Dopo lo scudetto
Vendesi Napoli
A Napoli, il calcio fa esplodere entusiasmi incontenibili. Ma la realtà è quella di una città in vendita: il battello ubriaco, sballottato dalla sbornia tricolore, ha urgente bisogno di “una pozzanghera nera e gelida” in cui specchiarsi per risvegliarsi dal sogno megalomane
Scordatevi Napoli. Non esiste più. È una mera espressione geografica. Un luogo situato a 40°50’ a nord e 14°15’ a est di questa palla bitorzoluta che vacuamente corre nel vuoto, un granello di 117 chilometri quadrati dove si affannano poco meno di un milione di individui. Su cui da qualche tempo si è abbattuta l’orda dei Turisti-non-per-caso, contingenti inquadrati e disciplinati dalle grandi holding del Viaggio che, dopo decenni di manifesto disprezzo – il Grand Tour relegato nell’album ingiallito e negletto dei ricordi –, hanno scoperto virtù e attrattive della sirena Parthenope e le si sono buttate addosso a corpo morto.
Piano sequenza. Stazione centrale, ora di punta. Metropolitana, linea 1, fermata Garibaldi. Il pannello elettronico annuncia un’attesa di 17 minuti; c’è molta gente, l’indicazione iniziale quindi sarà stata 20-25 minuti: accade spesso. La trattoria Carmela, due passi dal Museo (archeologico) e due passi da piazza Dante, risuona di accenti asiatici; molti ospiti orientali solcano le strade principali. La chiesa dei santi Severino e Sossio, «la più bella ecclesia che era in la dicta cita» recita un documento del 1506, è pressoché introvabile, sospesa sopra via del Grande Archivio (anche l’Archivio meriterebbe maggior attenzione), che pure dirama da Spaccanapoli (via San Biagio dei Librai), non proprio una rotta ignota ai programmatori di transumanze straniere. Non un cartello che ne segnali la presenza: la navata e la sacrestia, con i loro magnifici cori lignei, deserte.
Percorsi obbligati. Folle intasano i decumani della polis grecoromana, sciamano nei suoi vicoli angusti. Abbordano i Quartieri spagnoli e la Sanità, deputati a fornire l’emozione del colore locale e, se dovesse sfrecciare una paranza e risuonare qualche colpo di pistola, del brivido. Si estasiano secondo spartito nelle tre, quattro tappe culturali, sempre le stesse. Infine lo struscio a Toledo fino al Plebiscito; una spruzzatina di lungomare; un’occhiata ai castelli.
Fermo immagine. Adagiato sulla costa, un organismo devitalizzato. Un prodotto preconfezionato, infiocchettato, inerte. Una replica plastificata dell’originale. Che genera effetti nefasti. Una devastazione. Culturale, antropologica, fisica. Invasa dalle truppe d’assalto del turismo globalizzato, la città scopre e sfrutta al massimo il pozzo di san Patrizio dell’ospitalità. Scoppia di b&b, pronti a rincarare a dismisura le tariffe nei periodi caldi. Così gli alberghi. Lievitano i prezzi nei ristoranti, nelle pizzerie, nelle friggitorie. Money, money, money.
Si cambia registro. L’antica capitale fa gola. Dietro le truppe da diporto, si muove l’intendenza finanziaria. Mani straniere si allungano sui gioielli della ristorazione, sugli appartamenti. La Sanità è in svendita, con i francesi, a quanto si mormora, in testa a comprare a man bassa. Prende forma una bolla immobiliare, ancora pochi anni fa inconcepibile. Il metro quadrato raggiunge il picco record dei 9.000 euro. Non solo a Posillipo, Chiaia e alcune vie panoramiche del Vomero, luoghi dell’eccellenza sociale, del privilegio. È il centro storico che stuzzica nuovi appetiti.
Tra le falde del Vesuvio e i sussulti dei Campi Flegrei, sempre più vivaci, va in scena il gran galà del neoliberismo. Che elargisce ricchi premi e cotillon. Sulla città piovono proventi che prima rappresentavano una pia illusione, buona ad alimentare le giocate al lotto. Gli abitanti agognano un rapido benessere e si inchinano alla volontà del Business. Anzi, lo desiderano, lo aspettano, lo invocano come e più di san Gennaro. Altro che sangue da liquefare, dindi dindi dindi che gonfiano le tasche.
Sul successo turistico si innesta, con effetto catalizzatore, il successo calcistico. La squadra locale vince il terzo scudetto della sua storia. Fioccano le prenotazioni per assistere ai festeggiamenti, per celebrare l’evento, la sfilata dei campioni. Difficile trovare un buco libero. Si sciolgono ardenti peana per Aurelio De Laurentiis, presidente della società, additato come fulgido modello imprenditoriale, sano e lungimirante, in netta controtendenza nella città sciatta, sempre approssimativa e sprecona.
Il Foglio, che nel liberismo individua l’unica fede praticabile sul pianeta, non ha dubbi: De Laurentiis è la continuazione di Berlusconi con altri mezzi. Una laica santificazione. Del resto, anche il Denaro è una religione.
Pier Paolo Pasolini, che un po’ idealisticamente amava i napoletani, scriveva: «Quando contadini e artigiani spariranno, sarà la fine della nostra storia». Considerazione da ferreo marxista, che nel conflitto tra classi situa il motore della storia. Il neoliberismo, il primato assoluto delle presunte leggi bronzee dell’economia (stranamente forgiate nell’alto dei cieli per favorire i già favoriti), stravolge le antiche categorie, fa strame delle classi sociali e tutto unifica sotto la sferza del Guadagno e l’imperio del Consumo.
