Viaggio in Namibia/4
Il “game-drive”
Arriva, finalmente, il momento del "game-drive”, termine orribile che significa andare in cerca di animali da guardare. Dal parco nazionale ai lodge privati può capitare di vedere una giraffa che guarda il suo cucciolo sbranato da tre leoni. Perché la natura, in fondo, è sempre natura
«Hemingway ci ha dato una rappresentazione dell’Africa che, con la fine del colonialismo da una parte e l’invasione neocapitalista dall’altra, diventerà presto archeologica. Viaggiando in Africa nera ci si accorge fino a che punto l’Hemingway africano “dati”, cioè sia legato ad una fase storica del continente nero. Ed Hemingway “data” non soltanto perché nei suoi racconti africani è descritta una piccola società di snob, di ricconi, di intellettuali falliti che ormai non esiste più, ma anche perché il modo di pensare che traluce in questa narrativa è curiosamente antiquato e quasi ottocentesco. In racconti come Le nevi del Kilimangiaro e Breve vita felice di Francis Macomber, Hemingway ci dà il momento deluso e amaro del colonialismo; ma non si scosta da una scala di valori che, mutatis mutandis, è ancora quella di un Kipling. Penso qui, soprattutto, al coraggio fisico che, sia pure in chiave freudiana, costituisce per Hemingway come già per Kipling, la massima virtù dell’uomo bianco».
Certo che, a leggere a sessant’anni di distanza le parole di Moravia in A che tribù appartieni?, viene da sorridere pensando a lui, a Pasolini, alla Maraini e ai loro amici alla “riscoperta dell’Africa” partendo da Monteverde Vecchio e si fa fatica a non traslare, mutatis mutandis, la descrizione del circolo hemingwayano a quello romano, che oggi verrebbe inevitabilmente bollato come radical-chic. Perché non c’è niente da fare: lo sguardo del visitatore occidentale sull’Africa rimane sempre corrotto, è sempre quello del ricco bianco che si insinua nella savana alla ricerca delle emozioni di quella che veniva un tempo definita la “caccia grossa”. Ha pervertito il linguaggio e le abitudini, ha intaccato il rispetto verso l’assoluto, che in Africa era rappresentato dalla convivenza atavica tra uomo e natura, tra uomo e animali. Animali talmente belli, grandi e insoliti che bisognava (e bisogna) necessariamente cacciarli. Al punto che quello che in lingua swahili era definito il viaggio, il safari, con più veritiera crudezza in inglese viene chiamato “game drive”, dove game è il nome della selvaggina che viene ammazzata per sport. Al punto che i “big five”, il leone, il bufalo, il leopardo, il rinoceronte e l’elefante, sono ancora oggi chiamati così, non per la loro rarità nell’avvistamento, non per la loro selvaggia bellezza, ma perché erano i cinque animali più pericolosi da cacciare, e quindi prede predilette dagli epigoni di Francis Macomber.
In forma più controllata e regolamentata, la caccia alla selvaggina è ancora praticata in Namibia: al check-in del volo per Francoforte da Windhoek, la capitale, abbiamo incrociato tedesche camicie a quadrettoni vivaci che imbarcavano, come bagaglio speciale, fucili telescopici oversize. La tassidermia è ancora un’arte diffusa e molte hall dei lodge nel deserto sfoggiano mezzi colli e lunghe ciglia di giraffe impagliate e corna tortili e orecchie satellitari di dolcissime antilopi kudu. Sulla soglia dell’Oppi-Koppi Lodge di Kamanjab, ti accoglie un babbuino imbalsamato con occhiali da sole, una bottiglia di amaro tedesco e una targa che più o meno recita “Ieri distruggevo i tetti di paglia dei lodge, oggi sono finito a servire Jagermeister”.
Certo il “game drive” si è evoluto, la caccia si è trasformata in caccia fotografica; al nostro arrivo, Irene, la guida viareggina, ci ha distribuito un link a una check-list su Google Drive su cui erano riportate foto e nomi dei possibili animali da avvistare, in modo da giocare collettivamente a un’evoluzione del “ce l’ho mi manca”. Ed è grande l’emozione di incontrare gli animali a pochi metri da te, da allungare una mano ad accarezzare il collo di una giraffa, a percorrere lente le strisce di una zebra di montagna.
