“Il sol dell’avvenire”: una diversa lettura
Sì, Moretti sì!
Questa volta un apprezzamento convinto per un film che suscita richiami letterari, suggestioni, riflessioni anche di carattere religioso, che rimanda, non in modo autocompiaciuto ma più riflessivo, ad altri film dello stesso autore. Un richiamo alla responsabilità, con intermittenze del cuore
Chi si accinge a parlare dell’ultimo film di Nanni Moretti Il sol dell’avvenire, che ha lasciato giustamente una profonda impressione in me e in molti di coloro che l’hanno visto, non può fare a meno di richiamare le parole rivolte al giovanotto che pontifica subito dopo aver visto La dolce vita: «Smettila di dire sciocchezze!». E certo mi dispiacerebbe di non riuscire, come quello, a dire, almeno in parte, le ragioni che sono all’origine del mio fin troppo convinto apprezzamento. La trama del film nel film che il regista settantenne Giovanni (lo stesso nome del fratello della protagonista di Mia madre) sta girando è nota: l’arrivo del circo ungherese Budavari a Roma, presso una sezione periferica del partito comunista, che avviene proprio in coincidenza dell’invasione russa dell’Ungheria nel 1956. Sarà la mancata condanna dell’invasione sovietica da parte del Partito comunista, nella persona del compagno Palmiro Togliatti, la ragione del dissenso tra il segretario della sezione e la moglie di lui, fino alla felicissima conclusione nel doppio finale.
Quel doppio finale, che richiama quella convergenza di estetica ed etica che era già di Walter Benjamin, non può non far pensare alle parole dette da Jorge Luis Borges in un suo saggio critico a proposito dell’Ugolino dantesco: «Nel tempo reale, nella storia, ogni volta che un uomo si trova di fronte a varie alternative opta per una ed elimina o perde le altre; non è così nell’ambiguo tempo dell’arte, che somiglia a quello della speranza e dell’oblio». Ricordiamo il rosso sol dell’avvenire di cartapesta in Palombella rossa, quel film del 2009 dove c’è il pallavolista Budavari, da cui prende il nome il felliniano circo di quest’ultimo film di Moretti, e ricordiamo soprattutto l’esclamazione del protagonista di quel film: «No, le merendine di quando ero bambino non torneranno più», «Mia madre non tornerà più». Appunto a Mia madre fa pensare, a mio giudizio, questo ultimo film di Moretti. Come non ricordare quel “visitare gli infermi” che è una delle opere di misericordia corporale, quella dimensione religiosa del come se, della scommessa pascaliana, che è all’origine del finale anche di questo film, «La storia si fa con i se», una dimensione religiosa su cui peraltro da tempo si interroga la coscienza del regista che appunto al tempo di Mia madre, nel 2015, ha dichiarato: «Non sono credente e mi dispiace». E qui il protagonista dice: «Stavo parlando con mia madre che è morta dodici anni fa». A proposito delle riflessioni tra vita e cinema, inoltre, come si fa a non ricordare la regista del film che in Mia madre esorta a trovare una dimensione in cui la persona affianchi il personaggio e l’attore protagonista, uno straordinario John Turturro, che esclama a un certo punto: «Ridatemi la realtà!».
Certo Il sol dell’avvenire è soprattutto quel film sui cinquant’anni di vita di una coppia che Moretti fa dire al regista protagonista di voler girare: «Mi piacerebbe fare un film sui cinquant’anni di vita di una coppia con tante belle canzoni. I due si conoscono, si amano, litigano, fanno figli… il tempo passa… e tante canzoni italiane». Non a caso tra le canzoni troviamo Sono solo parole, mirabilmente cantata da una bravissima Noemi, che, a ben vedere, si spiega come una sorta di contraddittorio fra chi ama e chi non ama. Le parole contano ed è solo in bocca a chi non ama che esse «sono solo parole». Parole, parole, parole intitolava una sua deliziosa letterina immaginaria al poeta romanesco Giuseppe Gioachino Belli il cardinale Albino Luciani, quello che sarebbe diventato di lì a poco papa Giovanni Paolo I. Il richiamo alla responsabilità di ciò che si dice, che ritorna con significativa costanza nei film di Nanni Moretti, dal brevissimo episodio manzoniano del sesto capitolo dei Promessi sposi in Come parli frate? al ben più celebre episodio di Palombella rossa («Le parole sono importanti»), trova qui, a mio giudizio, la sua più alta e compiuta espressione.
Non risulta poi fuori luogo neanche il malinconico richiamo di Luigi Tenco in quella celeberrima canzone, Lontano lontano, che si può considerare come una intermittenza del cuore di proustiana memoria, quando per una strana ragione la distanza del tempo in cui sono avvenute le vicende si accorcia e tutto diventa presente come per la morte della nonna dell’autore della Recherche allorché il giovane Marcel, ritornato a Balbec, si china per allacciarsi le scarpe e ha un tuffo al cuore. Non a caso dal film è stata tolta una frase significativa e quasi profetica che il protagonista recita nel suo passaggio per piazza Mazzini, dal momento che poteva sembrare un richiamo all’attualità: «Già vedo i carri armati avanzare verso viale Carso».