Al Museo di Cortona
Modello Signorelli
Una bella mostra celebra i cinquecento anni dalla morte di Luca Signorelli, maestro delle forme e del colore. Nelle sue tele brilla lo spirito del Rinascimento. Una lezione che poi sarà ripresa da Raffaello e da Michelangelo
Dici Luca Signorelli e subito la mente rimanda un “fotogramma”: è la donna, nuda e disperata, che un diavolo dalle ali aguzze si porta in groppa e ghigna conducendola all’inferno. Un “logo”, quasi, del ciclo di affreschi sul tema del Giudizio Universale nel Duomo di Orvieto. E, insieme, la “sigla” del pittore rinascimentale. Del quale, poi, null’altro si rammenta, se non che lo abbiamo visto nella Cappella Sistina, insieme a Perugino, Pinturicchio, Ghirlandaio, Botticelli, sovrastati tutti dal Michelangelo della volta e del Giudizio Universale, calamita inevitabile.
Insomma, Luca Signorelli sfugge nel catalogo intellettuale di chi ama l’arte senza essere uno specialista. Il motivo? Lo spiega Tom Hardy, professore emerito all’Università di Kent e suo massimo conoscitore, facendone oltretutto la chiave di lettura della mostra da lui curata a Cortona, dove il Nostro nacque nel 1450 (o qualche anno prima) e dove morì nel 1523, sicché si intitola “Signorelli 500” l’esposizione nel duecentesco Palazzo Casali (fino all’8 ottobre). Dunque, Luca d’Egidio di Ventura (così il nome vero) resta in un cantuccio per due motivi: sono disperse le sue opere, in alcuni casi fatte a pezzi e sparse in Paesi lontani, anche oltreoceano; offuscata la sua maestria dai due grandi che immediatamente dopo lo seguirono: Raffaello e Michelangelo. Sennonché Sanzio e Buonarroti non sarebbero stati tali senza Signorelli. Il quale a sua volta, tale non sarebbe stato senza Piero della Francesca, del quale fu allievo. Patente di eccellenza gli viene dal Vasari, che nelle Vite (1568) vede in Signorelli “quella persona che col fondamento del disegno e delli ignudi particolarmente, e con la grazia della invenzione e disposizione delle istorie, aprì alla maggior parte delli artefici la via all’ultima perfezione dell’arte”. Fu poi “riscoperto” dai preraffaelliti, affascinati dalla sua emotività, e apprezzato assai da Berenson, sommo studioso. Infine Tom Hardy: grande colorista, Signorelli, egli afferma. E ancora: pittore capace di scolpire le figure e di inventare storie, un’immaginazione derivata dalla conoscenza dei testi e dall’inserimento, nei dipinti, della cronaca che egli stesso vive.
E allora, partiamo da un lavoro-paradigma di queste caratteristiche: l’”Annunciazione”, conservata a Volterra, tra i capolavori in mostra (illuminante che nel Museo Diocesano di Cortona ve ne sia un’altra, celeberrima, di “Annunciazione”, quella del Beato Angelico, che in qualche dettaglio l’ha influenzata). L’Angelo quasi plana sulla scena ed è come un fermo immagine in posa plastica. Maria china lo sguardo e già dice di sì alla chiamata, ma dello scombussolamento che si tiene dentro la dice tutta il libro caduto ai suoi piedi, sfuggitole di mano all’apparizione. Ella è inquadrata nel portico di un’abitazione quattrocentesca, dove domina la prospettiva del colonnato e del pavimento a tarsie marmoree. E, particolare mai registrato negli innumerevoli medesimi soggetti, sulla porta della casa di Maria un bassorilievo ritrae la figura barbuta di Davide, citazione dal Vangelo di Luca che narra della Vergine promessa a Giuseppe “della casa di Davide”.
L’opera si impone anche per la maestria coloristica: i toni cangianti della veste dell’Angelo, le trasparenze del suo velo, in uno stile che Luca seguirà per tutta la sua vita artistica. È però del Signorelli antecedente all’anno Millecinquecento, che segna quasi un discrimine nella vita dell’artista, da allora in poi diventato più famoso e richiesto anche se aveva già pienamente raggiunto la maturità dopo gli affreschi della Sistina e della Basilica di Loreto. A Cortona poi, dei trentacinque anni antecedenti di Luca non c’è nulla. Sicché è significativo aver portato nella città toscana – così caratteristica nell’impianto medievale e nelle memorie etrusche – dieci opere eseguite nella seconda metà del Quattrocento. Ad esempio giunge da Dublino “Cristo in casa di Simone il Fariseo” (1488-89), uno dei pannelli della Pala Bichi (dal nome del committente, senese). Attorno alla tavola imbandita, mentre la Maddalena si avvicina a Gesù con un unguento, una schiera di personaggi intreccia sguardi allusivi e gesti, scambia parole che s’immaginano sottovoce, usa il linguaggio delle mani tanto la narrazione visiva è efficace. Mentre nella Predella della Chiesa di Santa Lucia di Montepulciano (ora agli Uffizi) vivace è la narrazione del corteo dei Magi mentre giovani vestiti alla moda rinascimentale sono intenti a chiacchierare a braccetto. Ed è merito della mostra averla riunita, dopo secoli, alla Pala che raffigura la Madonna (nell’immanenza della veste qui come in altre Vergini sedute la lezione di Piero della Francesca).
