre). Sintesi perfetta del suo destino e della sua opera.
Tremila persone, repubblicani, compresa la dirigenza della Società degli amici del popolo, segue il feretro di Galois sotto stretta sorveglianza della polizia. Molti erano stati arrestati preventivamente, per paura di disordini. Évariste viene sepolto nella fossa comune al cimitero di Montparnasse.
Nella storia di questo duello c’è una poderosa metafora del destino delle persone pensanti (lui era più che pensante e, nella matematica, era un genio assoluto). Parlo della notte prima del duello. Évariste Galois, dopo avere scritto le citate lettere agli amici, passa l’intera notte sveglio, ma non per l’ansia di quello che lo aspetta, no, lui lavora, scrive! Riempie febbrilmente pagine e pagine di quaderni con i risultati delle ricerche matematiche alle quali tiene di più. Implora un suo amico di sottoporre ai due grandi matematici tedeschi Jacobi e Gauss questi scritti, perché diano il loro parere non sulla verità ma sull’importanza dei suoi teoremi. Scrive con frenesia, in una forsennata notte di primavera, il suo testamento scientifico e infinite volte scarabocchia a lato delle pagine “Non ho tempo, non ho tempo!”
Sono (siamo) in molti a vivere la costante vigilia di un duello di cui si conosce in anticipo l’esito. Siamo travolti dalla mole immensa di studi e conoscenze che vorremmo affrontare, siamo soffocati dalla massa di idee e narrazioni che vorremmo produrre ma… “Non abbiamo tempo, non abbiamo tempo!”
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Eccoci a terzo personaggio, in queste riflessioni sul rito insensato e scemo. La vittima, qui, è grandiosa: Aleksandr Sergeevic Puškin, il più grande poeta russo, La pallottola gli entra nell’inguine alle cinque del pomeriggio del 27 gennaio 1837, in un bosco di pini in mezzo alla neve. Lui deve ancora compiere 38 anniabbastanzapercompiere38anni.
Suona molto forte, proprio oggi, la definizione che di lui ci arriva dalla Russia (è di Aleksandr Blok e la si trova anche in Wikipedia): “La nostra memoria conserva sin dall’infanzia un nome allegro: Puškin. Questo nome, questo suono, riempie molti giorni della nostra vita. Accanto ai cupi nomi degli imperatori, dei condottieri, di inventori di armi per uccidere, di torturatori e di martiri, si affaccia un nome, Puškin. Lui seppe portare con allegria e gentilezza il suo fardello, sebbene il suo ruolo di poeta non fosse né facile né allegro, ma tragico.”
Per gli “infelici che non conoscono il russo” come George Steiner definisce la maggioranza di noi, la condanna è “di essere per sempre esclusi dall’accesso vero alla genialità di Puškin che è inestricabilmente connessa e legata con la magia del suono, con la cadenza e con le connotazioni della sua lingua. Perciò intraducibile. La padronanza e la capacità di metamorfosi della lingua russa così profondamente elaborata da Puškin rendono ogni traduzione— helpless.”
Eppure, bisogna leggerlo. Gli “infelici” come me sono costretti a intuire, dietro alla traduzione dei suoi versi e della sua prosa, un intrico misterioso di suoni che fanno, delle parole, emozione e pensiero. Puškin possiede una magica dote di rarissimi poeti e scrittori, quella di essere capace di trasmettere, con le parole, le emozioni e i sentimenti più profondi che soltanto la musica sa comunicare.
La storia del duello che uccide Puškin -magistralmente raccontata da Serena Vitale nel romanzo/saggio Il Bottone di Pushkin (Adelphi)– è un balletto nel quale si mescolano il sublime e il triviale. In Puškin, vita e arte si inseguono, si confondono e faticano a conciliarsi. In lui, leggerezza mozartiana e pesante aggressiva violenza si alternano così come il gioco e il divertimento si mescolano alla rabbia e al disgusto.
