In mostra al Quirinale
Gli altri bronzi
Roma espone i bronzi trovati alle Terme di San Casciano in Toscana e restaurati a tempo di record. Il confronto con gli eroi di Riace viene naturale, ma l'effetto è totalmente diverso: diverso il tempo, diversa la voglia di scoprire il passato e la “noia” di oggi per la cultura
Una imprevista nube di malinconia avvolge la visita della mostra al Quirinale che espone per la prima volta fino a tutto ottobre al grande pubblico statue e reperti in bronzo riaffiorati dal fango delle Terme di San Casciano in Toscana e restaurati a tempi di record per l’occasione. Precipitandomi in un vortice di confronti e ricordi che avevo solo parzialmente messi in conto. E che mi riportano indietro di oltre quarant’anni, a quel 1981 quando le porte di questo storico palazzo romano si aprirono per celebrare un altro trionfo dell’archeologia: la scoperta dei Bronzi di Riace.
Una seconda breve puntata, voluta dal presidente Sandro Pertini, dopo la gettonatissima esibizione a Firenze nelle sale del museo archeologico dove i due cimeli avevano svernato quasi in decennio per un laborioso restauro, e prima del loro rientro in Calabria. Un boom di presenze mai visto: oltre un milione di visitatori. Il conto di oggi si ferma a poche migliaia.
A Roma la gente si incolonnava in lunghissime file d’attesa sulla piazza che ruotavano pazienti attorno al monumento dei Dioscuri, poi varcava il portone principale, quello riservato ai capi di Stato, raggiungeva il cortile e infine a gruppi di cinquanta a volta sfilava davanti alle due statue, istallate su grandi piedistalli, in un tripudio di mormorii entusiasti, battute improvvisate, commenti a volte beffardi e sboccati di fronte alla provocante nudità di quelle figure virili.
Oggi il rito si ripete ma entrando da un portone laterale. La visita è sempre gratuita, ma impone un obbligo di prenotazione, rigorosamente controllato all’ingresso, e poi la scorta di una guida per tutto il percorso in un dedalo di salette interne. Lo spettatore è ben accolto, ma non è più autorizzato a sentirsi, sorprendendosi, protagonista. Tenuto a bada da un protocollo che non è certo solo dettato da motivi di sicurezza. Il clima che accoglieva l’esibizione dei Bronzi di Riace era ancora quello ancora cupo degli anni di piombo. Brigate rosse e terrorismo nero facevano ancora prima pagina in cronaca. E poi un anno di attentati su scala planetaria: Ali Agca che spara al papa. Il presidente egiziano Sadat ucciso a colpi di rivoltella. Regan appena incoronato presidente degli Usa aggredito da un altro pistolero.
No, il distacco del protocollo che incarta l’accesso a questa mostra di oggi e spiega probabilmente i dati d’affluenza così bassi che sta registrando non rispecchiano timori fondati e diffusi di azioni terroristiche. L’unica nube in circolo è quella irrisoria degli ultras ambientalisti che schizzano su quadri e palazzi, insieme al loro ignorato disagio generazionale, salse e vernici lavabili.
E probabilmente non riflette neppure la volontà dell’attuale padrone di casa. Un democristiano di vecchia scuola, garbato e illuminato come il presidente Sergio Mattarella che per fortuna è ancora lì a difendere la Costituzione del nostro paese, e a rappresentare l’Italia di tutti. Ma non ha la carica affettiva, i modi spicci ed estroversi di Sandro Pertini, né può esibire, come lui, la patente e il vocabolario da ex comandante partigiano, estendere a protezione di tutti la fede e lo scudo d’umanità da socialista senza macchia. Come aveva osato fare proprio quell’anno, vegliando per ore accanto al pozzo dov’era sprofondato e avrebbe trovato la morte il piccolo Alfredo Rampi, e rifiutandosi di tornare al Quirinale dove lo attendeva una crisi di governo da sbrogliare.
Dietro questa distanza raggelante e questo calo di partecipazione c’è a mio avviso il crollo epocale di un sogno di rivincita sociale, legata anche all’uso del patrimonio archeologico, che caratterizzava quegli anni. E trovava proprio a Roma il suo epicentro. L’idea forte di una rivisitazione delle vestigia del passato che per essere più condivisa e per alimentare un senso di identità collettiva dava l’assalto ai templi del sapere, si rimpossessava dei monumenti e delle aree archeologiche, abbatteva steccati eretti a separare cultura alta e bassa, centro e periferie, svago e approfondimento.
Grande merito dell’aver acceso questa fiamma al sindaco Luigi Petroselli e all’assessore alla cultura Renato Nicolini. Un’onda contagiosa e travolgente l’Estate Romana, festa e laboratorio delle avanguardie nate nelle cantine del decennio precedente, che celebrò proprio nel 1981 la sua apoteosi, istallando la platea delle sue maratone di cinema sulla spianata del Colosseo. Non per incassare più soldi come da anni capita di essere usata a questa millenaria arena. Ma per restituire ai romani e non solo il piacere di star li davanti a godersi un film e anche un po’ di fresco.
