Il giorno dello scudetto
Elegia azzurra
Dagli anni lontanissimi di Omar Sivori e José Altafini fino allo scudetto operaio di oggi passando per Juliano e Maradona. Napoli e il Napoli: la città e la sua storia, la sua gente e la sua squadra. Raccontati da in napoletano per scelta
Sul treno che ti porta a Napoli c’è la via solitaria di un tifoso che non sarebbe capace di condividere la sua intima gioia con un accompagnatore. Questa esperienza ti riporta ai due pomeriggi per stagione in cui, da solo, ti recavi all’Olimpico ad assistere trepidante a quelli che venivano denominati derby del sole. Nei primi anni ‘70 il Napoli vinceva pochissimo, però ti lasciava tracce di resistenza durante novanta minuti vissuti sugli spalti, la curva nord o la curva sud stipate da ventimila tifosi partenopei, e spesso un risultato senza reti, al massimo due occasioni da gol per parte. Quello era un calcio povero di emozioni, entro cui le tifoserie cominciavano a esprimere una coralità che ancora suonava umana e godibile.
Nell’estate del 1965 avevi scelto di tifare per il Napoli a seguito di un’eccezione rispetto a una prassi famigliare che più o meno vigeva in tutta Italia. Se si era figli di un genitore che teneva a una squadra e a una sola, la progenie si accodava senza discutere. Non era quello il tuo caso. Vostro padre era nato a Palermo e il calcio gli piaceva vederlo la domenica alle sette di sera senza sapere il risultato della partita che la Rai sceglieva di mandare in onda. Per lui valevano di più le partite della Nazionale, che di lì a qualche anno sarebbe risorta vincendo il campionato europeo, grazie ad Angelo Domenghini e a Luigi Riva, che erano allora il piccolo e il grande profeta della fantasia italiana, l’uno macilento e faticoso sulla fascia destra ove discendeva e s’arrampicava a seconda del suo stato fisico; l’altro, amatissimo dalle donne, era espressione di un coraggio invincibile, benvoluto da tutti, mai contestato in virtù di una italianità che da Leggiuno era volata fino a Cagliari, in quel piccolo Amsicora dove aveva vinto lo Scudetto del 1970, loro prima dei napoletani, in quel settennio che aveva visto campioni d’Italia, prima la Fiorentina, poi il Cagliari appunto e infine la Lazio nel 1974. Loro sì, il Napoli no.
A te accadde di vincere una Coppa Italia e già ti sembrava di innalzare l’Oscar del Calcio, una gioia che non si spegneva nemmeno dinanzi allo strapotere degli squadroni settentrionali…
Insomma tu di Napoli non eri ma in quell’estate 1965 lo diventasti per logica e per avventura. Insieme. Con un padre agnostico, si era usi tra fratelli scegliere squadre diverse. Tuo fratello era già della Roma. Siccome ti piacevano i colori giallo e rosso mescolati, tu andasti da lui e gli chiedesti di regalarti la sua squadra e di scegliersene, lui, un’altra. Enrico ti disse di no, al contempo invitandoti a derogare da quella regola non scritta e di unirti a lui. Lo ringraziasti, con te era sempre dolcissimo quel tuo unico fratello, persino nel negarti un favore assurdo. Ma ecco che alcuni giorni dopo i giornali sportivi batterono la notizia di un clamoroso doppio colpo: il Napoli di Achille Lauro, quello con gli occhiali neri e una giacca particolare, il presidente che aveva un ghigno da ricco e si diceva regalasse soldi ai quartieri bassi per raccogliere voti di elezione in elezione… Quel Napoli lì aveva appena acquistato Henrique Omar Sivori e José Altafini, il primo in rotta con il suo allenatore Heriberto Herrera, il suo allenatore juventino, il secondo sempre più in lite con la presidenza del Milan. Entrambi i club erano certi di aver rifilato all’armatore napoletano una fregatura insanabile… Sbagliavano. Il Cabezón e il Coniglio avevano dentro una tal sete di rivalsa che in quel campionato 1965-66 portarono il Napoli al terzo posto, evento incredibile e quasi festeggiato come un miracolo. In quegli anni Tutto il calcio minuto per minuto quasi nemmeno esisteva e solamente dal telegiornale della sera venisti a sapere, prima di andare a letto perché lunedì c’era scuola, che il Napoli aveva battuto la Juventus per 1-0 con un gol di Josè Altafini e, qualche settimana più tardi, che aveva sconfitto il Milan per 1-0 con un gol di Sivori, i due reietti scambiandosi il favore di segnare ciascuno a beneficio dell’altro. Ma siccome l’età contava, Omar Sivori finì per essere travolto dal suo carattere incontenibile e, durante una gara contro i soliti nemici bianconeri, sferrò un pestone al suo marcatore (e provocatore) Favalli, il quale fece una manfrina da avanspettacolo. Venne a scatenarsi quella gigantesca scazzottata che il tuo cuore meridionale visse come la rivolta di una città esasperata dallo strapotere Milano-Torino.
