Luigia Sorrentino
Ceppo Poesia 2023 in tre parole /6

Tornare Accadere Attendere

«La poesia» – afferma Luigia Sorrentino, ultima dei tre finalisti al Premio che si assegna il 7 a Pistoia – deve continuare a farsi portatrice della condizione umana che è nel continuo accadere… Testimoniare diventa più che mai necessario per dire la verità della violenza, dell’ingiustizia, dell’iniquità, con un grido o un’invocazione»

È Luigia Sorrentino che racchiude oggi in tre parole-chiave il suo “centro di gravità” poetico. Con Piazzale senza nome (Samuele Editore – Pordenonelegge) è l’ultima dei tre finalisti al Premio Internazionale Ceppo Poesia – presieduto e diretto da Paolo Fabrizio Iacuzzi – che il 7 maggio vengono votati dalla Giuria dei Giovani lettori. Come scrive Alberto Bertoni nella motivazione, la poetessa vince «per la capacità di affrontare a viso aperto i problemi di ordine tanto sociologico quanto linguistico e strutturale che la poesia davvero contemporanea è chiamata ad affrontare». (Info:www.iltempodelceppo.it).

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Tornare
C’è lo spleen baudelairiano in Piazzale senza nome, il male di vivere che attraversa gli stadi più profondi dell’essere umano. Il vecchio che muore è preda di mani amorevoli che l’accudiscono, mentre i ragazzi rapiti dalla droga e dall’alcol, sono abbandonati in un tunnel senza uscita. C’è sullo sfondo, nella luce temporalesca del luogo, il tentativo di donare a queste vite perdute, un gesto d’amore. Questo è l’idéal: la corrispondenza. Le morti parallele hanno colori che incrociano la vita vissuta interamente dall’uomo e la vita spezzata dei giovani. Il bianco e nero dell’adolescenza, una condizione esistenziale tragica, s’insinua e si confonde alla morte del vecchio. Ròsa è l’innocenza della ragazza annunciata, sopravvissuta a un amore violento e distruttivo, e ròsa è anche lo stupore di chi si prende cura dell’uomo che muore. La luce di piombo che crivella la camicia del vecchio, il colore fangoso dei suoi occhi non è diverso da quello dei ragazzi che hanno le braccia crivellate dai colpi d’ago nelle vene. L’uomo compie gesti automatici perché non ha più il controllo di sé stesso, così come i ragazzi sono perduti nell’automatismo della dipendenza. Gli uni e gli altri sono a contatto con la morte, con il colore del sangue, con la Verità della Violenza. L’opera si muove su due registri linguistici: la lingua fredda, dura, anaffettiva, contaminata dalla dipendenza, e poi c’è, come contraltare, una lingua emotiva, intima, affettiva, contagiata dalla perdita e da un lucido e profondo sentimento d’amore. C’è ancora l’odore del sangue sulla strada lastricata di pietra lavica della città di provincia del sud Italia che la ragazza ha lasciato a vent’anni. C’è la memoria della violenza che ha camminato sottotraccia, e questa violenza ha i volti di molti giovani che non ci sono più. C’è il divieto della legge e c’è sempre, per statuto, la sfida, l’infrazione della legge. C’è la notte della vigilia, il desiderio di un’uguaglianza che liberi nel rituale del fuoco il volto pacificato della specie umana. Ma l’oscura e profonda notte illuminata dal falò nel piazzale, è lontana, come la luce del sole che acceca i ragazzi mentre vanno a scuola in motorino alle otto del mattino. Il segno che hanno lasciato i giovani si è trasformato in un luogo senza nome. La dipendenza è un cosmo pietrificato. L’estasi, la «scintilla glaciale degli occhi», è una lunghissima aurora. Il cielo nella controra pesa sulle loro teste come un coperchio bollente. Il letto abissale è la strada. I corpi si accasciano sul marciapiede nel ritmo persecutorio di un rituale ossessivo. Non puoi toccarli. Il viaggio è ustionante. I loro corpi sono circondati da un’immensa tenerezza. Ebbri di una musica che nessuno sente, gravitano nell’universo con palpebre socchiuse. Il rapt, il rapimento, è una grande Natura materna dove ci si sente amati. Ma questi giovani sono già nella malattia della morte e il loro paradiso artificiale è una disperata richiesta di aiuto. Sono adolescenti. E l’adolescenza è un’oscura tempesta che li travolge come un nemico. Sono lì come qualcosa di inutile, fiori sciupati, appassiti e gettati sulla strada. La compulsività del rituale è la necessità, ma la necessità inalterabile – Ananke – chiama i poeti a rendere testimonianza. Tornare dopo trent’anni nella periferia nella quale hai vissuto da ragazza è ancora l’idéal. È la corrispondenza olfattiva di una terra arcaica dai lunghi tramonti sul mare, è il desiderio di ritrovare la tensione della vita giovane, la bella giornata di sole, l’impronta paterna nei lineamenti del viso. Tornare. Per rivelare il nome e l’essenza del nome seduti davanti al fuoco in una «sofferenza senza risposta». La fiamma disegna sui volti l’interiorità della terra. Negli occhi schegge, lampi, bruciano tralci nodosi dell’antico vigneto. Non possiamo più niente. Gli ampi respiri della vampa crepitano nella pietra lavica. Siamo nel margine della durata, cenere sparsa fra cespugli di ginestre, «reliquie di sonno/ cadute nei dirupi». 

