Leopoldo Carlesimo
Un racconto "africano"

La caccia di Brusatti

«La domenica, nel giorno di riposo, Brusatti usciva spesso in battuta nella boscaglia. S’era procurato per pochi soldi a Mamou un rudimentale schioppo a due canne per la selvaggina minuta e una vecchia carabina da caccia grossa...»

Sono gli avvii a essere così, i primi tempi, finché le cose non hanno preso la loro forma. La strada non è ancora tracciata, allora possono succedere delle cose strane… Parlo di un cantiere africano agli inizi, quando s’arriva sul posto in pochi, e non c’è nulla, nemmeno una pista che porti lì, e bisogna cominciare a mettere in piedi l’organizzazione che costruirà la diga. Il luogo è isolato, non si sa quasi come raggiungerlo. Intorno non vi sono che pochi villaggi primitivi. C’è un fiume, naturalmente, ed è lì, nei pressi del fiume, che si cercano le prime case, quelle in cui dei bianchi europei possano vivere… Si trovano le case, le si sistema, il primo nucleo di bianchi arriva. Poco numeroso, in principio, e male assortito. Comincia a esplorare il territorio, a interagire con la sua natura e con la sua gente. Col fiume, anzitutto: le sue anse, i banchi di sabbia, il punto-chiave dell’incrocio con l’asse della diga; e poi gli affioramenti di roccia, intorno, dove aprire una cava, i dislivelli da superare per tracciare piste, creare un guado, accedere ai luoghi del progetto. La geografia minuta del territorio, insomma. Poi gli uomini, la sua storia: le comunità che abitano la zona, la loro disponbilità al lavoro, come ragionano, cosa fanno per vivere…

In quei primi tempi d’apprendistato, prevale in tutti un senso: lo spaesamento. Prevale nei bianchi, ma probabilmente è reciproco, probabilmente s’insinua anche tra i neri… C’è come una sorta di rarefazione, una bolla, si crea una specie di zona franca al cui interno s’attenuano convenzioni, cadono usi consolidati, schemi morali, ci si mette a nudo. E’ per questo che accadono, ad alcuni, quelle cose strane…

La domenica, nel giorno di riposo, Brusatti usciva spesso in battuta nella boscaglia. S’era procurato per pochi soldi a Mamou un rudimentale schioppo a due canne per la selvaggina minuta e una vecchia carabina da caccia grossa. Risaliva il corso del Konkouré lungo la sponda destra, la più selvaggia, lasciava il pick-up in una radura sul greto e vagava a piedi per i contorti sentieri che traversavano la brousse a ridosso del fiume.

Quella domenica fu una buona battuta: prese delle lepri e delle faraone; e nel pomeriggio, inoltratosi nel folto della macchia, ebbe fortuna e incontrò un facocero. Rientrando col pick-up carico di selvaggina, incrociò un gruppo di donne che tornavano da Kolem, dove ogni domenica faceva tappa il mercato itinerante del distretto. Le donne marciavano in fila indiana sul bordo della pista. Erano una dozzina, diverse di loro portavano dietro la schiena bambini avvolti in pagne annodati sul petto e tutte tenevano in equilibrio sopra la testa grandi bacili di cibarie – arachidi, legumi, farina di miglio o di mais, igname, papaye, manghi – che avevano comprato o scambiato al mercato, o che al mercato non erano riuscite a vendere e ora riportavano al villaggio. Con le donne c’era anche qualche ragazza e tra queste, per statura e bellezza, spiccava Aminata.

Brusatti offrì alle donne un passaggio fino al villaggio, che da lì distava sette-otto chilometri, quasi due ore di marcia lungo i contorti sentieri della brousse. La più anziana, o quella che pareva comandare lì in mezzo, una donna magra col seno vizzo lasciato scoperto dal pagne annodato troppo basso, un bimbo dormiente avvinghiato alla schiena, s’era consultata rapidamente con le altre e aveva accettato con bruschi e sgraziati cenni del capo. Era salita a bordo accanto a Brusatti. Il suo corpo e i suoi indumenti emanavano un odore aspro. Altre tre donne anziane s’erano accomodate sul sedile posteriore. Anche loro puzzavano. Le giovani del gruppo, inclusa Aminata, salirono sul cassone.

