I deliri del bibliofilo
Una frugalità imperdonabile
“Passo d’addio”, “Fiaba e mistero”, “Il flauto e il tappeto”: le prime edizioni dei tre libri pubblicati in vita da Cristina Campo, autrice poco propensa «a diffondere i propri testi in maniera indiscriminata», coltivando piuttosto «la tendenza a rendere note con parsimonia le proprie pubblicazioni»
Il centenario della nascita di Cristina Campo ci consente di rivisitare la figura di questa singolare scrittrice che fece di tutto per rimanere nell’ombra, adoperando vari pseudonimi per i suoi lavori di traduzione e collaborazione (il suo vero nome era Vittoria Guerrini) e pubblicando in vita soltanto tre libri: la silloge poetica Passo d’addio (All’Insegna del Pesce d’Oro, 1956) e le raccolte di saggi Fiaba e mistero (Vallecchi, 1962) e Il flauto e il tappeto (Rusconi, 1971). Proprio sulla bandella di quest’ultimo volume appare la nota che sembra caratterizzare il suo percorso letterario, mai disgiunto da una macerazione spirituale che rasenta un’ascesi di ascendenza quasi monacale: «Cristina Campo è uno pseudonimo. È cresciuta a Firenze nell’ambiente del padre compositore. Ha scritto poco e le piacerebbe avere scritto meno. […] Oltre alla poesia il suo maggiore interesse è la liturgia: l’ex romana, la bizantina». (Su Cristina Campo nel centenario della nascita vedi anche: https://www.succedeoggi.it/wordpress2023/04/su-cristina-campo/, ndr).
È quanto mai significativo che, in un’epoca dominata dal dogmatismo ideologico, gli interessi di Cristina si orientassero in direzione pressoché antitetica: la poesia e la liturgia. È presente infatti, negli scritti di Cristina, un costante approfondimento interdisciplinare che crea accostamenti insospettati fra materie diverse come poesia e traduzione, saggio di taglio erudito e investigazione esegetica. Risulta perciò riduttivo circoscrivere i suoi interessi variegati nell’ambito di un genere definito in maniera netta e lineare. Si dovrà considerare il fatto che qualsiasi occasione può costituire lo spunto per argomentare sopra un determinato tema: la nervatura di una foglia, il ricamo di un tappeto, l’eco di una fiaba rappresentano il pretesto per modulare variazioni intorno a una dimensione spirituale autentica e rigorosa.
Passo d’addio, il suo esordio poetico che rappresenta anche l’unico libro di liriche pubblicato in vita, raccoglie soltanto undici componimenti e due esercizi su Eliot, dominati da uno stile che si differenzia notevolmente rispetto ai canoni letterari del tempo. La poesia della Campo sembra risentire di un andamento semplice e sorvegliato, che si basa su una compostezza di tipo classico, derivata dai suoi innumerevoli lavori di traduzione e da maestri dichiarati come Hofmannsthal e Simone Weil. Scrive Margherita Pieracci Harwell che, oltre ad essere raffinata esegeta dell’opera della Campo, fu una delle sue più care amiche: «Per penetrare più a fondo nel pensiero di Cristina Campo le due guide più sicure sono Hugo von Hofmannsthal e Simone Weil – fino ai tardi anni Sessanta i più costanti phares di questa instancabile, ma soprattutto selettiva e fedelissima lettrice». La silloge uscì in 350 copie numerate nella collana «Nuova serie letteraria», curata da Vanni Scheiwiller, che comprendeva volumetti di cm 9 x 12.
I versi, composti tra il 1954 e il 1955, con eccezione della prima poesia datata 1945, risentono degli spunti e delle atmosfere più varie, nel tentativo di rendere «bianche tutte le mie lettere, / inaudito il mio nome, la mia grazia richiusa». Sembra un inno alla grazia che si riverbera talora in delicati versi di ascendenza dickinsoniana, talaltra in enigmatiche asperità di stampo eliotiano: «Ora non resta che vegliare sola / col salmista, coi vecchi di Colono». Non è un caso che sia Emily Dickinson sia Eliot furono tra gli autori prediletti della Campo che li tradusse da par suo. Cristina Campo, in una missiva indirizzata l’anno precedente a Margherita Dalmati, ricordava: «Scrivo versi da soli 12 mesi, lo sapevi? Moriremo lontani è la mia prima poesia. La scrissi in una notte così stanca… Se ti capita di trovarti nei Musei Vaticani, vedrai nella sala egizia una custodia di vetro con dentro i corpi di due bellissimi giovani. E sopra quella coppia millenaria, che è l’immagine stessa dell’amore, c’è il cartello: “non erano uniti da alcun vincolo familiare”». Già Leone Traverso, in una recensione apparsa sulla rivista «Letteratura» nel 1957, rimarcava sia le fonti plurime d’ispirazione che sottendono alla nascita di certe poesie (con riferimenti, più o meno espliciti, alle Mille e una notte, a Lawrence d’Arabia, a san Paolo), sia l’oscurità di alcuni passaggi: «Ci si incontra in altre liriche a passi che sembrano a prima vista invalicabili, non per arbitrii sintattici o lessicali, ma perché occulto rimane il pozzo profondo da cui sorgono certe immagini».
