Arturo Belluardo
Viaggio in Namibia/2

Le sabbie di Pangea

Nel paesaggio ancestrale della Namibia, così come era e così come è sempre stato. Accogliente e respingente, dune natiche e mammelle, deserti desolati, costellato di nidi giganteschi di tessitori sociali e di termitai falliformi, di cerchi delle fate, di acacie primordiali e di mopane verdeggianti

“Preistoria è la savana che fascia l’Africa per migliaia di chilometri da ovest a est, cioè dall’Oceano Atlantico all’Oceano Indiano. La savana è una sterminata steppa color verde pallido sparsa, a perdita d’occhio, di una sola specie di albero, la piccola acacia africana, irta di spine, coi rami disposti a ombrello, e di una sola specie di cespuglio di forma rotonda, color verde scuro. Si corre, in macchina, per strade o per piste, per centinaia di chilometri e la steppa non finisce mai, non fa che ripetere se stessa, ossia i due motivi che le sono propri, l’acacia e il cespuglio. (…) Se ci si ferma in mezzo alla savana, al rombo dell’automobile subentra improvvisamente un silenzio vergine, sospeso, veramente preistorico nella sua profondità e trasparenza. Si ode il vento soffiare in sordina; il sole inonda di luce implacabile l’immensa steppa. (…) Si riprende allora la corsa e la savana ricomincia a ripetere il motivo dell’acacia e del cespuglio milioni e milioni di volte, per centinaia, per migliaia di chilometri. Ogni tanto la savana pare sollevarsi un poco verso il cielo e configurarsi in colline lunghe e molli che sembrano doverla chiudere e darle la forma di una vallata; ma è un tentativo inane che invariabilmente si sperde e si scioglie nella solita informità.”

È così.

Questa descrizione della savana, del bushveldt come la chiamano in Namibia, è stata scritta da Alberto Moravia (in A quale tribù appartieni?) sessant’anni fa, in Nigeria, cinquemilaseicento chilometri a nord da dove siamo stati noi.

Eppure è così. Identica, perfettamente sovrapponibile, immutata nel tempo e nello spazio, un ritorno ai luoghi di origine del mondo e dell’uomo.

Terra antichissima è la Namibia, le sue montagne, i suoi deserti sono un’orgia di sovrapposizioni geologiche e immortali: le pietre e le sabbie hanno visto la Pangea, ricordano l’Era Glaciale, sono andate alla deriva con i continenti prima che fossero continenti, parlano brasiliano, non il portoghese, ma la lingua atavica e segreta che parlano da sempre gli spiriti della Terra, prima che acqua e fuoco, ghiaccio e lava li separassero ai lati dell’Oceano Atlantico.

La Namibia esiste da prima dell’uomo, è costellata da memorie perdute, da testimonianze mummificate perfettamente nel tempo dal clima arido del deserto.

Come gli alberi pietrificati del Damaraland, conifere enormi dal nome sconosciuto, trasportate da fiumi scomparsi trecento milioni di anni fa, depositate sullo sfondo del massiccio del Brandberg e vampirizzate da lava e lapilli. Ne hanno succhiato via legno e cellulosa, linfa e corteccia sostituendole con rame e ferro, carbonio e nichel. Gli anelli del tronco sono scolpiti nel metallo rosso e i nodi della corteccia sono duri e freddi.

Come il meteorite Hoba, precipitato dallo spazio ottantamila anni fa sulle acque che ricoprivano l’Africa Australe per inabissarsi nel Otjozondjupa, ciottolo di sessantaseimila chili, di ferro e di nichel e di metalli extraterrestri, scagliato da un bambino divino a rimbalzare sull’atmosfera terrestre e poi a bucarla, attraversando magma e montagne.

Come i dinosauri, che hanno lasciato le loro impronte a tre dita a Ochihenamaparero, fossilizzate in uno zompo perenne, mascelle che saltano ad agguantare ali di pterodattilo, poco lontano da un raro fiume, oggi denso di pellicani maggiori, buceri dai becchi rossi, gialli e grigi, cicogne, spatole, gru del Paradiso, tantali, avocette, cavalieri d’Italia, fenicotteri rosa e bianchi, radi ippopotami.

Come le acacie disidratate di Sossusvlei, intrappolate nel Pan d’argilla candida del fiume Tsauchab ai piedi di colossali montagne di sabbia rosso fuoco; man mano che il fiume scompariva lasciava solchi di vene, arterie e capillari, mani contratte verso piante senza più aiuto, piante che tuffavano radici profonde e disperate alla ricerca di vita, per asciugarsi lentamente, agonizzando all’ombra del Big Daddy, la duna rossa più grande del mondo. Il sole ne disegna i crinali e le cenge, il vento le deforma in curve sinuose, spine dorsali di dinosauri immobili e vermigli: sembrano ridere, quando piccole formiche bipedi provano a scalarle, affondando nella sabbia di ferro, masticando vento e granelli, carne essiccata di Kudu e burro cacao. Labbra che si spaccano, ciglia incispate di terra scarlatta, scarpe che si immergono e che vengono risucchiate in sabbie gelide e millenarie: forse stavolta ti consentiranno di arrampicati in cima, forse no; basta un attimo e ti spingono a rotolare allegro a valle. Ti allontanano e ti accarezzano indifferenti: tu chi sei per me? C’ero da prima che tu fossi e ci sarò quando non ci sarai più.

Così è il paesaggio ancestrale della Namibia, così come era e così come è sempre stato. Accogliente e respingente, dune natiche e mammelle, deserti desolati, costellato di nidi giganteschi di tessitori sociali e di termitai falliformi, di cerchi delle fate, di acacie primordiali e di mopane verdeggianti, di aloe guaritrici e di euforbie velenose e mortali. E di Welvitschia Mirabilis, pianta che vive da sempre, che ha visto nascere e crocifiggere Cristo.

Così è la Namibia, che ha visto nascere l’uomo e gli ha offerto l’arenaria di Twyfelfontein per incidere, un migliaio di anni fa, le sue mappe di caccia: hic sunt leones, e qui trovi le giraffe, e le zebre, gli elefanti, i kudu, gli struzzi, le otarie e i rinoceronti, bianchi e neri. E qui, fratello San, fratello nomade del bush, fratello Khoikhoi, che schiocchi lingua e palato per parlare, qui trovi l’acqua, le pozze indispensabili per sopravvivere: ti indico dove sono con un cerchio con un puntino al centro. È il simbolo della vita, il cerchio, è il simbolo universale che ancora oggi si adotta nelle mappe namibiane per indicare l’acqua. E accanto agli animali, accanto ai pozzi di ristoro, appare, nei disegni rupestri del Damaraland, l’uomo-leone, il primo sciamano, che viaggia nel tempo fino a noi, connesso con la fonte della vita, con gli spiriti di coloro che furono e coloro che saranno. A decrittare questi che non sono disegnini primitivi, ma utensili spirituali, simboli di eterna energia, questi che sono, come li chiamava il paleontologo Henri Breuil, paesaggi dell’anima.


Le fotografie sono di Arturo Belluardo.

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