La cronaca, il vissuto di Signorelli, irrompe altrove: gli è stato raccontato che un sovrano mamelucco ha donato una giraffa a Lorenzo de’ Medici e lui ne sistema due, insieme ad un cammello, nella sfilata esotica dei Magi che fa da sfondo all’”Adorazione di Gesù Bambino” prestato dal Museo di Capodimonte, dove poi la stalla è sistemata tra rovine antico-romane. Era stato dipinto per la chiesa di Sant’Agostino a Città di Castello, distrutta nel Settecento da un terremoto e ricostruita proprio grazie alla vendita del quadro del Cortonese.
“Signorelli 500” stimola anche la riflessione su quanti smembramenti subiscono le opere d’arte. È la storia della Pala di Matelica, così chiamata perché il committente fu un medico marchigiano che aveva sposato una donna di Cortona e che la destinò a una chiesa della propria città. Rappresenta la Deposizione di Cristo (con il “flashback” in alto del Calvario e l’anticipo della Resurrezione) ma è stata fatta letteralmente a pezzi tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento e quelli eccezionalmente riuniti nella mostra sono sei. Un puzzle ricomposto dopo una serie di “agnizioni”, l’ultima della quali, la testa della Madonna svenuta mentre in grembo poggia il capo del Figlio, è stata identificata nel corso di una vendita all’asta a Bruxelles soltanto nel 2019. Le altre parti sono “Quattro figure in piedi”, appena restaurate e in mano a privato, il Calvario appunto, conservato nella National Gallery di Washington, un “Uomo sulla scala”, che ha icasticamente staccato Cristo dalla Croce, proveniente dalla National Gallery di Londra, una commovente “Pia donna piangente” dalle Collezioni comunali di Bologna, la “Testa e busto di Gesù morto” della quale è proprietario, sempre a Bologna, l’Unicredit. Introvabile finora il tassello relativo alla Resurrezione, attestato da due studiosi per l’ultima volta nel 1956 presso il mercante Albrighi e poi scomparso. Ma intanto i frammenti danno conto di un’opera complessa e drammatica, realizzata dopo un’altra Deposizione, uno dei rari lavori di Signorelli rimasti a Cortona, nel Museo Diocesano, da dove si è spostata di pochi metri per entrare nella mostra del cinquecentenario insieme alla “Comunione degli Apostoli” mirabile specie nella postura inquietante di un livido Giuda che già intasca i denari del tradimento.
Poche opere rimaste a Cortona, si diceva. Perché Signorelli è stato un artista itinerante, a Roma, nelle Marche, in Umbria, nel resto della Toscana, toccando numerose città. Fino al 1505 possedeva un cavallo, si recava a trattare per le commissioni, poi organizzava il trasporto dei dipinti che realizzava nella città natale, senza mai allontanarsi troppo a lungo, in ossequio alle cariche pubbliche che volentieri accettava, quella di Priore per dodici volte. Anche un anno prima di morire accompagnò ad Arezzo il grande olio su tavola – “Madonna con Bambino e Santi” – commissionata dalle monache di un convento di Arezzo e realizzata con l’aiuto della sua bottega e del nipote Francesco. “Fu condotta sulle spalle da Cortona ad Arezzo” scrive Vasari, che all’epoca aveva nove anni “e Luca, così vecchio com’era, volle venire a metterla su, ed in parte a rivedere gli amici e parenti suoi”. L’opera è stata restaurata in occasione della rassegna (che espone complessivamente trenta opere, provenienti perfino da Atlanta), ma, imponente com’è, si è preferito non muoverla dal Museo Nazionale Aretino. Sarà uno dei capolavori da ammirare negli itinerari signorelliani che costituiscono uno degli input della esposizione di Cortona: e saranno viaggi – da Loreto al Monte Oliveto Maggiore, da Città di Castello a Sansepolcro, da Perugia a Orvieto – per l’anima oltre che per gli occhi.