Abbandonata la pista per un dissestato sentiero, scesero verso il fiume. Era quasi buio quando raggiunsero il villaggio, un’ampia terrazza che digradava verso l’alveo, sul cui piano in leggera pendenza erano disposte a semicerchio le capanne, fronte al greto. A riva erano tirate in secca tre piroghe. Tutto il villaggio si raccolse immediatamente attorno al pick-up. I bambini erano eccitati per la presenza del bianco ed erano al tempo stesso spaventati e attratti da quell’uomo alto e segaligno, di pelle chiara, baffi fulvi, occhi di un azzurro slavato, che portava a carne uno smanicato gonfio di giberne e a tracolla, a cinghie incrociate, una cartucciera di cuoio e una bandoliera. Per qualche affinità ch’essi colsero subito, associavano quelle insegne alle cicatrici tribali che nel villaggio marchiavano i corpi dei cacciatori.

Le quattro vecchie, scese dal pick-up, intrecciarono un’aspra conversazione con gli uomini: mimando a gesti, descrissero l’incontro col bianco, il cammino, il tempo risparmiato. Un anziano dalle spalle magre avvolte in una semplice tunica a sacco, il cranio calvo parzialmente coperto da un copricapo conico di pelle e vimini – il capovillaggio – si fece avanti e invitò Brusatti a fermarsi a mangiare con loro.

Le donne cucinarono su fuochi di legna. Il capovillaggio e gli altri uomini esaminarono la selvaggina. Il facocero, circondato di lepri e faraone, era steso sul fondo infangato del pick-up. La scarica di pallettoni l’aveva preso poco sopra la spalla. Dietro le orecchie e sotto la gola s’era formata una scura chiazza di sangue raggrumato.

Gli uomini posero a Brusatti domande sulla caccia, ma in quel momento a Brusatti la caccia non interessava. Il suoi occhi vagavano in cerca di Aminata. La ragazza di quando in quando appariva, portando un orcio d’acqua o un vassoio di frutta o una catasta di panni da stendere o un bambino da lavare, intenta in qualcuna delle occupazioni domestiche che le giovani della sua età svolgevano su incarico delle più anziane, che organizzavano e dirigevano il lavoro nella corte; poi spariva tra i muretti d’argilla, dietro una stuoia, dentro uno dei labirintici anfratti che si snodavano tra le capanne. Cinque minuti dopo riappariva nuovamente altrove. Al momento della cena, assieme ad altre ragazze s’avvicinò a servire il cibo nello spiazzo riservato agli uomini. S’era accorta di interessarlo.

Mangiarono del riso condito con una salsa brunastra e piccante di vegetali spappolati e bevvero del liquido chiaro dal sapore rinfrescante, servito in calebasse, mezze zucche scavate. Gli uomini erano attratti dalle prede distese nel cassone del pick-up. I loro sguardi correvano in quella direzione. Confabulavano tra loro e chiesero a Brusatti di raccontare il modo in cui aveva ucciso il facocero. Brusatti stavolta accettò e raccontò la caccia. Parlava un francese rudimentale frammisto d’italiano e s’aiutava a gesti. Raccontò di come aveva visto le orme del facocero sul fango del sentiero, le aveva toccate ed erano fresche, e le aveva seguite; e come, sentendo a un tratto raspare nella macchia, era avanzato cautamente, tenendosi sottovento, protetto dai rami cadenti degli alberi, là dove la brousse si fa più folta, lungo il letto del fiume; e aveva scorto la bestia oltre una cortina d’arbusti, a non più di una decina di metri. Non le diede il tempo di percepire la sua presenza. Imbracciò la carabina e sparò tra i rami. La prese al primo colpo. La bestia stramazzò e in un attimo Brusatti le fu addosso e sparò ancora, a bruciapelo, sul facocero che rantolava. Nel corso del racconto gli uomini approvavano sgranando gli occhi, in segno di partecipazione. Si congratulavano con lui picchiandogli gran manate sulle spalle e scoppiando di quando in quando in fragorose risate.