Puškin è piccolo e scuro. È nato in una famiglia aristocratica con una originale radice. Il suo bisnonno materno, Abram Petrovic Hannibal, ingegnere militare e generale in capo dell’Armata Russa dell’Imperatore era africano (c’è un dibattito se venisse dall’Etiopia o dal Camerun). Rapito e fatto schiavo da bambino dagli Ottomani era stato venduto alla corte imperiale russa. Pietro il Grande ne aveva intuito il talento, lo aveva liberato, adottato come nipote e fatto istruire. L’africano era divenuto una figura brillante e prominente alla corte di Pietro e poi della figlia, l’imperatrice Elisabetta Petrovna. Vissuto fino a 85 anni, ha avuto 11 figli. Quando Puškin muore, sta scrivendo la biografia del bisnonno: “Il Moro di Pietro il Grande”. Dunque il più grande poeta russo, il fondatore della lingua letteraria russa contemporanea, colui che sa fare, della lingua, una musica, uno dei più grandi romantici, ha origini africane.
Arrivato nel mezzo del cammino della sua vita, Puškin ha vissuto la censura, l’esilio in terre sperdute dell’impero e, infine, la grande fama. Ha corteggiato con successo molte donne, alcune maritate, e si è sposato, a 32 anni, innamoratissimo, con “la donna più bella di Russia”, Natal’ja Nikolaevna Gončarova, 19 anni, di una disfunzionale famiglia aristocratica in rovina. In sei anni di matrimonio, hanno quattro figli. Sono una coppia ammirata e corteggiata. Lui è all’apice della celebrità ma la sua corrispondenza viene, ancora e sempre, spiata dalla polizia segreta dello zar. Nicola I° ama invitare a corte il poeta e sua moglie. Natal’ja è felice di godersi le feste, Alexander detesta. L’imperatore stesso non può fare a meno di corteggiare Natal’ja.
Puškin ha già prodotto un numero rilevante di poesie, poemi, racconti, romanzi, fiabe, drammi, saggi. È giustamente famoso ma è in crisi. Fa i conti con i vuoti, gli errori, le insoddisfazioni e soprattutto con l’insofferenza verso la società in cui vive e che disprezza. Non è capace di essere soddisfatto né di sé né della sua opera.
“Nella notte immobile… bruciano più crudi, nel cuore, i rimorsi…
la fantasia si agita e nella mente oppressa dall’angoscia
si affollano pensieri che sono dolore.
Davanti a me, silenziosa, la memoria
sfoglia tutte quelle pagine.
Con disgusto rileggo la mia vita, e tremo di spavento
e maledico e piango.
Ma le lacrime amare del rimpianto non cancellano le righe.”
Sembra che in questo “disgusto”, Puskin si diverta a inventare una sfida contro se stesso e il mondo che lo circonda, una spettacolarizzazione della sua insoddisfazione e rabbia. La mette in scena davanti alla disprezzata società di Pietroburgo. Ma soprattutto davanti alla moglie. O forse mette in scena, sulla propria pelle e su quella della moglie, cercando le analogie, il romanzo in versi che ha da poco finito e che gli ha portato la grande fama: Evgenij Onegin. Un capolavoro assoluto che si conclude con un fatale duello.
La pistola che Puškin ha scelto per la sua roulette russa è nella mano di un francese, un militare molto bello che si è innamorato di Natal’ja, “la donna più bella di Russia”, per l’appunto. Lei ama il marito; lo ama e lo ammira a tal punto che parla usando le parole e le espressioni di lui. Eppure lei non è insensibile alla corte del francese. È curioso: accade sovente che le donne molto belle siano insicure e perseguitate dal bisogno di sedurre. Due grandi poetesse del XX° secolo (Achmatova e Cvetaeva) detestano Natal’ja, accusandola di leggerezza, superficialità, desiderio di lusso e gioielli che spinge Pushkin a scrivere per il guadagno più che per il piacere. La odiano come causa della morte prematura di Puškin che ha privato la Russia e il mondo intero di tutto quello che avrebbe potuto ancora scrivere.
Natal’ja, certo, è una donna imperfetta ma anche suo marito, pur nella sua inarrivabile grandezza, è imperfetto.
Natal’ja Nikolaevna Gončarova ha 25 anni, è sposata con Puškin da sei quando il bel francese inizia a corteggiarla. Lei dichiara al marito il turbamento vissuto per “l’altro” e nello stesso tempo l’amore assoluto per lui.