Tra quelle quinte di mura secolari l’archeologia come una spiaggia libera e il pubblico con i suoi commenti, parte integrante dello spettacolo. Autorizzati alla licenza e allo sberleffo anche dalla Hollywood dei cineasti indipendenti: uscì proprio nel 1981 la prima puntata della saga di Indiana Jones: un archeologo appassionato ma spiccio che tratta le rovine e i misteri irrisolti con la disinvoltura di un supereroe da fumetto. Anche lui è invecchiato con noi e rispunta quarantadue anni dopo in un nuovo, quinto film appena uscito, congedandosi con le sue imprese e i suoi acciacchi sotto una bandiera produttiva, la Disney, che ormai per accontentare una platea pigra e suscettibile sparge miele ovunque, anche sugli angosciosi buchi neri del tempo, fino al punto di resuscitare un Archimede grassoccio in carne ed ossa.
Niente a che vedere col fascino narrativo che i due eroi di Riace sprigionavano con la bellezza dei loro corpi torniti. Che postura elegante e virile, che bicipiti, che addomi, che glutei levigati, che membri esibiti senza pudore, su cui fantasticare, svincolati dai complessi d’inferiorità da quel sano piacere di dirsi che la Massenzio di Nicolini e soci non era ancora precipitata nella malignità e nel narcisismo dei social. Poco importa che in acqua uno avesse perso un occhio, e l’altro innalzasse sulle spalle una testa troppo affilata, congegnata per essere riproporzionata dall’elmo: Internet ancora non esisteva, nel 1981 era appena entrato in commercio il primo pc, nelle redazioni italiane si scriveva ancora a macchina.
E poi il fascino della storia e dei miti che si trascinavano appresso. L’essere stati gettati in mare a un passo della costa, probabilmente da una nave che non reggeva alla tempesta e di cui non è mai stato rinvenuto il relitto. Il mistero irrisolto del loro autore. Della loro provenienza dalla Grecia: un paese che, guarda caso, proprio nel 1981 era entrato a far parte della comunità Europea come nono membro. E della loro identità di guerrieri. Che dopo dieci anni di attese e di studi aveva partorito l’ipotesi di due nomi da leggenda. Quelli di Eteocle e Polinice. Sì, due figli partoriti dall’incesto di Edipo. La maledizione profetica dell’inconscio di Freud e l’epopea cantata da Eschilo di una guerra tra fratelli rivali che ridestava l’analogia biblica di Caino e Abele.
Forse la malinconia nasce dalla sproporzione evocativa tra i due eventi. Forse dalla sensazione, ingenerata dal parallelo col presente, di trovarsi di fronte un cimitero di occasioni perdute, speranze liquidate. La svolta impressa nel 1981 da Berlinguer con il drastico strappo del comunismo italiano dall’egemonia sovietica che sarebbe naufragata pochi anni dopo nella liquidazione sommaria del Pci seguita al crollo del muro di Berlino. Lo sdoganamento della cultura di massa affossato dall’avvento delle tv private e dall’inarrestabile ascesa di Berlusconi, di cui allora nella cerchia dei massenzienti non si intuì l’impatto degenerativo. La spinta etica dell’archeologia retrocessa dall’idea di ridurre i monumenti e i resti del passato a miniere di incassi, profitti, clientele personali.
Ma guai precipitare nel vizio alla Orfeo di guardarsi troppo indietro. Si rischia di perdere il valore comunque alto di questa mostra di oggi, la sua capacità di misurarne le emozioni al presente che condensa questa preziosa collezione di cimeli, le riflessioni sul presente che comunque sprigiona. E di lasciarsi sviare da quel titolo fin troppo ammiccante ed enfatico che la pubblicizza: Gli Dei ritornano, un invito a lettere cubitali che soffoca il sottotitolo più scarno e didascalico, I bronzi di San Casciano.
La verità è che gli dei c’entrano solo in parte, con quel santuario impiantato su un complesso termale in Toscana sin dall’epoca etrusca e poi passato sotto il controllo di Roma e vissuto per ben sette secoli, dal Terzo secolo a.C. fino al Quarto d.C. dell’età imperiale, che aveva scelto come numi tutelari un pantheon di divinità protettrici delle due culture. Del culto di Venere, una copia acefala in posa accucciata, ci racconta una delle poche sculture in marmo esposta ad inizio percorso, modello sublime di un’avvenenza che una fanciulla d’allora contava di conquistare immergendosi in quelle acque calde.