Aminata era lì a due passi, in piedi sulla soglia di una capanna, e ascoltò tutto il racconto che Brusatti infiorò per lei, vantandosi dell’impresa. Dedicava a lei quella storia, di frequente le lanciava sguardi e gli parve che anche lei gliene rendesse qualcuno, breve e intenso. Com’era abitudine della maggior parte delle ragazze, al villaggio Aminata girava a seno nudo, indossava solo un pagne annodato basso sui fianchi. Quando il racconto finì il capovillaggio chiese a Brusatti se era disposto a vendere il facocero. Lui fece un cenno di diniego, disse che non era interessato a venderlo, ma a scambiarlo.   

Che Brusatti la domenica facesse bracconaggio, andando a caccia di facoceri nella brousse e di ragazzine nei villaggi, a Garafiri, moyenne Guinée, lo sapevano tutti. Non ci si cura, laggiù, di certi divieti. Di poco sopra i sessanta, perito elettrotecnico, originario di La Spezia dove aveva una moglie, tre figli sposati e una nidiata di nipotini, Brusatti era uno di quei tecnici specializzati che non sono stanziali in diga, ma vanno e vengono, coprono con frequenti missioni gli avvii di un cantiere. Fanno parte delle task force che le compagnie ultilizzano all’inizio di una diga per montare installazioni e impianti: costruire linee elettriche, hangar, officine… organizzarsi, insomma. Ciò non richiedeva la sua presenza fissa a Garafiri. Andava e veniva, passando in cantiere periodi più o meno lunghi. L’ufficio impianti della Compagnia organizzava una sua missione tutte le volte che bisognava adeguare le strutture all’avanzamento dei lavori. Mestiere che gli consentiva di passare parecchio tempo a casa. Alla sua età e con la sua esperienza, era un agio che gli spettava.  

Sul lavoro era bravo, uno specialista. In cantiere girava con certe tute impeccabili, piene di tasche e giberne da cui estraeva ogni tipo di strumento: voltmetri, ohmetri, serie essenziali di cacciaviti e brugole, manometri, estensimetri. Era un maniaco della precisione e della sicurezza: calzava sempre scarpe antinfortunio, indossava occhiali e guanti protettivi e le sue impeccabili tute erano dotate di guarnizioni isolanti anti-elettrocuzione su braccia, ginocchi e altri punti sensibili. Precauzioni che possono apparire eccessive a chi non sa che significhi lavorare al tempo stesso con l’acqua e con l’elettricità, in luoghi chiusi e non protetti come ad esempio lo scavo di una galleria agli inizi. Uno prudente, accurato. Della sua terra, la Liguria, aveva quell’attitudine misurata e guardinga, quell’attenzione all’economia di ogni atto, che viene forse dall’operare in spazi ristretti.

Fuori dal lavoro, la sera al club, era un tipo gioviale. Giocava a carte e a biliardo, parlava e beveva parecchio e aveva sempre qualche insegnamento da impartire ai giovani. Con l’alcol, si lasciava andare a una loquacità puntigliosa e un po’ pignola, da tecnico specialista con idee sempre chiare su tutto: lavoro, famiglia, sport, caccia, denaro. Sapeva in qualunque circostanza quel che occorre fare e aveva una risposta per ogni cosa. Per esempio, la questione del concubinaggio con le ragazze nere. Era piuttosto diffusa in cantiere, fin dagli inizi. Ma lui si diceva contrario. Si faceva un vanto del fatto che, in quarant’anni d’Africa, non s’era mai preso una nera in casa. Andare a caccia nella brousse, d’accordo; trovarsele nei villaggi o in uno dei tanti maquis che coi loro lumini punteggiavano la boscagliadi notte, benone. Ma conviverci… Ammoniva i giovani. E disprezzava quelli che – più anziani – all’estero si formano una seconda famiglia. Situazioni che finiscono immancabilmante col mandare a monte un matrimonio o col combinarne uno. Disastri, in entrambi i casi, trappole da cui Brusatti si guardava.

Benché avesse avuto il suo primo rapporto con lei quella sera stessa, il corteggiamento tra Brusatti e Aminata si protrasse nel tempo. Tutte le domeniche, dopo la caccia, lui si recava a Bolom col pick-up carico di selvaggina e altra mercanzia. Portava ai ragazzini coca-cola in lattine e sacchetti di patatine provenienti dallo spaccio del cantiere. Alle donne donava pagne, profumi e trucchi comprati sui banchi del carrefour, il mercatino stabile che andava formandosi a ridosso della diga. Per gli uomini aveva cartoni di birra e bottiglie di Johnnì etichetta rossa, un lusso per la gente della sponda destra, abituata a ubriacarsi solo con la densa poltiglia di miglio fermentato che chiamavano dolo o chapaloo. Ai vecchi portava borse di trinciato. Giocava coi bambini, ne caricava una dozzina nel cassone del pick-up e li scarrozzava attorno alle capanne, suonando il clacson a distesa. La sera, dopo cena, si appartava con Aminata.