Il Sivori/Masaniello ti sarebbe rimasto per sempre a memoria, né più né meno delle due icone dei decenni a venire: Antonio Juliano detto Totonno e Diego Armando Maradona. In tutta sincerità, Juliano lo amerai di più. Vero che con il capitano di San Giovanni a Teduccio, si vinceranno solo due Coppe Italia ma il suo portamento a centrocampo così fiero, forte e allo stesso tempo così generoso verso i compagni che sbagliavano, te lo fecero preferire a chiunque altro. «Uno che mi piaceva moltissimo – ricorderà Dino Zoff – era Antonio Juliano, Totonno. Un tipo tosto, persona autentica, con un temperamento da condottiero. Giocava un calcio concreto, senza concedere spazio alla teatralità. Un “napoletano atipico”, lo hanno definito, perché era il contrario dello stereotipo partenopeo». Del resto Juliano apparteneva a quella classe di ferro che, tra il 1942 e il 1944, aveva fatto risorgere, trent’anni dopo, la Nazionale: con lui Rivera, Riva, Mazzola, Bulgarelli, De Sisti… Verso la fine dei ‘60 il calcio aveva preso a sostituire, a poco a poco, le giovanili passioni politiche, quasi che la scaltrezza democristiana stesse favorendo (da Italia Germania 4-3 del 17 giugno 1970 in poi) un travaso di conflitti violenti ed esasperati, dalle piazze agli stadi, assai più controllabili. In più vi era una umanità ingenua che desiderava vincere qualcosa e che alla bisogna avrebbe anche cambiato maglia, da quella rossa tinta unita o tricolore fiammeggiante, alle varie casacche a strisce verticali. La napoletana invece di colore ne teneva uno solo, prevedibile, ed erano loro, nei tuoi ricordi, gli azzurri di Pesaola, di Chiappella, di Vinicio, di Marchesi, e infine di Ottavio Bianchi e di Albertino Bigon. In un modo o in un altro, i primi quattro ti avevano regalato momenti di gioia passeggera e soprattutto quelle delusioni che tu, da ragazzo, non riuscivi a capacitarti se non come patimenti di un popolo che amavi. Certo che l’amavi, forse perché Napoli era una città più facile da immaginare, e poi c’era stata quell’enorme l’emozione che ti aveva colto la prima volta che vi eri andato con i tuoi genitori. In verità non impazzivi per le moine di Totò ma ne ammiravi la malinconia e i suoi duetti con Peppino De Filippo, sempre una battuta dopo la fine, che poi è il vero umorismo napoletano.
