“Sulla riva dei corpi e delle anime”
La vita è una parola
Raccolto in volume il corpus completo dei versi di Gabriele Galloni, poeta romano morto a soli venticinque anni. La testimonianza di una scrittura affamata di vita
È molto recente la pubblicazione dell’opera completa di Gabriele Galloni, Sulla riva dei corpi e delle anime, titolo trovato dall’editore Crocetti, storico fondatore del mensile Poesia, da poco assorbito da Feltrinelli (la collana che ospita il libro uscito a maggio è IF: Idee editoriali Feltrinelli). Assenti solo Bestiario dei giorni di festa (Ensemble, 2020 – postumo) e le prose di Sonno giapponese (Italic Pequod 2019).
Leggere una dietro l’altra le raccolte pubblicate da Gabriele Galloni dal 2017 – Slittamenti (Augh), In che luce cadranno (RP Libri, 2018), Creatura breve (Ensemble 2018), L’estate del mondo (Marco Saya, 2019), La luna sulle case popolari (ChiPiùNeArt 2021 – prosimetro postumo) rivela qualcosa che in modo chiaro appare finalmente, e non è frutto di un effetto illusionistico.
Appare lampante oramai perché è documentato – poesia-documento – che il fuoco nella scrittura di Gabriele Galloni è una fame di vita e di mondo: tutta la sua poesia non ne è che la digestione, in essa agisce meticoloso e inesausto il rovello poetico che è insieme sentire e pensiero per mezzo del corpo al secolo, ma soprattutto a mezzo della Parola in quella vita autentica che è la letteratura.
In ciascuna raccolta, il poeta segna dei tracciati che a volte si svolgono lineari, altre volte generano poemetti con nuclei più interni (In che luce cadranno), o (come in Creatura breve) si strutturano in diffrazioni duali pronte ad assumere forma di rispecchiamento a chiasmo o a riprendere andamento di nastro vitale (tra Fabula e Pro Verbis che si scambiano di posto per poi ripristinare le posizioni), o ancora (e questo è il dato che emerge prepotente e tenace) si lanciano lacci che li legano in un gioco di passaggio del testimone, da una raccolta all’altra, finendo per svelarci come la vita del poeta fosse assediata ma non insidiata dalla poesia e la poesia fosse insediata stabilmente nella sua vita.
La poesia era il suo respiro, era il battito del suo cuore, era lo sguardo nelle cose nei luoghi nel tempo e null’altro se non il modo di mordere la materia prima dell’esistenza, di applicare alla vita una presa mandibolare ferma eppure delicata, non per strapparla via ma per assaporarla in tutti i suoi gusti.
Non una poesia inutilmente espressiva e autoespositiva, non una versificazione estetizzante, niente del genere: una poesia che viceversa ha sempre dato forma alle cose e alle persone, al mondo e agli altri animali, costantemente intenta a lasciar intravedere i fili numerosi e vari delle corrispondenze tra tutto ciò che esiste e a portare alla luce ciò che (anche solo in apparenza) non esiste (ancora, se non per bocca di chi poeta).
Classicamente, dopotutto, la poesia di Gabriele Galloni vocalizza un istinto a leggere tutto secondo la voce interiore, la frantumazione e ricomposizione intima della propria materia in forme che dicono la contraddizione di fondo di tutto ciò che ci riguarda, il governo volubile del paradosso sulle nostre vite, la convinzione senza esitazioni che chi è poeta abbia un’insopprimibile vocazione al rischio, a esporsi, senza per questo contraddirsi nella inguaribile timidezza e ritrosia a esporre la persona.
Classicamente la poesia di Gabriele Galloni è intessuta di richiami allusioni citazioni che altro non sono se non connessioni col lungo e robusto fiume tranquillo della tradizione a cui Gabriele Galloni ha portato, da costante affluente, la sua acqua fresca, portandosi dietro tutti i fratelli e le sorelle che nel tempo lo hanno ingrossato. Di recente mi è capitato di cogliere, per esempio, una connessione di Galloni col Bardo per antonomasia e con quel suo splendido sonetto (18) in cui il bel giovane è non solo paragonato, poiché è d’uopo, a una giornata d’estate (Raffaele La Capria avrebbe detto, a una bella giornata), ma è indicato come il fortunato prescelto, per grazia di poesia, verso un destino di intramontabilità, in cui l’estate sarà eterna, non declinerà mai, e la morte non potrà farsi vanto di averlo nel solco del suo passo poiché su tutto, del bel giovane, vincerà la grazia.
Gabriele Galloni è nato d’estate ed è morto d’estate. E l’estate è la stagione costante del suo ambiente poetico in cui il tumulto del cuore ha tamburellato forte nel petto senza smettere, spargendo intorno vita e versi con un sorriso infinito. Il tratto che definisce la poesia di Gabriele Galloni è la fulmineità, la formulazione folgorante, lo spiazzamento nel fraseggio breve che ogni tanto, ciclicamente, trova pochi brevi momenti di rallentamento e ritmo placido in cui la corsa rifiata e l’andamento si fa quasi solenne però restando fresco.
Il tema di fondo di tutta la sua produzione poetica e della sua azione di poeta nel reale è addentare la vita avendone ben presente la sponda, il limite, il confine da lambire che le fa da (m)argine.
La musica dei morti è il contrappunto
dei passi sulla terra
– è la formula aforistica che chiude In che luce cadranno (I edizione RP Libri 2018): e lì leggiamo:
I morti scrivono
infinite missive d’amore.
Le spediscono nelle prime ore
del mattino.
O anche:
Un corpo morto non è abbandonato.
Ignora – è verità – le altre creature;
ignora i diktat dell’eternità.
Ma stanne certo: un giorno tornerà
alla vita e avrà voce di Creatore.
Quel primo aforisma era il testimone che due libri in rapida successione si sono passati portando a:
Pro Verbis #4
E saremo l’immagine dell’uomo.
Non la creatura breve*, ma la traccia.
[*da Creatura Breve, Ensemble 2018]
In perfetta armonia con la versificazione (la giusta musica), il dato poetico e di stile che emerge tenace nella poesia di Gabriele Galloni è questo suo coniugare realtà e volo nello scatto, nodo e superamento per scarto, ganglio e sguainato fluire: un esercizio di libertà che dona forza alle cose, anzi con maieutica meticolosità sugge energia per renderla disponibile, come sfregando la lampada per liberare il genio in essa imprigionato (però anche tenuto al sicuro).
In Remix III, leggiamo il distico
– Jung
Sono partito dalle cose e dietro cose
D’ogni sorte (non sorta) ti ho trovato.
Cosa spezza il cuore di un poeta? Cosa gli toglie il fiato e taglia le gambe alla sua giovinezza? Eccolo, il punto. La giovinezza. Sembra che non ci sia, ma la poesia proprio nella giovinezza è annidata. Il poeta, tutt’uno con lei, non può diventare adulto, pena il tradimento. Non può tornare sui suoi passi di eretico che sa tutto per rimangiarsi tutto. Se appena avverte una conversione alla convenzione, il poeta saluta, la poesia che ha in sé fa un ciao dolce quanto affranto e inesorabile, e se ne va. Restare è il vero dramma. Restare e vedere l’adattamento, la resa, l’io politico e cauto che scalza l’io imbelle e imberbe. La questione della disobbedienza è il centro di fuoco da cui la poesia si sprigiona e si dirama all’infinito anche quando l’interruttore è andato, eliminato – sia chiaro, in perfetta lietezza.
La fotografia di Gabriele Galloni accanto al titolo è di Dino Ignani.