Di Apollo invocava l’aiuto la scultura più preziosa ed esteticamente perfetta di tutto questa raccolta riemersa dall’abbandono: un dio giovane, lunghi capelli al vento, i piedi sollevati in un passo di danza per imprimere forza e direzione alla freccia che l’arco, purtroppo perduto, teso tra le mani, stava per scoccare. Chissà contro quale morbo nemico. E da quale postazione. Probabilmente dallo stesso osservatorio d’Olimpo dal quale sarebbe partito il dardo di quel fulmine, ritratto qui da un ex voto come un bastone a due punte, che nel terzo secolo d.C. ha decretato la fine del santuario.
Già perché in quel mondo antico il fulmine era una punizione divina che faceva davvero terra bruciata e non più praticabile del luogo su cui era precipitato. Una maledizione degli dei, che lì non si sarebbero più prestati ad affacciarsi. Altro che ritorno dunque. Un addio che concedeva un’unica replica, chiudere per sempre la vasca di quel non più salubre lavacro, usandola come una tomba dove nascondere tutti i cimeli e gli ex voto accumulati e sigillarne la lapide con una coltre di fango.
Un cimitero da gente agiata visto che la maggioranza delle offerte modellate in formato ridotto era di bronzo, materiale all’epoca tra i più costosi, a rischio di saccheggi ma più resistente all’usura. Soprattutto per la tenuta di quel cuscino di terra che infatti ha conservato quasi intatti quei tesori, fino a quando pochi mesi fa gli archeologi non hanno deciso di scavare quella piscina abbandonata, a pochi metri dalle vasche termali ancora in funzione.
Raro trovare un giacimento di bronzi così stratificato, ricco e integro. Ancor più raro imbattersi in esemplari antichi di così pregevole fattura. Da qui subito il paragone con i Bronzi di Riace. In una gara di bellezza a distanza data in pasto al mondo come un ennesimo miracolo dell’Italia dei borghi da pubblicizzare. Un brand da saranno famosi che il nuovo governo sta inflazionando al punto da togliergli credibilità ed effetto da richiamo epocale. La modesta risposta di pubblico a questa mostra al Quirinale lo dimostra. Peccato. Una buona occasione sprecata.
Ma a mio avviso a frenare la partecipazione è un’altra causa più sfuggente, legata ad una stagione, quella del Covid, che ancora non ci siamo davvero lasciati alle spalle. Quelle reliquie parlano una lingua diversa da quella tutta forza e splendore dei guerrieri greci trovati in Calabria. Sono tutti voti per grazia ricevuta o da ottenere intrisi di mestizia e dolore, debolezze e fragilità. Difficile sottrarsi alla tentazione di identificarvi a specchio i malesseri e le rovine, le morti, le paure, i fallimenti, le promesse che abbiamo dovuto elaborare in isolamento. E che adesso, passato quel ciclo, in tanti vorremmo dimenticare. Stiamo di fatto cancellandoli dalla memoria.
Uno spettacolo d’imperfezione che è invece la chiave indispensabile per accarezzare con la sguardo il messaggio dì imperfezione e precarietà di questi bronzi della Tuscia. E della realtà nella quale ci precipitano, confessando i difetti di quei corpi, quei volti, lasciati in dono nel santuario. Come in quel giovane mingherlino in miniatura, che svetta su un piedistallo al centro della quarta sala, spalle strette e incurvate, torace e addome rinsecchiti e senza muscoli, una faccia da uomo qualunque e senza prestanza, che si è fatto ritrarre impietosamente così, come in quelle foto che esaltano gli effetti di un trattamento esibendo la desolazione di prima della cura.
E che pena vedere quelle statue di bambini, modellate senza nessun ritocco, le guance tonde, la pancia sporgente, le labbra arricciate in una smorfia. E chiedersi qual era il malanno per cui sono stati portati in quell’ospedale-santuario in aperta campagna, se ce l’hanno fatta a guarire. La stessa domanda con cui viene da interrogare quel mezzobusto di signore togato, che ostenta l’abito e il mento sfrontato del suo potere, come una lettera di raccomandazione, ma se è lì non è che un malato come gli altri. Sicuramente meno sincero di altri frequentatori del santuario che hanno avuto il coraggio di andare al sodo. Di affidare le loro preghiere e i loro tormenti ai dettagli di un utero che si avvita gonfio a spirali come il guscio di una conchiglia ed evoca subito il paragone con certe illustrazioni dell’inferno dantesco. Alla rappresentazione di un pene arricciato come un involtino da kebab. A quel campionario di gambe mozze, che invocano senza orpelli la possibilità di rimettersi in moto.
E se prendessimo esempio da questi cimeli di umanità dolente, che si batte per la vita? Se prendessimo tutti atto che la storia che questi bronzi votivi è storia di un fallimento? Dei medici che gestivano quel luogo di cura, e degli dei che lo hanno abbandonato? Che evoca un fallimento anche quella dei Bronzi di Riace? Se accettassimo la morte e la sconfitta come un invito a crescere e a costruirci da soli ma insieme la vita che vogliamo, riconoscendoci nella vita degli altri, soprattutto i più deboli. Invece di affidarci agli dei o consegnarci nelle mani di supereroi.