Il francese ha una discutibile biografia. Si chiama Georges-Charles d’Anthès e ha, al tempo dei fatti che stiamo osservando, 25 anni, la stessa età di Natal’ja. Discendente di una nobile, malmessa e reazionaria famiglia aristocratica alsaziana, Georges-Charles ha frequentato la prestigiosa accademia militare di Saint-Cyr ma è finito in Prussia dopo la cacciata di Carlo x° che lui e la sua famiglia avevano sostenuto. Qui, due anni prima del fatidico duello, il caso gioca i suoi dadi beffardi. Il bell’ufficiale finisce seriamente ammalato e senza un soldo in una locanda di una piccola città tedesca. A questa locanda è costretto a sostare, per una rottura nella sua carrozza, l’ambasciatore olandese in Russia, barone Jacob Derk van Heeckeren van Beverweerd, uomo ricchissimo, colto, collezionista di antichità e raffinato omosessuale (ha 43 anni). A cena, viene a sapere della presenza nella locanda del giovane francese ventitreenne solo e ammalato; si fa accompagnare nella sua stanza e rimane folgorato dalla sua bellezza. Lo fa curare, aspetta che si riprenda e gli propone di venire con lui a San Pietroburgo. D’Anthès accetta. Nella capitale dell’Impero, il nobile ambasciatore olandese assume i migliori insegnanti per acculturare Georges-Charles e riesce a farlo arruolare nelle Guardie Reali dell’Imperatrice come cornetta, il grado più basso tra gli ufficiali di cavalleria, quello che porta la bandiera con l’insegna del reparto detta, per l’appunto, cornetta. Le donne di corte cadono ai piedi della bella cornetta. Lui è brillante e fa grandi progressi. Le fonti testimoniano che la relazione tra d’Anthès e Heeckeren è caratterizzata da una rara attenzione reciproca e tenerezza. Il barone olandese scrive al padre di d’Anthès chiedendogli il permesso di adottare suo figlio e farne il suo erede. Il vecchio d’Anthès rinuncia di buon grado ai diritti sul figlio. Il re d’Olanda autorizza l’ufficiale francese a diventare Georges-Charles van Heeckeren d’Anthès. Una nuova famiglia è nata. Dice il principe Trubetskoy, amico di Georges-Charles: “… che lui prendesse Heeckeren o Heckeren prendesse lui… giudicando da tutto, nel rapporto con Heeckeren, Georges era il partner passivo.”
Nel frattempo, il giovanotto s’innamora della moglie di un mito e inizia un gioco di corteggiamenti. Natal’ja flirta e balla con lui. Puškin osserva, è geloso ma è anche distaccato, si arrabbia ma si fida della moglie, osserva lei e il suo corteggiatore come un entomologo osserva lo svolazzare in tondo di due farfalle. La sorella maggiore di Natal’ja, Ekaterina, è più anziana di lei di tre anni, meno bella di lei, meno brillante di lei, ma ragazza assi sensibile e vive in casa Puškin e ammira sconfinatamente il cognato. È nubile. Ekaterina s’innamora di d’Anthès. Natal’ja è favorevolissima a che la sorella sposi il bell’ufficiale. Si mette in mezzo, favorendo le nozze, anche il nuovo padre del ragazzo, il barone ambasciatore olandese.
D’Anthès è tutto quello che Puškin vorrebbe essere: giovane, bellissimo, desiderato. E tutto quello che non vuole essere: volgare, vuoto, mondano, senza libri, bei vestiti, pronto a tutto per i soldi. Puškin gli gira attorno, lo stuzzica, lo ferisce. Il francese cerca di sfuggire alle provocazioni ma non all’attrazione che prova per la moglie del poeta. Puškin assiste al gioco del doppio corteggiamento del bell’ufficiale alla moglie e alla sorella della moglie. Infine, con l’intervento attivo del barone van Heeckeren, il matrimonio si fa. Puškin non presenzia, è convinto che Ekaterina sia la donna dello schermo, che il francese la sposi soltanto per poter essere vicino a Natal’ja senza destare sospetti. E Natalja? Che cosa pensa lei? Che cosa vive “davvero” sua moglie?