Il secondo titolo fu Fiaba e mistero, edito da Vallecchi nel 1962 nella collana dei «Quaderni di pensiero e di poesia», curata da Elena Croce, Gianfranco Merli, Tomaso Carini e Tullio De Mauro. Il volumetto, contenente cinque tra i più riusciti saggi della scrittrice, fu pubblicato in un’edizione numerata di 600 esemplari di cui 100 fuori commercio numerati da 1 a 100 e 500 destinati alla vendita numerati da 101 a 600. Il libretto, che misura cm 20 x 12,5 e consta di 62 pagine, presenta una copertina verde scuro sopra cui compaiono soltanto il nome dell’autrice, dell’editore e il titolo. Nella stessa collana vedrà la luce anche la raccolta di saggi intitolata Spagna di María Zambrano che fu amica della Campo. Entrambi i primi due titoli pubblicati denotano la scarsa propensione dell’autrice a diffondere i propri testi in maniera indiscriminata, bensì la tendenza a rendere note con parsimonia le proprie pubblicazioni. A parte qualche sparuta segnalazione, i due testi vengono subito relegati nel dimenticatoio. La stessa autrice scriveva a Leone Traverso il 10 ottobre 1962 a proposito di Fiaba e mistero: «Ora anche di questo libretto mi è venuto un enorme desiderio che nessuno si accorga. Una parola è sufficiente per toglierti tutto il piacere di averlo scritto, farti sentire “as public as a frog”, il che equivale a non scrivere più».
Il flauto e il tappeto, pubblicato da Rusconi nel 1971, costituisce il terzo e ultimo libro pubblicato in vita. Rilegato, faceva parte della collana «Cultura nuova» e presentava in sovraccoperta un particolare dal Polittico Portinari di Hugo van der Goes, riproducente l’immagine severa della donatrice Maria Portinari in preghiera, ripresa anche nella copertina degli Imperdonabili. Stavolta non si tratta di un’esile plaquette, in quanto le pagine sono 196; il formato del libro è in-8°. Cristina De Stefano, nella sua biografia Belinda e il mostro, precisa: «Artefice della pubblicazione del Flauto e il tappeto è Alfredo Cattabiani, direttore editoriale della Rusconi. Formatosi nella cerchia torinese del filosofo Augusto Del Noce, laureatosi con una tesi su Joseph de Maistre, dal 1966 al 1969 ha diretto la casa editrice Borla, di ispirazione cattolica. Quando ha chiesto a Del Noce di seguirne una collana, il filosofo ha accettato, ma a patto di avere al suo fianco Elémire Zolla. Cattabiani comincia così a frequentare la casa sull’Aventino, dove incontra Cristina Campo, convincendosi subito del suo talento. “È stata forse la più grande prosatrice italiana di questo mezzo secolo” ricorda oggi. “Del suo libro vendemmo poche copie, e non ottenemmo nessuna recensione perché l’autrice era giudicata reazionaria”».
Si tratta di una raccolta di saggi (alcuni di questi ripresi dal volumetto precedente) in cui l’autrice disquisisce intorno agli argomenti più disparati creando insospettabili accostamenti. Il punto di partenza collima il punto di arrivo solo grazie a un procedimento narrativo che persegue tale obiettivo attraverso una sequenza di corrispondenze di ardua decifrazione agli occhi del profano. Il cerchio si chiude in maniera affascinante ed enigmatica, dopo un continuo peregrinare intorno ai simboli della redenzione e della perdizione. Dall’intreccio di un tappeto persiano a una «frase glaciale» di Proust, dalle considerazioni sul tema della «sprezzatura» alle suggestioni del rito gregoriano, la prosa si configura alla stregua di un emblema araldico miracolosamente scampato alla distruzione e alla rovina. Come Borges, la Campo si interroga a lungo sui propri ideali e modelli letterari, stabilendo un’opera di interpretazione quanto mai preziosa, anche se dai tratti anomali.
Dopo la morte le prose della Campo, che si possono considerare come il punto più alto della sua opera, furono riproposte e integrate in due volumi adelphiani, usciti rispettivamente nel 1987 e nel 1998, Gli imperdonabili e Sotto falso nome, cui ne seguiranno altri. Da segnalare un rarissimo estratto dal n. 150 della rivista «Paragone», edita nel giugno 1962 da Rizzoli, contenente In medio coeli, poi confluito in Fiaba e mistero e Il flauto e il tappeto.