Su “La verità arriva all'improvviso”
Le ombre di Roma
Il nuovo libro di Paolo Vanacore è una raccolta di dieci racconti: dieci ritratti di donne continuamente sospese tra amore e solitudine con Roma coprotagonista. La città delle vetrine, dei monumenti, della storia e della disperazione delle periferie
Il ventre di Roma è molle e infetto, sa di rancido, ha il colore dei sogni che non si realizzeranno mai e che perciò nemmeno più si sognano, dei liquami putrescenti che hanno dimenticato di essere stati un tempo acqua piovana. È il paesaggio straziato e informe della Grande Bruttezza, a qualche fermata di bus dalla città dei papi e di Bernini e Borromini, degli imperatori e del Colosseo, della bellezza che non ha pari. La stessa città, abitata da donne e da uomini, che cambiano passo e abiti, una volta attraversato il confine sottile, la linea che non si vede e che di continuo cambia posizione, tra i quartieri cresciuti in fretta e che non sono nemmeno più periferia, ma continuano a sapere di povertà culturale e di degrado, e le strade che brillano di storia e di eleganza secolare; tra l’enorme terra di nessuno, continuamente anonima e continuamente moribonda, e lo splendore continuamente in bilico della Città Eterna.
Su questa linea di confine, nell’impegnativo tentativo di salvarsi finalmente arrivando in quell’oltre che significherebbe liberazione, se non proprio riscatto, si muovono le dieci donne protagoniste dei racconti che compongono il volume La verità arriva all’improvviso di Paolo Vanacore (Tempesta editore, 170 pagine, € 17). Sono donne che “raramente sorridono o scherzano perché sono eternamente preoccupate dalla necessità di vivere”, giovani e meno giovani sempre alle prese, e quasi sempre in lotta, con il proprio ruolo di mogli, mamme e figlie, future mogli e future mamme, a cui un copione scritto da soli uomini, tragicamente insulso e ripetitivo, vorrebbe costringerle. A volte la via d’uscita è solo quella, irrimediabile, della pacificazione ottenuta con la morte, in altri casi si tratta di attraversare la sofferenza, l’incomprensione, di superare pregiudizi e condanna sociale. “Da grande voglio fare l’infermiera, non so perché – confessa la diciassettenne protagonista del racconto Un passo avanti, due indietro ‒. Mi sembra il mestiere più naturale del mondo. Voglio essere una bellissima infermiera con i capelli lunghi, ricci misto castano biondo, un seno più grande e tanta gente che si complimenta con me perché sono una crocerossina brava e buona, che al momento giusto sa essere severa, però”. Ma non è un desiderio, nemmeno un sogno, solo una fantasia inconsistente, destinata presto a svanire, la fantasia di una giovane donna che non vorrebbe essere come sua madre “amante del nulla, priva di gesti, un corpo dove il sangue non scorre, mani capaci solo di pulire, cucinare, stirare, mani che non mi hanno mai preso per mano, piedi sfatti dalle troppe ore in piedi, senza un lamento”.
Nella Roma rappresentata da Paolo Vanacore il cielo è spesso solo un oggetto del desiderio, qualcosa di cui si scorge una flebile traccia persa tra l’opprimente presenza dei palazzi. “Dal mio minuscolo balcone di tre metri quadri ‒ dice la donna immigrata dalla Sicilia, che ha visto crescere a dismisura il suo quartiere ‒ ormai non vedevo più il sole bensì le mura rossastre di un gigante di nove piani che un palazzinaro aveva posto proprio di fronte e me”. È una madre di quattro figli che si rende conto che la vita può anche essere diversa da quella che lei ha vissuto, quando comprende che c’è anche una città diversa se con il tram ci si allontana da casa, se si varca quella immaginaria ma tangibile linea di confine: “Roma non è poi così brutta come credevo, perché in realtà Roma non è solo il mio quartiere”. Ma la scoperta è anche la rivelazione della propria condizione: “Tanta bellezza ti costringe a fare i conti con la tua persona. Perché mi è capitata una vita così misera?”.
Altra cosa insomma dalla Roma di Pasolini, i cui ragazzi di vita erano spesso abbacinati dalla luce e dall’azzurro del cielo, che già in qualche modo rappresentava un’ipotesi, una possibilità, il legame profondo con la propria natura di esseri umani. Le donne di Paolo Vanacore sono alla ricerca della propria vita, spesso costretta nel buio di case piccole, di avvenimenti che si propongono come ineluttabili ma di cui non riescono a decifrare il punto di partenza. “Il dolore più grande è non essere riuscita a capire cosa stesse succedendo, pur vivendo. Mi sono resa conto che ho vissuto una vita non mia”, dice una di loro, ma l’affermazione potrebbe essere di ognuna, ognuna impegnata a proprio modo a riappropriarsi della vita.
La verità arriva all’improvviso è anche un libro sull’amore, sull’idea che possa esistere da qualche parte un sentimento a cui abbiamo dato questo nome, ma che in effetti stenta a realizzarsi: “L’amore, in realtà, è misterioso, lo sfiori, poi scompare. L’amore forse non esiste, o se esiste è talmente inafferrabile che non fai in tempo a renderti conto che c’è, perché l’hai perso”.
Vanacore dà voce a dieci donne “con una prosa del tutto normale e concreta, asciutta e senza enfasi”, come scrive Sandro Bonvissuto nella prefazione, ripercorrendone la vita, le sconfitte, i rari momenti di felicità, e insieme dà voce a Roma, al cosmo strano della capitale, al ventre molle e al sorriso lucido, tra la Magliana e piazza Navona.
Il libro sarà presentato questo pomeriggio a Roma, alle ore 18 presso il Teatro Vittoria. La fotografia accanto al titolo (Roma, Esquilino) è di Roberto Cavallini