Passano soltanto diciassette giorni da quel matrimonio quando arriva a Puškin un messaggio anonimo che dice: “Al Deputato Grande Maestro e Storiografo dell’Ordine dei Cornuti”.
Puškin è convinto che l’autore sia il barone olandese, lo affronta e insulta, quello incassa e smentisce con tutte le sue forze. Di provocazione in provocazione si arriva al duello: Puškin sfida il cognato. Le donne si disperano, cercano invano di impedire lo scontro.
Ed eccoci in quel bosco, alle ultime luci del giorno. Puškin è diventato uno dei suoi personaggi. I padrini misurano i passi sulla neve che arriva fino alle cosce. La battono con i loro stivali per scavare il percorso; poi stendono i cappotti neri a segnare le barriere. Lui, intanto, succhia delle bacche di mirto. Distratto, annoiato. Le succhia e le sputa in direzione di d’Anthès, che lo guarda da lontano, pallido, immobile nella sua giacca a doppio petto di panno verde. Infine camminano e sparano. Al primo colpo, del francese, Puškin, colpito alla coscia, vola nella neve. I presenti fanno per accorrere; li ferma: “No! Posso benissimo sparare!” Si solleva, poggiandosi su un gomito. Tutti si rimettono al loro posto. Ma devono sostituirgli la pistola, la canna si è riempita di ghiaccio. Puškin spara due colpi. È il francese a volare nella neve, questa volta, colpito a un braccio e al cuore. Puškin esulta e aggiunge: “Ora che l’ho ammazzato, mi dispiace.”
D’Anthès però non è morto poiché spara un secondo colpo che raggiunge Puškin all’inguine.
Un bottone della giacca del francese gli aveva salvato il cuore.
Seguono, per Puškin, quarantotto ore di agonia dolorosissima in cui il poeta consola la moglie, abbraccia i quattro figli piccoli, parla con la morte: “Dimmi, finirà presto? Mi annoio… Devo soffrire ancora così a lungo?… Più presto, più presto, ti prego!… Ecco, arriva… La vita è finita.”
Così racconta Turgenev: “La moglie continua a non credere che sia morto: continua a non crederci. E intanto il silenzio è già stato rotto. Parliamo ad alta voce – e questo rumore è terribile alle orecchie giacché parla della morte dell’uomo di fronte al quale noi tutti tacevamo…”
Anche qui, l’autopsia racconta il percorso del proiettile: “… tutti gli intestini sono stati trovati fortemente arrossati; solo in un punto grande quanto un copeco quello tenue è stato infettato dalla cancrena. È con ogni probabilità in questo punto che è stato colpito dalla pallottola… In base alla direzione di questa bisogna concludere che l’ucciso stava di fianco, di tre quarti, e la direzione dello sparo era alquanto dall’alto in basso…”
Dolore grandissimo del popolo russo per la morte prematura del suo immenso poeta e scrittore; sì, il popolo russo adora i suoi poeti. I suoi nemici e detrattori gioiscono. Per timore di disordini, il funerale viene fatto quasi di nascosto e il corpo del poeta è trasportato di notte alla tomba di famiglia. Natal’ja è disperatissima. Sette anni dopo, si risposa con il generale Pëtr Petrovič Lanskoj e ha altre tre figlie. Muore a 51 anni.
Diverso è il destino dell’assassino di Puškin. Processato e poi graziato, d’Anthès viene accompagnato con la moglie alla frontiera. Rientrano in Francia. Hanno tre figlie. Ekaterina Gončarova muore partorendo il quarto figlio, un maschio. Lui, Georges-Charles, fa una brillante carriera politica nel suo paese, viene nominato ufficiale della Légion d’honneur, diventa senatore, uno dei membri più reazionari e zelanti della destra antirepubblicana. Muore a 83 anni.
Dimenticando quest’uomo mediocre e detestabile che fece fortuna vendendo il proprio corpo e uccidendo un genio, vi invito a leggere il sogno di Tat’jana, nell’Onegin, al capitolo quinto.