Per lui questo era semplicemente un piacevole risvolto delle battute di caccia. Per gli uomini di Bolom, il vantaggioso sviluppo di quel primo, profittevole scambio. Scambio che non configurava un rapporto a due, non riguardava solo Brusatti e Aminata, ma l’intero villaggio, tutta la grande famille cui lei apparteneva.

Però le donne anziane di Bolom, le sages femmes… loro storcevano il naso. Guardavano a quel marché con sospetto. Probabilmente sapevano sul conto di Aminata cose che Brusatti ancora ignorava. Anche se avrebbe ben dovuto accorgersene, ormai.

Aminata era una ragazza molto bella. Aveva tra i sedici e i diciassette anni (non era stato possibile ottenere dalla madre informazioni più precise sulla sua data di nascita; era già stato uno sforzo, per lei, ricostruire il periodo della sua quinta gravidanza, delimitandolo nel tempo grazie a certe semplici associazioni fattuali: è stato prima della morte del precedente capo villaggio, ma dopo l’ultima siccità; era d’estate, perché pioveva) ed era un’adolescente in piena fioritura, una rappresentante di quel tipo di bellezza femminile che sboccia spontanea nella regione di Mamou, da cui si dice provengano le donne più belle della Guinea: era alta, magra, aveva braccia e gambe affusolate, un lungo collo su cui posava una testolina minuta, fine intarsio d’ebano e avorio, linementi morbidi e flessuosi, due grandi occhi di un nero profondo, ma luminoso, un portamento elegante e altero, la pelle asciutta, non troppo scura, a grana finissima e al tatto liscia come la seta. Era di razza peul o fulana, l’etnia dominante della regione.

Il suo primo rapporto, seppur incompleto, lo aveva avuto sei anni prima, quando doveva averne all’incirca undici. Lui era un ragazzo di qualche anno più grande. Era normale, per i giovani fino a una certa età, mostrarsi al villaggio nudi, i ragazzi conoscevano i corpi delle ragazze e viceversa. Nella promiscuità del villaggio, quel tipo la corteggiava. Insisteva per appartarsi con lei e quando erano soli le mostrava il suo membro e le chiedeva di accarezzarlo. Una sera Aminata acconsentì a soddisfarlo. Prima di incontrarsi con lui, strofinò le mani con piri-piri piccante. Dopo pochi secondi che maneggiava il sesso del ragazzo, questi cominciò a piangere e a urlare di dolore. Ma Aminata non lo lasciò scappare, non si fermò; e lo portò pian piano, tra spasmi e lacrime, a un’indimenticabile eiaculazione, per lei la prima.

Nei numerosi uomini con cui andò dopo – giovani o anziani, pastori o cacciatori di passaggio – cercò esperienze simili. Amava quel tipo di rapporti, le piacevano giochi erotici primitivi e violenti, mimi di lotta e predazione in cui finiva un po’ alla volta per esser lui, il maschio, la preda. Solo a queste condizioni Aminata concedeva, con generosità, quello che tutti gli uomini del villaggio desideravano, ma pochi avevano il coraggio d’affrontare. Perciò per le sages femmes di Bolom il fatto che Brusatti tornasse ogni domenica, che quel bianco esperto e prudente portasse selvaggina e doni a tutto il villaggio pur di passare la notte con lei, poteva voler dire dire una cosa sola.

Nei periodi che passava a La Spezia, nella grande cascina che aveva ristrutturato appena fuori città, la domenica Brusatti radunava tutta la famiglia: figli, figlia, nuore, genero, nipoti. Sua moglie cucinava gran pranzi che duravano ore, nel corso dei quali Brusatti faceva la parte del nonno-capofamiglia, una versione attualizzata e bonaria di patriarca: dispensava consigli su qualunque argomento, ammoniva, spiegava, emetteva giudizi. Inoltre raccontava storie di cui lui era l’esclusivo protagonista. Storie del suo lavoro, dei suoi viaggi in Africa: i posti visti, le avventure, i rischi corsi, le esperienze vissute e gl’insegnamenti che ne aveva tratto. Racconti che riscuotevano grande successo, in casa, era l’idolo dei nipotini – i più piccoli se li prendeva ancora sulle ginocchia – e anche figli genero e nuore stravedevano per lui. Occupava saldamente il centro del palcoscenico familiare.

