Viaggio in Namibia/1
Preistoria africana
Un viaggio nel cuore del continente africano, immobile e (apparentemente) immutabile, comincia con la scelta della guida giusta. Oltre a quelle in carne e ossa, può essere molto utile rileggere gli articoli di Alberto Moravia: «Un viaggio in Africa è un tuffo nella preistoria»
Come si affronta un viaggio in una terra incognita, una terra remota, selvaggia e differente, che suscita fascino e timore? Come si viaggia per l’Africa australe, segnata dal Tropico del Capricorno, segata da deserti e da confini tracciati con la squadretta delle elementari, banco di legno rugoso e pozzetto per il calamaio? Come si attraversa la Namibia, la Terra del Deserto, poco più di ottocentoventicinquemila chilometri quadrati, e con centomila abitanti in meno di Roma, la seconda nazione al mondo, dopo la Mongolia, con minore densità di abitanti?
Serve una guida, anzi due, anzi tre.
Lazarus (nella foto accanto al titolo) ci viene incontro trafelato all’aeroporto di Hosea Kutaku, è in lieve ritardo e già i suoi colleghi driver, che accolgono i turisti nella minuscola sala degli arrivi, si fanno in quattro per aiutarci a rintracciarlo. Penso che sia la nostra aria assonnata e preoccupata a muoverli a compassione: siamo atterrati all’aurora, su un nero piatto e uniforme, contrassegnato dalle silhouette di rade palme e delle acacie, con le stelle che finiscono di baciare l’orizzonte, infuocato da una sottile linea di rosso incandescente. In realtà capiremo presto che in Namibia dare una mano è una predisposizione naturale, l’arte di arrangiarsi coesiste accanto all’incapacità di deviare dagli schemi organizzativi predeterminati: è pressoché impossibile avere delle patatine assieme a un gin tonic o chiedere di sostituire le pile scariche di un telecomando; se però fori nelle sterrate del deserto o ti ferma la polizia a un posto di blocco, intervengono tutti a darti una mano. Un misto di napoletani e giapponesi, tanto per rimanere nei luoghi comuni.
Lazarus sarà il driver del nostro Land Cruiser per queste settimane di viaggio, indossa uno vezzoso pellicciotto sintetico arancione e ha una fisionomia anomala, alto, magro, pelle color nocciola chiaro, occhi a mandorla. Lui è un bushman, ci tiene a precisare, uno degli abitanti nativi della savana, bushveld in Afrikaans, l’odiosa lingua dei bianchi del Sudafrica, di cui la Namibia fino a poco più di trent’anni fa era colonia, e che i bianchi namibiani continuano a parlare tra loro. E parla sei lingue, oltre all’inglese e all’afrikaans, herero, oshivambo, khoekhoe e naro. Il khoekhoe (o nama) e il naro sono le lingue click, che interpongono schiocchi palatali ai suoni normali: Lazarus ce ne fa sentire subito alcuni esempi, spiegandoci che questa è la vera lingua del bush africano. La stessa cosa che sosteneva Miriam Makeba quando introduceva la stupenda “Click song” (https://youtu.be/rjo8h5qLpU0), canto di caccia al leone da cui è derivata la celebre “The lion sleeps tonight”. Il vero nome di Lazarus è un altro nome, quello della sua tribù, un nome impronunciabile che vuol dire “sole nel momento in cui sorge un’altra volta”, Lazzaro che risorge, grazie a Cristo, grazie al suo miglior amico.
La nostra guida italiana sarà Irene, una ragazza di Viareggio neanche trentenne, scappata da un lavoro in concessionaria dopo un viaggio in Africa. Ha fatto corsi su corsi, si è diplomata guida in una prestigiosa Accademia Sudafricana, dove ha imparato a riconoscere rocce e piante, animali, dalle impronte e dal dung, gli escrementi (ci racconta ridendo il suo esame finale in “merde”), e uccelli, dal volo e dal verso. Parla e racconta alternando spiegazioni approfondite e puntuali a storie di famiglia di emigranti lampedusani, che hanno fatto avanti e indietro da Glouchester, enclave americana di pescatori siciliani. Mischia dissenterie tanzaniane a odio di campanile per i lucchesi, con gesti curvi e risate argentine. Ci dice della sua difficoltà a ottenere un permesso di lavoro definitivo in Africa e di sua nonna Graziella che è passata dal “non mi tornare con un bambino nero” a “torna con un bambino, non importa se bianco o nero, l’importante è che sia bello”.
Irene è innamorata dell’Africa, è qui che vorrebbe vivere, trova tutte le occasioni per passare mesi a ridosso degli animali e della natura, ha fatto tre mesi di volontariato in una scuola per guide in Tanzania, ha passato un mese in tenda nel deserto sudafricano, con le ciglia che la notte le si gelavano sugli occhi, profondi e brillanti. Il suo entusiasmo si protrae nei gesti, è come se volesse sempre curvarsi ad accudire e ad accarezzare.
La terza guida che ho scelto per questo viaggio è arrivata per caso. In un banchetto di book crossing a Parco Marconi, a Roma, ho trovato la raccolta degli articoli africani per l’Espresso di Alberto Moravia, A quale tribù appartieni?: anche se Moravia non è mai stato in Namibia (non esisteva nemmeno quando lui viaggiava nel continente) né in Sudafrica, il suo sguardo si è posato sulla savana con curiosità e cercando di accantonare i pregiudizi occidentali (anche se non ci riuscirà), a differenza di Hemingway che, sostiene lo scrittore italiano, è datato. Quello del premio Nobel americano non era solo il punto di vista di “una piccola società di snob, di ricconi, di intellettuali falliti che ormai non esiste più”, ma fotografava “il momento deluso e amaro del colonialismo; (…) non si scosta da una scala di valori che, mutatis mutandis, è ancora quella di un Kipling”. A dire il vero, io, dallo spettro del colonialismo, mi sono sentito accompagnato per tutto il viaggio in terra di Namibia, e mi sono sempre chiesto quanto i sorrisi e le accoglienze, le risate e la gentilezza fossero falsati dall’essere noi turisti, bianchi e ricchi (per lo standard namibiano, dove uno stipendio medio si aggira intorno ai 500 € al mese).
Una prima considerazione di Moravia però mi si è scolpita da subito, quando scrive che un viaggio in Africa è un tuffo nella preistoria. Preistoria che è, prima di tutto, “la conformazione stessa del paesaggio africano. Il carattere principale di questo paesaggio non è la diversità, come in Europa, bensì una terrificante monotonia. Il volto dell’Africa è dunque più simile a quello di un infante con poche fattezze appena accennate che a quello di un uomo sul quale la vita abbia impresso innumerevoli tratti significativi; ossia è più simile al volto della terra nella preistoria, quando non c’erano stagioni e l’umanità non era ancora comparsa, che al volto della terra oggi, con le innumerevoli modificazioni apportate così dal tempo come dall’uomo. Questa monotonia, d’altra parte, presenta due aspetti propriamente preistorici: l’iterazione, ossia il ripetersi di un solo tema o motivo fino all’ossessione e al terrore; e l’informità ossia l’incapacità del limite, del finito, della figura, della forma, insomma.”
Moravia scriveva queste parole sessant’anni fa esatti e descriveva mirabilmente il paesaggio africano: e la descrizione si attaglia esattamente a quello che ho visto (ne riparleremo): una diapositiva sovrapposta alle foto del mio IPhone, niente cambia, tutto è immutato, tutto è preistoria.