Andrea Ottieri
A proposito de “La sperta e la babba”

Novecento siciliano

L’esordio narrativo di Giovanna Di Marco mette insieme due personaggi specchiati, una donna risoluta e una sognatrice, alle prese con i sussulti del Novecento vissuti in modo completamente diverso

La sperta e la babba di Giovanna Di Marco (Caffèorchidea editore, 186 pagine, 18 Euro) rivela molto di sé fin dal titolo. Sono due racconti affatto diversi tra loro per contesto storico (formano un arco di tempo che degli anni da fine Ottocento arriva agli anni Ottanta del secolo scorso in forza di un ipotetico passaggio di testimone) spirito dei personaggi e linguaggio, ma accomunati dall’ambientazione siciliana e da un certo modo di giocare con la sua lingua e con la sua antropologia. La sperta (ossia la donna pratica, concreta, ai limiti del cinismo) e la babba (ossia la sognatrice con i piedi solidamente conficcati in aria) sono le protagoniste che si specchiano nei due racconti.

Incontriamo Lucia, la sperta del primo racconto, nel momento in cui ha dato alla luce una figlia femmina dopo aver perso due maschi: «Lucia al Signore non ci credeva tanto, credeva solo a quello che vedeva e alle cose che non vedeva e poteva prevedere». Il marito, Vincenzino, è un portalettere che ha fatto la guerra (la Prima, quel «via Maria di fango» dove «devi ammazzare come un animale. Altrimenti muori») e cerca di scendere a patti con il fascismo. Lei, invece, non ci crede; non per astruse convinzioni politiche, ma perché la vita vera era quella di ogni giorno». La loro vita è un combattimento costante – malgrado un sostanziale benessere – per piegare il destino alla propria volontà. O, almeno, per renderlo il più possibile prossimo alle proprie necessità.

Ma il vero protagonista del racconto è la Storia, quella con la maiuscola che si riverbera nella vita della famiglia dominata da Lucia (con il marito e le figlie in sottofondo). Ed è interessante vedere come gli eventi (la salita al potere di Mussolini, il consolidamento, la guerra, la disfatta, l’arrivo degli americani, il dopoguerra e il trionfo dell’apparire, fino al terribile terremoto del Belice) si sciolgono nella vita e nelle piccole preoccupazioni di questa comunità che, passando da Caltanissetta a Palermo e ritorno si occupa solo di mostrarsi benestante. Contro ogni disagio, contro ogni avversità. È illuminante, in questo senso, il racconto di come Lucia riesca a “dirottare” su Caltanissetta una colonna militare americana diretta a Catania solo con una specie di teatrino fatto di gesti e urla. Sperta, davvero in qualunque occasione.

 Il secondo racconto, Una socialista, è dedicato a Concetta, giovane idealista di origine arbëresh, apparitene alla comunità di lingua e cultura albanese radicata tra Palermo e Gibellina: «Eravamo poveri, ma avevamo i gioielli, la rosa di diamanti per le dita, orecchini a navicella o pendenti con rubini e perle, una croce per il petto e un rosario di granati che terminava con un cuore. E, per il giorno del matrimonio, ogni figlia avrebbe avuto sul ventre una cintura d’argento con il suo santo scolpi­to, a rilievo: Giorgio che sconfigge il drago, l’Immacolata che calpesta il serpente». In questo contesto, Concetta insegue un ideale libertario e egualitario ma la sua storia è anche quella di una delusione. O, peggio, di una disillusione che, a ben vedere, non è solo la sua: «Sentii lo spirito del mio popolo e lo spirito di giustizia, come per quegli uomini che mi apparivano dal passato, la leggenda si ripeteva e quell’individuo così fine, con il suo carisma, era un po’ come il principe dei racconti. No, non erano solo formiche che cer­cavano pane… La loro lotta era per i principii che rendono l’uomo nobile. Decisi che da quel momento anche io avrei contribuito alla scrittura di quella leggenda, che non volevo più avere fame, che non avrei più visto quei fantasmi perché si apriva una stagione di storie meravigliose che sarebbero nate sotto ai miei occhi. No, da quel giorno, non vidi più la nonna né i guerrieri. Volevo lottare anche io con un garofano sul petto».

Con questa missione nel cuore, Concetta vede sfilare la vita accanto a sé: la famiglia, la comunità, gli amici, la sorella… tutto scorre. E, se ne La sperta la Storia assume senso solo per come la protagonista riesce a piegarla ai suoi interessi, qui il senso della Storia spiazza i sogni della babba, la lascia senza più respiro.

Come si sarà capito dalle citazioni riportate, il primo racconto, in terza persona, usa un linguaggio infarcito di rotondità dialettali (al punto che in appendice l’autrice inserisce un glossario), mentre il secondo, in prima persona, ha una lingua più piana, quasi convenzionale. Come a segnalare che, mentre Lucia aggredisce la realtà e la piega a sé (e al suo dialetto), Concetta ne viene travolta, senza riuscire a imporre alla società il suo sogno. La prima è vincente e la seconda è sconfitta, all’apparenza; se non fosse – sembra suggerire Giovanna Di Marco – che a fare e disfare, sempre, non sono i personaggi, ma la Storia.


La fotografia accanto al titolo è di Deborah Raimo.

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