Bruno Pesaola detto Petisso (il Piccolo) era uruguagio e fumava così tanto che a volte la panchina non si riusciva nemmeno a scorgere. A lui devi le prime vittorie emozionanti in un tempo che il calcio ti sembrava leggero. Luis Vinicio de Menezes era brasiliano, e per un fantastico biennio tinse Napoli di arancione, importando al Golfo le tattiche visionarie degli olandesi e trasformando il San Paolo in un parco giochi dove si poteva vincere 7-1 o perdere 2-6. Con lui in panchina il 1974-75 ti riserverà il primo acuto dolore calcistico. A poche giornate dalla fine il Napoli contava soltanto due punti in meno della Juventus (che nel frattempo aveva acquistato Altafini, all’occorrenza ribattezzato Coniglio mannaro). Quello scudetto che meritava, il Napoli se lo andò a scommettere proprio al comunale di Torino e ci arrivò spavaldo, perché giocava divinamente mentre la Juventus, come da tradizione e stile, cincischiava un bruttissimo football, affidandosi a colpi di fortuna e a gol di rapina. Ebbene quel pomeriggio lo ricordi in camera tua con la radiolina accesa e la voce di Enrico Ameri a raccontare le gesta dei 22. La Juventus segnò subito con uno dei suoi migliori, Franco Causio, un leccese dal volto caotico, con grande capacità di palleggio e un rendimento che alternava prestazioni mirabolanti a comparsate inconcepibili. Talvolta Nando Martellini, nel descrivere una prestazione-no di Causio, catechizzava ogni suo tocco sbilenco commentando: «l’opaco Causio». Perché Causio era genio e sregolatezza e nelle vesti peggiori la sua figura svaniva sino a diventare indecifrabile. Allo stesso modo, ogni qualvolta mi rivolgessi a lui con una domanda o con un commento insensato, mio padre mi guardava un po’ compassionevole e pronunciava la sua sentenza: «l’opaco Causio…».
Purtroppo quella domenica Causio dimostrò subito che sarebbe stata un’ala destra meravigliosa, eppure ci fu qualcuno a superarlo in bravura. O meglio, ci furono l’orgoglio e la potenza napoletana di Antonio Juliano, che al 15º della ripresa pareggiò con un tiro da fuori, lui che di gol ne faceva pochi e che quel giorno voleva pensarci per tutti. All’annuncio di Ameri gioii dentro con una tale intensità (non potevo gridare, i miei stavano riposando) e subito dopo presi a invocare il Cielo che non ti togliesse la soddisfazione di aver dominato dall’inizio alla fine a Torino e di essere uscito invitto. Macché… a due minuti dal termine proprio José Alfafini, Core ‘Ngrato, siglò ‘na zòza e’ golle grazie a un rimpallo, una cosa brutta come quel risultato finale, ingiusto, che una volta ancora ti allontanò dalla felicità di uno scudetto sulla tua maglietta numero 10, tanto rara per l’epoca a Roma e che da tempo non ti entrava più.
Gli altri quattro allenatori non furono di meno importanti. A Beppe Chiappella si accompagneranno annate di partite fortunose e risicate, tranne un’indimenticabile Napoli-Inter, 0-0 all’intervallo e un secondo tempo da godere accanto a tuo padre e a tuo fratello, senza aver detto il risultato. Tutti e tre vedeste il vantaggio dell’Inter con Jair, poi Bianchi che per due volte salva sulla linea ed evita il loro raddoppio, poi ancora la reazione furiosa della tua squadra che prima pareggia con un terzino, Pogliana, e infine va a vincere con una riserva di nome Ghio! Che emozione e che bellezza cenare tutti e quattro commentando, per la prima volta, il tuo Napoli in testa alla classifica!
Rino Marchesi ti rimanda a una delusione inconsolabile. Quel campionato 1980-81, a cinque giornate dalla fine, presentava una strana classifica con tre squadre in testa a pari merito: 35 punti. E però, rispetto a Roma e Juve, il Napoli era favorito. Aveva un calendario migliore, a cominciare dalla gara casalinga con il Perugia già retrocesso. Il Napoli quella partita riuscì a perderla 0-1 con un autogol di Ferrario al trentesimo secondo di gioco. Era il Napoli del dopo-terremoto, una squadra di enorme valore umano che aveva chiesto di andare a spalare invece di giocare pochi giorni dopo come indegnamente preteso dalla Lega Calcio. Contava un solo fuoriclasse, Rudi Krol: un Napoli che non vinse nulla e ti fece sperare il contrario.