Tat’jana (“russa nell’anima, neanche lei lo sa perché / la sua bellezza algida l’inverno russo amava”) vaga in un pianoro di neve infinita, avvolta nella nebbia, e si ferma, piena di incertezza, su un piccolo ponte pericoloso e oscillante sopra un torrente non incatenato dal gelo, con l’acqua che si agita in tumulto, e risuona giù in fondo al baratro, in un buio turbinante di spuma. Compare un orso che le offre la sua unghiuta zampa per aiutarla ad attraversare. Lei fugge, lui la insegue, la cattura e la porta ad una festa di mostri.
Questa donna che oscilla sul vuoto, nella nebbia, circondata da un mondo ghiacciato, trascinata da una bestia in un luogo pieno di mostri che gridano: “Mia! Mia!” è Natal’ja; questa donna, malinconica e sognatrice, è tante donne.
* * *
Per correttezza, mi sento obbligato a citare due casi di donne (due eccezioni) che hanno contravvenuto alla regola di considerare il duello pratica maschile stupida e scellerata. Due londinesi e due napoletane.
Le due londinesi, Mrs. Elphinstone e lady Almeria Braddock, si ritrovano per il rito del tè nella villa di quest’ultima. Siamo nel 1792 e la scena è riportata dal Carlton House Magazine.
Mrs. Elphinstone dice all’amica. “Siete stata davvero una bella donna.”
Lady Braddock: “Sono stata? Che cosa vorreste dire con ‘sono stata’?”
Mrs. Elphinstone: “Avete uno splendido volto ancora oggi… autunnale. I gigli e le rose sono un poco appassiti ma mi hanno detto che quarant’anni fa nessun giovane poteva resistervi.”
Lady Braddock: “Quarant’anni fa? Ma cosa dice costei?! Io non ero ancora nata trent’anni fa!”
Ma la cattivella Mrs. Elphinstone non ci sta: “Questo, mia signora, è falso, voi ne avete il doppio!”
Allora, Lady Almeria Braddock: “Insomma, non è tollerabile! Mi avete insultata. E questo insulto si laverà col sangue.”
Mrs Elphinstone: “Spade o pistole?”
Lady Almeria: “Tutte e due!”
Le due lady si incontrano a Hyde Park e si affrontano con le pistole. Mrs. Elphinstone ha un tiro migliore e piazza un proiettile nel cappello di Almeria Braddock. I loro secondi le pregano di finirla qui, ma la signora Elphinstone rifiuta di chiedere scusa e le ostilità ricominciano, questa volta con le spade. Lady Almeria Braddock riesce a infliggere un graffio nel braccio armato della sua avversaria e, considerato l’onore soddisfatto, le due donne lasciano il terreno sane e salve.
Questo racconto del Carlton House Magazine, a un serio esame posteriore, pare sia completamente falso. Ma resta la buffa allegoria: donne così stupide da sfidarsi a duello per la vanità, ma non così stupide da ammazzarsi.
Nella seconda eccezione (che conferma la regola), quella napoletana, dobbiamo andare indietro nel tempo, nel maggio 1552. Questo duello tra donne è avvenuto davvero ed esiste, al museo del Prado, un quadro di Jusepe de Ribera (lo Spagnoletto) che lo racconta.
Isabella Dè Carazzi e Diambra Dè Pottinella erano amiche. Ma tutte e due si innamorano dello stesso uomo, un tale di nome Fabio de Zeresola. Se lo contendono e si sfidano. Il loro duello diviene l’evento dell’anno. Presenziano tutta la Corte di Napoli, il Marchese di Pescara e il futuro Governatore di Milano, Francesco Ferdinando d’Avalos d’Aquindo d’Aragona. Le due donne montano sui loro cavalli, le lance in resta, e si gettano l’una contro l’altra. Nessuna delle due è disarcionata. Impugnano allora le mazze. Diambra spezza lo scudo di Isabella e la sbalza dal cavallo. Isabella è nella polvere. Diambra le intima di ammettere che Fabio è suo. Ma Isabella si rialza, sfodera la spada, la attacca e fa volare Diambra a terra. A questo punto però, quando sta per trafiggerla, si ferma come per un improvviso pensiero e rinfodera la spada. “Noi siamo meglio di così!” dice all’amica, “Dopotutto, chi è questo Fabio de Zeresola? Noi siamo donne di valore e lui? Soltanto un seduttore. Ucciderci per un uomo? No!”
La fotografia accanto al titolo è di Giuseppe Grattacaso.