In quei periodi, quando stava in Italia, lavorava per la Compagnia come tecnico d’ufficio e la sua esperienza specialistica era molto apprezzata nella sede centrale di Milano. Collaborava con la direzione tecnica allo studio e alla progettazione degli impianti di varie dighe sparse in giro per il mondo. Quando poi andava in cantiere a montarli, svestiva l’abito d’ufficio, indossava una delle sue impeccabili tute e si trasformava in tecnico installatore. E a quest’alteranza tra lavoro di concetto e lavoro manuale s’accompagnava l’oscillazione speculare tra la parte di pater familias, che impersonava in Italia, e il bracconaggio di facoceri e ragazzine, che praticava in Africa. Era un uomo che nascondeva delle contraddizioni, aveva delle duplicità.

Ci vollero due mesi di corteggiamento spinto perché ottenesse dal capovillaggio e dal consiglio di anziani il permesso di portare Aminata con sé in cantiere. Il patto fu suggellato da una sorta di cerimonia nuziale, un matrimonio del bush organizzato dalle sages femmes di Bolom secondo i cerimoniali imposti dalla tradizione.

Nel giorno di luna nuova Brusatti offrì al villaggio una vacca bianca e un toro nero, che furono sgozzati e macellati dal marabut di Kolem. La domenica successiva si presentò a Bolom carico di doni. Con la carne delle bestie macellate era stato imbandito un banchetto, vi furono canti e danze, gli uomini suonarono i djembé e i balafon e tutto il villaggio mangiò e bevve a sazietà. Quando gli uomini furono abbastanza ebbri e caddero i freni inibitori, in un crescendo orgiastico di musica e di danze Brusatti fu aggredito.

E’ la prima scena del rito: quella in cui lo sposo, improvvisamente tramutato in nemico, impersona il forestiero che intende rapire una ragazza del posto e viene attaccato dai maschi del villaggio, che difendono la loro petite soeur. Brusatti fu percosso e coperto d’ingiurie e venne cacciato fuori dalla cerchia rituale. Ed era ogni volta costretto a rientrarvi, se davvero voleva Aminata, e veniva nuovamente aggredito, malmenato e scacciato dai giovani. Finché gli anziani, convinti alla buon’ora della serietà delle sue intenzioni, acconsentirono a intavolare una trattativa con lui.

Seconda scena del rito: alla figura del ratto mancato, segue quella del negozio, o del finto mercato. Il villaggio non ha alcuna intenzione di cedere per poco una delle sue figlie più belle, perciò Aminata venne nascosta e altre ragazze, velate, furono di volta in volta offerte a Brusatti in sua vece. Lui era costretto a negoziarne il prezzo con gli anziani e le sages femmes, che a turno alzavano la posta. E per quanto Brusatti – subodorando l’inganno – implorasse la ragazza di togliersi il velo, lei rifiutava, sicché lui doveva per forza pagare prima di vederla in viso. Una volta svelata, se intendeva rifiutarla – poiché non era Aminata – era obbligato a offrire altri doni per rinunciare a lei e avere un’altra possibilità di scelta. Solo dopo diverse ore di trattative e parecchie ragazze velate e svelate e quando tutti i doni e tutti i soldi di cui Brusatti disponeva furono passati di mano, finalmente Aminata fu fatta uscire dal suo nascondiglio. Brusatti pagò l’ultimo riscatto, la svelò e poté portarla con sé in cantiere.