Nel Damaraland, veniamo trascinati da Matthias, un omone gigante della tribù dei Kavango, mani grandi come badili, occhi acquosi iniettati di sangue e narici dilatate ad aspirare tabacco, in un’estenuante ricerca degli elefanti del deserto. Si tratta di pachidermi nomadi che, a causa di barriere umane che ne hanno interrotto la rotta di migrazione in Angola, sono rimasti bloccati lungo il letto del fiume Ugab. Fiume effimero che appare e scompare, tra urla di babbuini e doppie foglie di mopane, ed elefanti che smagriscono alla ricerca dell’acqua, allungano la proboscide e le insegnano a scavare, che non sradicano cespugli e alberi, ma ne catturano con delicatezza le foglie. Matthias ci scorrazza per ore dietro a tracce circolari, soppesando enormi merde per capirne la freschezza, indicandoci avvallamenti d’erba dove hanno riposato gli elefanti. Cala il sole, cala la temperatura, il truck è scoperto, e degli animali nessuna traccia: siamo stanchi, vorremmo rientrare, ma il Kavango insiste digrignando i denti in un “fuck” e finalmente li troviamo, scuri e dolci, a strappare cespugli e a masticarli strappando i rami. Torneremo gelati dal vento dell’est, un vento che gonfierà le tende del nostro Camp per tutta la notte, con un rumore che scuote l’anima.
Il “game-drive” successivo è in una riserva privata al confine dell’Etosha National Park. Le riserve private sono enormi appezzamenti di savana recintati a uso esclusivo dei sontuosi lodge costruiti all’interno e che consentono escursioni a ridosso degli animali. Nel parco di Etosha non ci si può discostare dalle strade e gli animali li puoi vedere lontani o vicini, questioni di orari, di affollamento e di fortuna. A noi, nel parco nazionale, è riuscito di vedere un leopardo puntare orici nel bush o un ghepardo giocare con i cuccioli tra i rami di un’acacia, ma molto da lontano, con teleobiettivi potenti e cannocchiali muscolari.
Nelle riserve private invece, vieni trasportato per sentieri polverosi, tra cespugli e termitai, in piccoli trucks scoperti, coperto da pesanti poncho di lana, con tanto di sosta a ridosso di una pozza, con goffi voli di faraone e di ottarde di Kori, a sorseggiare gin-tonic, a sgranocchiare biltong, carne essiccata di springbok. Il tracker della riserva ti porta fin dove gli elefanti ti attraversano la strada, la matriarca austera e solenne in testa, i piccoli al centro, e la femmina più giovane a chiudere la fila indiana. Sembrano la pattuglia del Libro della Jungla di disneyana memoria e noi ci accodiamo al culo dell’elefantessa a seguirli. Ma la giovane pachiderma non e è molto d’accordo, si gira a guardarci, una, due volte, sventola minacciosa le orecchie, gli occhi piccoli baluginano di diaspro. Poi barrisce. E noi andiamo via.
Incrociamo un rinoceronte nero, che sgranocchia arbusti con la sua bocca quadrata, uno dei rari sopravvissuti allo sterminio commissionato dai cinesi: la polvere del suo corno vanterebbe proprietà taumaturgiche uniche. “I bracconieri” ci racconta la nostra guida Irene “sono poveracci, gli danno quelli che per loro sono tanti soldi, una miseria rispetto a quello che ci faranno con il corno. L’animale viene lasciato lì a marcire e per impedirne la scoperta i bracconieri devono prima ammazzare gli avvoltoi, che il loro volo concentrico attirerebbe immediatamente l’attenzione dei ranger”.
