A proposito di "Come d'aria"
L’aria delle parole
Il romanzo di Ada d'Adamo (bello e sorprendente al tempo stesso) è un epilogo lirico sulla vita e sulla morte. E soprattutto su come la vita possa accettare la morte. Il racconto di un rapporto madre-figlia intenso e struggente
Come d’aria di Ada d’Adamo (Elliot, pagine 125, 15€) è un libro davvero sorprendente, destinato a dover vincere due diffidenze iniziali. Il pregiudizio che possa trattarsi di un libro doloristico, e alla prova della lettura dimostra di non esserlo. E l’aspettativa che il libro voglia fare poesia di una storia intensa e umanissima, o provi a rifilarci una facile speranza finale in fondo a un tunnel di grandi disgrazie. Niente di tutto questo. Viceversa è un libro asciutto, senza veli, secco, senza indulgenze.
C’è il dolore ed è attraversato come l’unica sorte disponibile. C’è la disperazione, da cui non è esclusa la speranza, meglio sarebbe dire: il rilancio, che vivendo la propria sorte semplicemente per intero si riesca a trovare il modo perlomeno di venirne a capo. C’è soprattutto la comprensione di quel destino, la misurazione perfetta del perimetro della propria vita, personale e familiare, la franca elaborazione e l’inventario dell’intero quadro, e l’accettazione di tutto senza comodi sconti. E in questa descrivibile parabola risiede la fonte di due doni meravigliosi. La pace e la leggerezza.
Non a caso comincia, il libro, dunque si parte, dalla gravità, e dal curioso caso che vuole che Daria, figlia disabile con grave deficit cerebrale, inchiodata, si passi il termine, al peso di un corpo statico, grave, incapace di moto autonomo, goda in realtà di un inatteso vantaggio, che è poi motivo di canto (questo poema in prosa) per sua madre, e cioè di essere di continuo sollevata e alleviata. Ed è per ciò che il lungo valzer, la danza leggiadra che questo libro raccontandola inscena, sfuma poi in una liberazione dalle catene del corpo che, altrettanto magicamente, ha bisogno, per compiersi, di passare attraverso uno stadio immediatamente precedente di incorporazione (titolo del pre-finale del libro). Consiglio anzi, a chi si appresti a leggere. o, se lo ha già fatto ragionandoci un po’ di più su, di interrogarsi proprio sul titolo: Come d’aria, combinatorio e polisemico, la sigla di un passo a due.
Come è possibile il compiersi di un simile miracolo?
Accade per grazia di malattia: il male che colpisce la madre non fa che avvicinare madre e figlia, già tangenti eppure convergenti, sempre di più in una condivisione di condizione che abbatte tutte le eventuali barriere tra loro, già sottoposte, in itinere, a progressivo alleggerimento grazie alla tenera e aggraziata adesione dei corpi che nel tempo ha liberato vie di comunicazione insospettate.
In certi casi e in certi contesti (come la scuola) scattano automatici i termini inclusione e inclusività: alcuni brevi intermezzi, contrassegnati dall’uso del corsivo, offrono molti esempi di come queste parole, di cui a volte è facile farsi scudo o arma o riparo, abbiano una loro vera sostanza nei piccoli gesti amorevoli dei compagni di classe della figlia che la colmano di gesti affettuosi assolutamente spontanei – a dispetto dell’irrimediabile destino di solitudine e isolamento a cui certe situazioni condannano: fin da subito c’è una percezione di esclusione avvertita come un marchio.
Giustamente nel libro l’autrice pone di continuo, semplicemente mostrando situazioni interazioni scene, la domanda di fondo: dove finisce la solidarietà reale tra umani quando la parola esce dai comodi schemi della pietà d’ufficio e chiede d’essere tradotta in azioni utili, in presenza e ausilio reale, in conforto e affetto, e in amore?
Saremmo portati a desumere che allora qui la parola serve solo a raccontare la storia e non salva. E invece qui il prodigio autentico sta proprio nella Parola cioè nella Letteratura.
A cominciare dalla chiave, dunque dalla forma. Questo libro è una lunga lettera, di una madre a sua figlia: lettera sì privata ma lettera al mondo. E il fatto stesso che il libro esiti in una evaporazione, e che questa evaporazione sia conseguita anche attraverso un gioco di spostamento di lettere con esito in numerose metatesi (dispositivo nella lingua di generatività che pesca, quando tutto è perso, risorse di trasformazionalità), dimostra che siamo di fronte a un accurato resoconto personale capace di trovare nella letteratura la missiva in grado di dar senso al dolore e allo stato di malattia per poi, con una piroetta, attuare il classico superamento.
Dunque è una vittoria nei fatti sulla morte. Che non è evitata – poiché non può esserlo – ma è accolta e messa a frutto come dono di pace e di leggerezza, quindi come accettazione e alleggerimento.
Alla fine del libro, a libro chiuso – come usa dire, verrebbe voglia di formulare, come fece T. S. Eliot,
Shantih Shantih Shantih (sanscrito per Pace Pace Pace, dalle culture induista e buddista) – tre volte pace: pace del corpo, pace delle parole, pace dello spirito, come mantra di una persuasione interiore. Però qui non si tratta di un mantra ripetuto per convincersi: è l’annuncio di una vittoria conseguita al termine di un percorso accidentato, infernale, affrontato con perplessità naturale e inerme spaesamento, attraversato con forza e siglato dal sorriso, suo chiaro contrassegno finale.
Questo libro ha una inequivocabile vocazione laica, e si affida tutto alle risorse del corpo, a come il corpo sa e conosce, a come risponde anche quando sembra fare opposizione, cioè gravare e farsi ostacolo se non, peggio, prigione.
La chiave, cioè lo sguardo dalla giusta distanza e anche il distanziatore rispetto alla crudele materia, sta nella danza, vocazione specifica di questa madre leggiadra, capace– quanto più nei fatti è costretta al confronto serrato col corpo, della figlia e il suo –tanto più di saper apprezzare auscultare sentire la fitta comunicazione che il corpo, interrogato o no, invia con ritmo incessante perché si tendano i sensi a captarlo, e capace anche di valorizzarlo nella bellezza come nella decadenza.
In effetti, raccogliendo tutto quanto sparso sopra, il senso che si ricava è di una riunione. Non una separazione, non uno strappo, non un taglio netto – inganno corporale che preclude la chiarezza finale. Al contrario, una compresenza di dimensioni che si congiungono nella forma affatto rara dell’evaporazione. E proprio questa via chiarisce anche il dono di questa figlia istintivamente battezzata Daria poiché, come l’esperienza poi ha crudelmente insegnato, lei, e poi tutto, è D’aria.
La fotografia accanto al titolo è di Roberto Cavallini