Periscopio (globale)
L’ombra di Bolaño
A vent'anni dalla morte è arrivato il momento di tornare alla scrittura di Roberto Bolaño, maestro della letteratura ispanoamericana. Che ha saputo reinventarla senza rinunciare alla lezione della tradizione
In media, ogni cinque-dieci anni i meccanismi pubblicitari, dai quali l’editoria non è certo avulsa, sfornano l’autore del millennio, o del secolo, o a voler esser modesti almeno del decennio. Si cerca di alternare fra angloamericani, francesi, spagnoli o ispanoamericani, e molto più raramente si fa ricorso ad autori provenienti dalle periferie dell’impero. Forse è solo un gioco, e come tale va preso: ma è anche irritante, perché spesso fomenta la formazione di vere e proprie compagini modaiole o sette di adepti all’interno delle quali ogni dissenso è lesa maestà. Di nomi di scrittori così portati (e per un po’ lasciati) in auge se ne potrebbero fare molti: da Pynchon a Foster Wallace, da Salinger a Bolaño, da Sebald a Philip Roth a Houellebecq. Apparentemente ci sarebbero in circolazione (o ci sono stati, perché alcuni non sono più tra noi, anche se ne sopravvivono inediti e riscoperte) diversi geni assoluti le cui opere si aggirano per il mondo facendo la gioia degli estimatori e suscitando talvolta qualche dubbio in coloro che sono forse meno propensi all’entusiasmo a comando.
Non intendendo essere settari, ma volendo anzi riconoscere i meriti di questi scrittori – e, per dirla tutta, fra questi che ho citato ce ne sono un paio che rientrano fra i miei preferiti –, bisogna allora uscire dalle logiche di appartenenza a un qualsiasi clan e cercare di sviscerare le loro motivazioni più profonde e i risultati raggiunti, piuttosto che aderire acriticamente alla loro scrittura.
Prendiamo allora il caso di Roberto Bolaño, anche in occasione del ventennale della morte, avvenuta a Barcellona fra il 14 e il 15 luglio 2003, intorno alla mezzanotte. La quarta di copertina adelphiana dell’opera più importante (e oceanica), 2666, gli riconosceva niente meno che “un’idea di letteratura per la quale molti sono disposti a vivere e a morire”, per poi continuare definendo il libro “un immenso corpo romanzesco oscuro e abbacinante, da percorrere seguendo una sola, ipnotica illusione – quella di trovare il punto nascosto in cui finiscono, e cominciano, tutte le storie”. Mi scuso per la lunga e suggestiva citazione, che rappresenta sì un ottimo esempio di marketing librario, ma a mio modesto parere non rende un buon servigio al volume sponsorizzato: lette queste parole, il lettore ha infatti il diritto di aspettarsi qualcosa di rivoluzionario e di sconvolgente, e rimarrà deluso qualora invece il libro, seppur apprezzabile, non sia un capolavoro.
Non mi lancerò, per ragioni di spazio, in una disamina del romanzo, che pure meriterebbe, ma che resta – ben lontano, e forse volutamente, dalla classica idea di capolavoro – un testo in buona parte irrisolto; probabilmente anche perché Bolaño, gravemente malato, non ebbe il tempo di rivedere il romanzo nella sua interezza. Morì infatti ad appena cinquant’anni, nell’inutile attesa di un trapianto di fegato. Diviso in cinque parti (ma ne esisterebbe una sesta, ritrovata fra gli inesauribili inediti), 2666 ruota intorno alla ricerca di uno scrittore tedesco fantasma, un incrocio fra Jünger o Sebald, mettiamo, e quelle figure sfuggenti che tanto piacciono alla letteratura nordamericana, da Traven a Salinger a Pynchon, autori che decidono cioè di sottrarsi alla curiosità più o meno legittima, ma spesso malata, del loro pubblico, e si dileguano per sempre. Benno von Arcimboldi (questo il nome dello scrittore irrintracciabile) è quindi poco più di un’ombra. Alla sua ricerca si mettono dapprima quattro germanisti e critici letterari di diversi paesi, compreso un italiano – la cui figura è in parte ricalcata su quella di uno dei traduttori di Bolaño, il compianto ispanista Angelo Morino, che per primo lo propose a Elvira Sellerio –; poi, un altro studioso, il matematico cileno Amalfitano, che, anche attraverso le figure della moglie e della figlia Rosa, trasporta l’azione in Messico, nel deserto del Sonora, già evocato da Bolaño in un’opera precedente, Los detectives salvajes (I detective selvaggi). In questa zona desertica fra Messico e Stati Uniti – e qui entra in scena anche un altro personaggio importante per lo sviluppo del racconto, il giornalista nero Oscar Fate – avvengono da anni crimini efferati e si registrano altre scomparse, quelle di centinaia di donne e ragazze eliminate forse dai narcotrafficanti, forse dalla corrotta polizia locale, forse da sette sataniche. Naturalmente il riferimento è ai fatti di Ciudad Juárez, in Messico, ribattezzata in 2666 Santa Teresa, dove dal 1993 in poi si registrò in effetti una quantità imprecisata di casi analoghi.
