Filippo La Porta
Il teatro civile

La Babele di Orlando

Magda Mercatali ha messo in scena l'Orlando Furioso con una compagnia di attori (non professionisti) di varia provenienza culturale che mescolano numerose lingue: ne è venuto fuori un piccolo capolavoro di straniamento teatrale. Molto ariostesco

Magda Mercatali, che da qualche anno progetta e allestisce spettacoli teatrali con una compagnia continuamente mutevole di lavoratori immigrati – attori non professionisti –, un laboratorio legato alla Casa dei diritti sociali, si è confrontata temerariamente e creativamente con l’Orlando furioso. Del poema ariostesco esiste una versione per il teatro passata alla leggenda e considerata l’emblema della sperimentazione teatrale degli anni ’70: quella di Luca Ronconi, che si inventò una messinscena vertiginosa, offerta su palchi diversi ed entro uno spazio labirintico che sottolineava la simultaneità delle narrazioni interne al poema (con il pubblico che formava la scenografia, partecipando al rito e al gioco della rappresentazione). Un esempio certamente non imitabile, eppure di quella versione Magda Mercatali – che   ha scritto una variante “da camera” o da teatro dei pupi del poema ariostesco – deve aver trattenuto un aspetto decisivo, sia pure diversamente risolto: un effetto di straniamento, che appartiene alla poetica stessa di Ariosto.

In cosa consiste lo straniamento di questa insolita rappresentazione, da parte di una “compagnia” non professionale, migrante e multietnica?  Fin dal cantastorie iniziale, un honduregno che declama in italiano ma che a un certo punto comincia a parlare in spagnolo, lo spettatore capisce di assistere ad una festa delle lingue e degli idiomi, prima ancora di qualsiasi contenuto narrativo. Dunque la scoperta che Babele, ovvero   la pluralità delle lingue umane non è la conseguenza di una punizione divina ma, come aveva visto bene Dante nel Paradiso, la espressione di un fatto naturale, della vita stessa, che è fortunatamente plurale e variata. Ricordiamo quei versi, dal canto XXVI del Paradiso, dove a parlare è Adamo: «La lingua ch’io parlai fu tutta spenta / innanzi che a l’ovra inconsummabile / fosse la gente di Nembròt attenta: / ché nullo effetto mai razionabile, / per lo piacere uman che rinovella / seguendo il cielo, sempre fu durabile». Ovvero: la lingua originaria con cui io parlavo era già finita prima della Torre di Babele, e nessun prodotto dell’intelletto umana è mai stato durevole a causa del piacere umano nel rinnovare sempre ogni cosa

Torniamo ad Ariosto. Ora, pochi sanno che Orlando era poliglotta. Ariosto non fa che riprendere – un poco deformandolo – un motivo che viene dalle Chanson de geste medievali (il ciclo carolingio per l’epica e bretone per la presenza del meraviglioso) e poi si ritrova nel Morgante di Pulci. Nell’Orlando furioso leggiamo: «Era scritto in arabico, che ’l conte / intendea così ben come latino: / fra molte lingue e molte ch’avea pronte, / prontissima avea quella il paladino; / e gli schivò più volte e danni et onte, /che si trovò tra il popul saracino». Dunque il conte Orlando sapeva l’arabo, cosa che gli permette tra l’altro di salvarsi in varie situazioni: ma secondo la tradizione doveva sapere le lingue antiche, lo spagnolo, il francese, etc.

Il felice straniamento continua poi nella rappresentazione, quando Carlo Magno, dopo essersi enfaticamente presentato, dichiara la sua identità di cittadino ceco, e così Agramante senegalese, Ruggiero del Mali, Orlando marocchino, Astolfo libico, Marfisa marocchina, Bradamante italiana… Come Ariosto aveva omaggiato, rispettosamente e ironicamente, il poema cavalleresco, qui si omaggia Ariosto, la sua vocazione universalistica, la sua celebrazione della molteplicità, entro una messinscena plurilinguistica che ricorda quelle grandiose di Peter Brook, e che è condita di humour ariostesco. Foscolo aveva detto che Ariosto gli ricorda le onde del mare viste da Dunkerque: una spaesante, avvincente, armoniosa pluralità. Nel finale dell’opera scritta e diretta da Magda Mercatali si vuole poi ricomporre tutti i conflitti del poema: nessuno resta insoddisfatto, la pace trionfa e perfino i morti resuscitano, anche perché “i finali tristi non ci piacciono” (personalmente confesso un debole per l’happy end, in film e romanzi, proprio perché l’esistenza ne è priva). Alle armi preferiamo gli amori. E soprattutto il cantastorie ci ricorda che Dio è uno solo e ognuno lo chiama, legittimamente, come vuole. Le guerre di religione vanno oggi trattate come assurdi anacronismi, anche se continuano a impestare il pianeta. Ciascuno di noi può restare nella religione, e nella cultura, che preferisce (le patrie più autentiche sono quelle che uno si sceglie liberamente!), trovando però con gli altri una “lingua” universale, che ci permetta di comunicare, di perseguire una verità sempre relativa, sempre un po’ inafferrabile (in Ariosto appunto i cavalieri “errano” sempre). E questa lingua alla fine è il teatro, la letteratura, l’arte.

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