Il tracker riceve una chiamata al walkie-talkie, accelera improvvisamente per uno sterro, spegne il motore e lascia scivolare la vettura a pochi metri da una bassa acacia: all’ombra della pianta, due leonesse e un giovane leone stanno sbranando un cucciolo di giraffa. La leonessa solleva la bocca dal fero pasto, drizza la coda e ci ringhia contro. Nei nostri ridicoli poncho dai cappucci a punta, noi sembriamo dei pinguini pietrificati dal terrore. Il giovane maschio approfitta della distrazione della femmina e tira a sé la carcassa della giraffa, ne segue una breve zuffa e la leonessa riprende tra i denti i miseri resti del giraffino. I rumori sono terribili, mi ricordano le onomatopee create da Edgar Allan Poe per I delitti della Rue Morgue, le zanne affondano nella carne con un ploffìo sinistro, si sente il cracchìo delle costole che si spezzano, il raspare delle lingue a separare la ruvida pelle dai muscoli, i tendini che si insinuano elastici nelle bocche e schioccano nell’aria, il sangue che inonda le bocche delle belve. Noto che Irene confabula con il tracker e si mette a piangere. “È la madre” e mi indica con un gocciolone del naso il collo inclinato a quarantacinque gradi di una giraffa femmina. La madre, la madre che si inchina a rendere omaggio al figlio morto, azzardando un breve passo verso il trio felino, sbattendo le lunghe ciglia che sembrano far piovere lacrime e rimmel. Sullo sfondo, in controluce, troneggia il collo in erezione del maschio. Qualcuno biascica qualcosa sulla crudeltà della natura. Sarà, ma l’espressione della giraffa non credo sia poi diversa da quella della mucca cui viene portato via il vitello per arrostirlo nei nostri forni. La differenza è che noi non la vediamo. La natura, in fondo, è natura: siamo noi che siamo ipocriti.
Mentre torniamo al lodge, Irene mi fa notare alcune antilopi nere in un recinto: i proprietari della tenuta stanno aspettando che si riproducano in numero sufficiente per poi introdurle nella riserva. Scopro così che molti degli animali della savana namibiana vengono comprati altrove e reintrodotti periodicamente per rinfoltirla (sopravvivere al clima desertico di questo paese australe non è facile) di modo che l’attrazione per i turisti non venga mai meno.
Allo stesso modo, troviamo i cammelli a Swakopmund, importati dal Sahara, per far fare i giri sulle colossali dune di sabbia gialla, o i coccodrilli a Otjivarongo, che sono poi fuggiti e hanno infestato i rari fiumi della Namibia, turbando il delicato equilibrio tra la poca acqua, i predatori e i molti animali assetati. Così come abbiamo trovato gli ippopotami al Mount Etjo Safari Lodge, che si affaccia su un corso d’acqua pieno di pellicani, fenicotteri e trampolieri. “Sarebbe vietato avere qui gli ippopotami” mi confessano “ma il proprietario del lodge è un amico personale del Presidente”.
In questo lodge alloggiamo in suite grandi quanto il mio appartamento di Roma, adorne di alte maschere, lance e statue di giraffe di legno alte un paio di metri: è la nostra ultima notte africana e hanno organizzato il “lion feeding”. Ci portano, assieme a numerosi tedeschi dai fisici fassbinderiani, in una sorta di casematte, con delle feritoie grigliate che si affacciano su uno spiazzo sabbioso dove è incatenata la coscia di una giraffa. Appena i turisti si sono accomodati, fanno il loro ingresso un leone e tre leonesse, che si avventano sul pezzo di animale. Il leone, un vecchio felino dalla testa grande quanto il mio torso, sembra percepire la nostra presenza e dedica un ruggito a spaventare i pargoli germanici. Anche le altre leonesse appaiono polverose, malmesse. Sembra che inscenino zuffe e lamenti ad usum turistorum. Mi vengono in mente quei leoni decrepiti, rincoglioniti e drogati, che vedevo da bambino al circo Togni, costretti ad aprire malvolentieri le fauci perché il tronfio Darix vi infilasse dentro la testa.
Alla fine del viaggio, ho la gelida sensazione che accanto alla natura rigogliosa e prepotente, crudele e selvaggia, ne scorra un’altra, un po’ baraccona, creata apposta per il turismo. Sembriamo essere passati dal coraggio malato e snobistico dei club hemingwayani ai leoni che timbrano il cartellino per il postprandio ruttante di herr Muller.
E sull’innegabile mal d’Africa, cala un velo di occidentale tristezza ipocrita.