Per Bolaño il tema della ricerca di persone scomparse non è una novità: citavo prima il caso dell’altro romanzo-fiume della sua breve carriera letteraria, I detective selvaggi, che otterrà uno dei più importanti riconoscimenti nell’ambito della letteratura di lingua spagnola, il Rómulo Gallegos, e sarà definito da un critico “il miglior romanzo messicano scritto da un cileno”. (Anche se poi Bolaño è sui generis anche come cileno, in quanto dopo l’infanzia in Cile si trasferì a quindici anni in Messico, appunto, e visse in seguito a lungo in Catalogna.) In questo romanzo, che è del 1998, due giovani poeti, uno dei quali è l’alter ego Arturo Belano, si mettono sulle tracce di una poetessa messicana d’avanguardia che scriveva negli anni Venti, Cesárea Tinajeros, e la trovano, anche se dopo estenuanti e complesse peripezie. Ma anche in un’opera ancora precedente, Estrella distante (Stella distante), del 1996, la vicenda è imperniata intorno alla ricerca – anche se di segno opposto – di un altro poeta, Ruiz-Tagle o Carlos Wieder, un oscuro impostore implicato in una serie di orrendi crimini. Da notare come Bolaño ami giocare a gatto e topo con i suoi personaggi, riproponendoli più volte e anche sotto mentite spoglie: il Ruiz-Tagle/Wieder del romanzo non è altri che quell’Hoffman di cui lo scrittore traccia la biografia fittizia ne La literatura nazi en América (La letteratura nazista in America), uscito sempre nel 1996. Alla ricerca di Wieder viene data una allure quasi da romanzo poliziesco, genere con cui Bolaño sembra dilettarsi spesso, visto che un omicidio è al centro de La pista de hielo (La pista di ghiaccio, 1993, tradotto per Sellerio proprio da Morino, mentre l’altra traduttrice delle opere maggiori è da noi Ilide Carmignani). Una trama da giallo politico attraversa anche Nocturno de Chile (Notturno cileno), del 2000, con al centro l’indimenticabile, inquietante figura di Sebastián Urrutia Lacroix, sacerdote, affiliato all’Opus Dei e a tempo perso torturatore di Stato per gli sgherri di Pinochet. Anche qui, niente di troppo originale: nel mettere in scena una élite culturalmente raffinata, che si rivela però capace dei peggiori abominii, Bolaño non fa che ricordare, sia pure con una dose d’ironia, l’aporia già rilevata in tanti criminali nazisti. Ma va detto che un’aria satanica percorre sotterraneamente (e sardonicamente) tutta l’opera del Nostro: la stessa cifra 2666 non contiene forse il cosiddetto numero della Bestia, e quindi un’allusione all’Anticristo?
Uno dei grandi meriti di Bolaño è stato quello di pubblicare, se non addirittura di scrivere, una decina di volumi nello spazio di appena dieci anni, accendendo i riflettori su di sé dapprima nel mondo ispanico e riuscendo anche, in seguito e con un po’ di fortuna (ma quella non deve mancare mai), a incuriosire la società letteraria anglosassone, senza di che ormai una carriera letteraria non si costruisce più. Preferisco il termine “pubblicare” a “scrivere” perché leggendo Bolaño nutro sempre l’impressione che la sua scrittura venga a volte da molto lontano, dalla prima giovinezza o addirittura dall’adolescenza. Un sospetto corroborato peraltro da lui stesso, che in uno dei racconti riuniti in Putas asesinas, del 2001, dal titolo “Fotos”, scopre le carte riconoscendo che Arturo Belano – il quale ricompare, anche lui, in diversi romanzi e racconti) – “piensa en su propia juventud, cuando era una máquina de escribir” (“pensa alla sua stessa gioventù, quando era una macchina da scrivere”). Il sospetto, insomma, è che Bolaño abbia sempre scritto in modo compulsivo, riuscendo però, a differenza di molti altri, a mantenere intatta e anzi a rafforzare la vocazione giovanile (e l’indubbio talento) anche negli anni della maturità.
Un altro merito, a mio avviso, è quello di aver saputo far confluire nella narrativa, scritta anche semplicemente per sbarcare il lunario, quella vena poetica in cui lui stesso maggiormente si riconosceva. Per tutta la vita Bolaño fu convinto di essere anzitutto un poeta, costretto a scrivere in prosa da un mondo letterario che ha relegato l’espressione lirica sempre più ai margini. Ma se si vuole raggiungere un pubblico, questo in sintesi il ragionamento, bisogna prenderlo per il verso giusto, il verso della prosa, intrattenerlo raccontandogli delle storie e cercando magari al contempo di far sì che lo stimolo poetico non vada completamente smarrito.
Un altro punto di forza è l’agilità e la mobilità della scrittura, che rendono interessanti e godibili anche libri dalla trama quasi assente od ondivaga, in ragione della mescolanza, spesso ben riuscita, tra fiction e realtà, tra l’invenzione a fini narrativi e i problemi reali ed endemici della storia e dell’attualità, prima fra tutti l’onnipresente violenza.
Ma a Bolaño va riconosciuta infine anche la capacità di aver rivitalizzato le letterature spagnola e ispanoamericana senza rinunciare alla tradizione. Nei suoi libri il lettore attento ravviserà – oltre a tutte le evocazioni e i riferimenti di cui abbiamo detto – il discreto omaggio al Barocco e ai suoi massimi esponenti, l’allusione al romanzo picaresco, la strizzata d’occhio alle avanguardie poetiche d’inizio Novecento, con un buon equilibrio fra il rispetto di certi vertici forse inarrivabili (chiamiamolo pure canone, quello dei vari Cervantes, Quevedo, Góngora) e quella libertà poetica a cui lo scrittore contemporaneo non deve mai rinunciare. Non è poco, ed è sicuramente più che sufficiente a garantirgli un posto di tutto rispetto (anche se forse non quello che vorrebbero i suoi tifosi) nella storia delle lettere ispaniche, o della letteratura tout court.