La sua missione a Garafiri doveva durare solo un paio di settimane, ma erano già più di tre mesi che Brusatti era lì. Il fatto è che sorsero dei problemi, cogli impianti… Improvvisi e misteriosi malfunzionamenti, che si producevano a ripetizione. Era sempre lo stesso Brusatti a scoprirli. Poi era lui a investigarne la causa, diagnosticare il guasto e individuare il rimedio, che in genere richiedeva l’arrivo di pezzi di ricambio dall’Italia, per cui occorrevano settimane. Nel frattempo, era necessario che Brusatti restasse a Garafiri, perché solo lui era capace di far funzionare gli impianti anche in assenza dei pezzi mancanti, riparando alla bell’e meglio le parti guaste. E poi, quando i ricambi fossero arrivati, sarebbe stata ancora necessaria la sua presenza in cantiere per montarli, testarli… Insomma la sua missione si prolungò indefinitamente e non sarebbe potuto ripartire prima che quell’ultimo guasto…

Nel frattempo la sua vita in cantiere cambiò. Smise di giocare a carte e a biliardo, e smise anche d’impartire insegnamenti ai giovani e di fornire a tutti risposte nette, puntigliose e precise a qualunque domanda. Per la verità, la sera al club non lo si vedeva più. Passava tutte le serate chiuso nel suo alloggio. Già magro di suo, dimagrì ancora, nell’impeccabile tuta piena di tasche e guarnizioni isolanti ormai ci sciacquava. Gli altri, in cantiere, ne dedussero che il ménage con Aminata era piuttosto impegnativo. Lo consumava, non solo fisicamente. Doveva anche avergli rivelato qualcosa su di sé. Ed è una cosa straordinaria fare scoperte su se stessi a sessant’anni, per di più così distorcenti e deformanti.

Sul lavoro, grossomodo, restò il professionista preciso e pignolo che tutti conoscevano. Lavorava dalle sette del mattino alle sei di sera e teneva in ordine, efficienti e funzionanti gli impianti di cantiere. Ma dopo aver passato dieci ore a trafficare con cavi elettrici e tubi idraulici, quando la sera tornava a casa stanco morto, doveva ancora affrontare lo scontro erotico con lei. Che durava a lungo, perché Aminata era non solo aggressiva e vorace, ma aveva anche la resistenza insaziabile dei suoi diciassette anni. Sicché spesso Brusatti, quando era davvero stremato e aveva esaurito ogni risorsa, mentre lei era ancora fresca e vogliosa, doveva ricorrere a dei trucchi. Viveva come un’umiliazione quei sotterfugi, ma vi si sottometteva di buon grado, vedendo che Aminata in fondo ne era contenta e che lui, pur facendo ricorso a mezzi impropri, in un modo o nell’altro era sempre capace di farla felice.

Tutte le domeniche Brusatti e Aminata si recavano a Bolom e ogni volta Brusatti portava doni agli uomini, alle donne e ai bambini del villaggio. Le sages femmes festeggiavano Aminata e le carpivano delle confidenze. Aminata si dichiarava soddisfatta e il patto tra Brusatti e il villaggio veniva rinnovato.

La sera in cui accadde l’incidente, Brusatti aveva bevuto troppo. Non aveva più forze, da due ore andava avanti la sua colluttazione serale con Aminata e le sue fiacche risorse erano ormai allo stremo. Ma Aminata era tutt’altro che sazia e Brusatti si sentì, una volta di più, vecchio, sorpassato, inadatto… quel misto di umiliazione fisica e psicologica in cui aveva imparato a trovare un oscuro piacere, s’univa all’alcol, di cui aveva aumentato parecchio le dosi: entrambi lo portavano alle soglie di una narcotica passività, cui s’abbandonava trovandovi una sorta d’estasi. Finì di vuotare la bottiglia di J&B che si stava scolando e si servì di quella. Sentendo Aminata mugolare di gioia e lo scopo della sua fatica vicino, continuò a spingere finché percepì qualcosa di duro fargli ostacolo. Dosava male la sua forza, perché era ubriaco, e i suoi gesti erano fuori misura, imprecisi, imprudenti… Sentì quella cosa spezzarsi e quando ritirò la mano vide il sangue. Tra il pollice e l’indice aveva un taglio profondo. Il collo della bottiglia aveva lacerato la carne, rompendosi, ed era rimasto dentro spargendo schegge ovunque.

Portò Aminata in infermeria. Il dottor Keita dovette incidere col bisturi per estrarre i frammenti. Pulì e asciugò la ferita, ma non servì a fermare l’emorragia. Non restò che portarla all’ospedale di Mamou. Quando si seppe ch’erano in arrivo gli uomini di Bolom, Brusatti non poté restarle accanto. Certe notizie volano, i giovani del villaggio avevano appreso che la loro petite soeur era stata gravemente ferita ed erano ben decisi a fargliela pagare.