Unificazione fittizia, perché sotto la crosta le divisioni permangono e, anzi, si accrescono: non a caso, statistiche alla mano, i padroni della Terra sono sempre più ricchi e il numero dei poveri cresce. Ma la realtà viene occultata sotto il tappeto del Consumo, dell’acquisto e possesso di beni spesso superflui, quando non proprio inutili.
Procede un’alchimia sociale in cui ora anche la vecchia sirena si diletta, abbacinata dal luccichio delle monete. Nasce e si diffonde un campione sociale piccolo-borghese, o un borghese piccolo piccolo, tutto inteso a impinguare il conto in banca e ben attento a proteggere il proprio orticello. Non certo il napoletano di Pasolini, che sfuggiva all’omologazione, ma un soggetto che la concupisce e insegue bramoso. E che può contare fratelli, o correligionari, a Parigi, Londra, Amsterdam, New York. L’Occidente danza al ritmo del valsente.
Il calcio scudettato fa esplodere entusiasmi incontenibili, sovreccitazioni infantili. De Laurentiis docet. Si discetta di Modello Napoli in un’università cittadina, e si apprende che la squadra non è più un’arcaica società sportiva, ma «una società di lucro e media company» (gergo del marketing, quest’ultima espressione, per una strategia aziendale che punta su un valore supplementare per differenziare e vendere il prodotto in un mercato inflazionato).
Laudi tracimano da ogni dove, nella dissonante sinfonia di trombette e putipù e la fantasmagoria pirotecnica. Vaticini traboccanti euforia, prossimi al delirio: la grande occasione, strombazzano all’unisono i media. Progressive e magnifiche sorti per la sirena eponima dall’amore infelice.
Voci autorevoli e meno autorevoli gorgheggiano in coro di una sicura rinascita della città, palingenesi sulle ali dei gol di un ragazzo nigeriano e i guizzi galvanici di un quasi adolescente georgiano. Dimentichi che i due precedenti scudetti, con la firma illustre di Maradona, non hanno prodotto rivoluzione alcuna. Anzi. La camorra, l’imprenditore più lucido e manovriero, si sfrega le mani col mercato dei gadget fasulli che, a furor di scudetto, si vendono come il pane da san Martino a Forcella.
Nell’auspicio di futuri trionfi, c’è da ridisegnare lo stadio, opera salutata quale motore primo di una nea-Neapolis; l’edilizia ha storicamente un ruolo fondamentale, spesso deleterio, nello sviluppo urbano. Privatizzazione, giungono grida garrule da ogni angolo. Già consegnata la Nuova Città della Scienza, risorta dalle ceneri del 2013.
Privatizzazione anche del patrimonio monumentale, cui potrebbe a breve essere costretto un Comune assediato dai debiti, salvato a suo tempo dal fallimento da Mario Draghi con un Patto per Napoli che molti considerano un cappio al collo, qualcosa di molto simile a quanto avvenne per la Grecia di Alexis Tsipras, elegantemente soffocata dai lacciuoli tesi dall’Unione europea e dalle inderogabili leggi dell’economia.
Per far cassa, ai privati potrebbero finire i castelli, la Galleria Principe di Napoli, altri tesori. Bagnoli, paesaggio lunare dopo lo smantellamento dell’Italsider, riedificazione sempre in fieri, è un ghiotto giacimento aurifero per i signori del mattone, sempre alacri nel golfo. Ma la metropolitana dalle stazioni più belle del mondo è un miraggio nel deserto, i trasporti pubblici un tableau vivant di Caporetto.
Il battello ubriaco, sballottato dalla sbornia calcistica, ha urgente bisogno di “una pozzanghera nera e gelida” in cui specchiarsi per, forse, risvegliarsi dal sogno megalomane, da Sardanapalo postmoderno. Ripercorrere le pieghe seminascoste sulle pendici che ascendono al Vomero. Rincorrere in quegli anfratti la propria anima smarrita. Riappropriarsene.
Riscoprire – un esempio per tutti: il Cavone, ancora immacolato di turisti e speculazioni – quel popolo degli abissi che sembra perpetuare, come organizzazione sociale, le fratrìe delle origini greche. Acquartierato nei bassi senza luce di vicoli e vichi, primordiali nuclei di insediamento (il vico in origine designa il borgo, il villaggio). Recessi disseminati di edicole, stazioni di culto e medium con l’aldilà spesso ad uso privato, delle varie fratrìe appunto.
Popolazione genuinamente pagana, come pagana è nei fatti Napoli, a onta della ricchezza di chiese e monasteri. In un diuturno rapporto osmotico con la morte: Pulcinella, che i più scambiano per un povero buffone capace solo di lazzi e lo elevano a simbolo di una città sgangherata, è un emissario degli inferi. ‘O monaciello, che abita le dimore e la fantasia dei napoletani, ha la sua culla nell’oltretomba. Gruppo etnico che miscela in un unico culto antiche divinità egizie, possibilmente itifalliche (taumaturgiche virtù del membro maschile, ancora vive nel “pesce” di san Raffaele, proposto per baci salvifici a donne sterili o nubende), i santi che grondano sangue del culto cattolico, Maradona dalla vita esagerata, e oggi il condottiero nero Victor Osimhen, inconsapevole rappresentante della irrevocabile e ben radicata multietnicità della metropoli. Allora sì, riconoscendo la propria più genuina natura, esorcizzando la fatamorgana di un favoloso, veloce arricchimento, la palingenesi potrebbe davvero, finalmente, aver luogo. E restituire alla sirena il sorriso dell’amore.
Accanto al titolo, Anton Sminck van Pitloo, Castel dell’Ovo dalla spiaggia (1820-1824).