Accadere 
Credo che la poesia debba continuare a farsi portatrice della condizione umana che è nel continuo accadere. Questa dimensione è stata in passato – continua a essere – nel presente, una dinamica che coinvolge non solo gli esseri umani in quanto tali, ma il vivente. Si scrive per testimoniare la propria presenza – ciò che accade continua a accadere – nel mondo. L’accadere coinvolge e suscita la reazione della scrittura, la necessità della scrittura, dalla quale non ci si può sottrarre perché ciò che è accaduto provoca una reazione dettata dall’urgenza. La parola della poesia libera istantaneamente dall’assalto degli eventi, da una situazione asfittica, dolorosa, tirannica e le parole che abbiamo scritto o che scriveremo, ci schermano dalle circostanze che assillano, che preoccupano e che riguardano il degrado della civiltà. Per il filosofo francese Jean-Luc Nancy la bocca (dal greco στόμα) è il luogo dell’accadere e l’accadere è l’esperienza del toccare, dell’essere toccati dalla nudità del mondo che non ha origine né fine. L’accadere è un’apertura, è uno spazio spalancato a disposizione di tutto ciò che accade. L’aura materna della poesia si fa carico dello pneuma del mondo, dallo spazio cosmico a quello del senso, penetra in tutti i cuori e li innalza. La visione dell’accadere è attraversata dalla «svolta del respiro» della quale ci ha parlato Paul Celan: respirare il mondo e restituirlo a una corrente creativa che coinvolge l’umanità e la eleva alla potenza della parola, nell’accadere perenne. Nietzsche fa riferimento a un aprirsi a «un abisso di luce» metafisico, alla vastità del senso verso il quale tutti veniamo rimandati, un’illuminazione che apre al vivente e lo richiama alla sua responsabilità. Oggi viviamo in una situazione di crisi. Ancora una volta il mondo alla fine viene scosso dall’accadere. Ciò che accade non è indifferente al poeta. Testimoniare diventa più che mai necessario per dire inspirando e espirando, la verità della violenza, dell’ingiustizia, dell’iniquità, con un grido o un’invocazione. Il poeta osserva, nell’accadere, le piccole cose, quelle apparentemente insignificanti che invece hanno valore e, attraverso la messa a fuoco di ciò che è piccolo entra nella profondità della visione, coglie le sfumature del quotidiano nell’essenzialità di una lingua, frammentaria, scarna, incompleta. La poesia annuncia e racconta la tragicità del nostro tempo. Lo fa con un’illuminazione apollinea, che ricerca il bello nella distruzione della città, nella consapevolezza che il valore della vita non è nulla se la città – intesa come civiltà, istituzione – non c’è più. Allo stesso tempo la poesia può avvertire il caos, il movimento atterrito dell’angoscia del mondo e cadere in una dimensione dionisiaca, folle. La poesia deraglia in assenza dello Stato, asseconda il trauma che coinvolge l’umanità intera. L’erranza del poeta conduce alla piena consapevolezza del lutto che non esprime una condizione privata, ma universale. L’essenzialità dei versi è una forza tragica e umana, l’austera bellezza di uno stile, di una lingua, che trattiene le parole per distaccarsi dal male. Scrivere e rendersi invisibili. Riscrivere la Storia. Far sparire l’io. Dissolverlo. Difendere la solitudine e l’isolamento della scrittura. Questi sono gli strumenti della mia poesia nell’accadere. Restare vigili sulla soglia di qualcosa che è accaduto e continuerà a accadere. 

Attendere
La fedeltà della parola è permanenza, tendere verso, at-tendere. Tensione. Attenzione. L’attesa è la centralità del luogo nel quale la poesia prende forma. Ascoltare il linguaggio della pietra e del fiume e riconoscere il vivente in un circuito perenne di creazione e distruzione. Fissità. Immobilità. Stabilità. Ma anche mobilità, movimento, passaggio. Scrivere è un processo di rivelazione, di svelamento del reale. Ma la poesia non può compiersi senza l’attesa, che ha un legame profondo con la mancanza, che però non è una sofferenza che blocca l’interiorità, ma è la domanda rivolta alla ricostituzione della presenza e del senso. Cosa ci faccio qui? Qual è il mio compito? L’attesa va verso la risposta con un atto interno e invisibile, con lo svuotamento del luogo. Togliere, eliminare, fare spazio intorno a sé, aprirsi alla dimensione dell’ascolto. Attendere fra le mura domestiche che la poesia torni a liberare il pensiero. L’isolamento è un atto di sospensione, di allontanamento. In un tempo-mondo disabitato, dislocato, avviene l’espulsione, la separazione dalla condizione privata. La poesia orbita dalla lontananza, e quando arriva, cede il pavimento sotto i piedi. L’attesa è un tempo gravido che brucia nella sofferenza o nella gioia dell’essere al mondo. «La natura è un tempio», scrive Baudelaire ne I fiori del male. Il tempio è la dimora. E la tregua è il luogo selvatico e inespresso dove ora si trova la mia poesia. Chissà quando tornerà a «scriversi, a scrivermi». La luce del giorno che arriva dalla montagna è una creatura viva che sprigiona una forza attiva, ricca di zolfo. Ma tutto tace nell’attesa. Non sai quando dall’esilio si leverà il canto che allargherà o restringerà la prospettiva dopo il lunghissimo silenzio. L’opera è nello scorrere delle ore e dei giorni, degli anni. Negli occhi, una terra vulcanica scabra, rocciosa, una terra odorosa di tufo, di limo e mimosa. I cardi nel campo modesto, accanto all’orto coltivato, il vigneto. L’attesa nella quale si trova la mia poesia rivela la natura escoriata, spoglia, denudata dal tempo invernale di questo secolo che spazza via ogni cosa, la frantuma in un colore sfuggito dal sole che infiamma la casa. Ripararsi. Riparare la frattura dell’infinito respiro del mondo.

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