Brusatti dovette fuggire e nascondersi al campo. Ci restò tre giorni, senza mai uscirne neppure per andare al lavoro, perché quelli di Bolom erano appostati lungo la pista che portava in diga, gli davano la caccia. Quando fu chiaro che Aminata non sarebbe sopravvissuta, la direzione del cantiere decise di far sparire Brusatti. Con la morte della ragazza, sarebbe stato impossibile evitare un processo, con tutte le immaginabili conseguenze. Bisognava che lasciasse la Guinea immediatamente. Via lui, sarebbe stato certo più facile trovare un accordo sia col villaggio che con le autorità.

Una mattina all’alba il furgone della mensa eluse la sorveglianza degli uomini di Bolom che piantonavano il campo. Dentro c’era Brusatti, sdraiato sul fondo, nascosto tra casse di birre vuote. Fu rimpatriato il giorno stesso col volo serale dell’Air France.

Nei giorni successivi le cose andarono esattamente come la direzione del cantiere aveva previsto. Alla morte di Aminata vi fu un’esplosione i rabbia a Bolom e nei villaggi vicini, ma poi gli animi si chetarono, furono avviate delle trattative e i generosi indennizzi offerti al capovillaggio, agli anziani e alle sages femmes sanarono l’offesa. Dopodiché fu più facile aggiustare le cose anche coi medici dell’ospedale e coi giudici del tribunale e far archiviare l’intera inchiesta riducendo l’accaduto alla fatalità di un incidente.

Sei mesi più tardi, quando tutti avevano già cominciato a dimenticare Brusatti e Aminata e i rapporti tra il villaggio di Bolom e il cantiere erano tornati buoni, giunse a Garafiri una notizia. Brusatti era in missione in Laos, sul cantiere di una diga che costruivano da quelle parti. Era in sotterraneo, nella caverna della centrale. Stava attaccando al quadro di bassa il cavo d’alimentazione delle pompe di aggottamento. Indossava come sempre la sua tuta anti-elettrocuzione, portava occhiali protettivi e guanti isolanti e calzava scarpe antinfortunio. Però aveva nel taschino una grossa matita da falegname. La punta di grafite della matita fece arco voltaico col sezionatore del quadro elettrico nel momento esatto in cui Brusatti, perdendo l’equilibrio, sfiorava con l’anca – parte di tuta priva di guarnizioni isolanti – la parete di roccia nuda su cui scorreva una limpida lama d’acqua. La scarica elettrica lo folgorò.

Frattanto a Garafiri, moyenne Guinée, il cantiere usciva dalla sua fase iniziale, la gente andava abituandosi alla presenza dei bianchi. La pista che collegava la sponda sinistra del Konkouré alla camionabile per Conakry era stata allargata e battuta, la percorrevano i convogli che rifornivano il cantiere. Attratti dal flusso di merci, i villaggi s’erano spostati. Nel muoversi avevano cambiato aspetto: attorno alle tradizionali capanne a pianta circolare erano sorte distese di baracche in blocchetti di cemento e lamiera, dove abitavano gli operai della diga.

Solo dall’altra parte del fiume, sulla riva destra, lontano dalla strada, i mutamenti erano meno visibili. Piccoli insediamenti come Bolom avevano quasi conservato l’aspetto originario. Le famiglie vivevano ancora d’agricoltura di sussistenza, allevamento brado, caccia e pesca. Poco oltre la confluenza con il Konkoum, il Konkouré formava una cascata. Un ripido salto di rocce grigie, che durante la breve stagione delle piogge venivano sommerse dalla corrente. Il rombo delle rapide riempiva la valle e sopra l’incisione del fiume si levava, visibile a grande distanza, il pennacchio di pulviscolo d’acqua che segnalava la cascata. Poi, nei lunghi mesi di secca, le acque si ritiravano, lasciando le rocce scoperte e nude, sporche qua e là di sterpaglia e muschio.

Quest’alternanza di piogge e secca, questo ciclico dilatarsi e contrarsi del fiume, scandivano da generazioni la vita di uomini e animali sulla sponda destra del Konkouré.


Le fotografie sono di Roberto Cavallini.

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