Ma al primo scudetto mancava poco e arrivò grazie a un bresciano, Ottavio Bianchi, a cui sarai riconoscente per l’aplomb e nel gestire il genio insuperabile (e ingestibile) di Diego Armando Maradona. Con lui, con loro, vincesti finalmente lo scudetto, ventidue anni dopo Sivori e la tua maglietta. Il 10 maggio 1987 eri sugli spalti del San Paolo. Silenzioso, temevi che persino quella volta ti avrebbero illuso e disilluso, e poi non riuscivi a crederci… Segnò Carnevale, fu Roberto Baggio a pareggiare, e quando il tabellone annunciò l’1-1 in extremis dell’Atalanta contro l’Inter, sentisti che per la prima volta eri campione d’Italia. Sì, sapevi bene quanto fosse stupido, per un adulto, definirsi in quel modo ma era una parte di verità che abitava nel tuo banale animo di tifoso. Allo stesso modo eri convinto – e ancor oggi lo sei – che il Napoli non esisterebbe se non fosse per la città che gli è intorno. E così, dalle cinque del pomeriggio fino a notte alta passeggiasti per Napoli, la tua città di adozione e di emozione. Osservavi la gente andare e venire per i vicoli, e ti lasciasti andare in quella gioia comune che si espandeva fino alla linea del mare. Non ti fermasti un momento se non per bere qualche caffè a tenerti sveglio; abbracciavi degli sconosciuti, alzavi le braccia al cielo. Tutto era riposto in quella tua scelta di bambino. E la notte rientrasti in una piccola pensione, che si chiamava Le Fontane a Mare; in camera c’era un separé, si era fatto davvero tardi e non prendesti sonno.
Quel primo scudetto non sarebbe stato un episodio. Ne seguì un altro nel 1990, poi una Coppa Italia e addirittura una coppa Uefa, vinta nel 1989 anche grazie a un quarto di finale che rimarrà per sempre la tua felicità più grande. Un gol di Renica al 119º minuto e fu 3-0 alla Juventus, che per 2-0 aveva vinto all’andata. Il taccuino di quella partita l’aveva scritto Eduardo: era l’avvilimento di tutta una vita che d’improvviso trovava il miracolo di una riscossa chiamata da un soldato semplice. Il secondo scudetto fu a fine aprile, in un pomeriggio che trascorresti guidando per due ore sul Raccordo Anulare pur di non penare due ore… Da lì ebbe inizio una decadenza inevitabile e con essa l’addio doloroso di Maradona, al calcio e alla vita. Il gol che fece al Bologna era stato bellissimo ma a seguire quella traiettoria curva e precisa s’intravedeva la sua uscita di scena, l’ultimo abbraccio che Napoli gli doveva.
Da lì in poi quasi nulla, trentatré anni di attesa quasi sconsolata fino a questa tua passeggiata in una notte napoletana d’inizio maggio, in una festa che da mesi aspetta il suo principio, tanta era la scaramanzia. Mai un campionato moderno era stato dominato a questi livelli. Una squadra senza un Dio ma con molti messaggeri di valore, che per un anno hanno collaborato accanto a un allenatore che in Italia, proprio a Napoli, vince il suo primo scudetto… Un allenatore bravissimo, che non ama né gli idoli né i sepolcri imbiancati e che sino al termine di un’impresa ha condotto una squadra giovane e snobbata da tutti i grandi commentatori sportivi. Ed ora che è notte la matematica vi è amica, tu passeggi tra sconosciuti che cantano e intanto ti vengono alla mente Marina e Angela, le tue amiche del Napoli, e poi i grandi talenti che questa città hanno reso vera e viva, e ti fermi tra la folla per cercare una poesia di Totò che racconta la felicità. E la trovi subito…
Vurría sapè che d’è chesta parola,
Vurría sapè che vvò significà.
Sarrà ‘gnuranza ‘a mia, mancanza ‘e scola,
Ma chi ll’ha ‘ntiso maje annummenà!?
La malinconia gioiosa del campione e del suo allenatore, che insieme rientrano negli spogliatoi alla fine di un lungo, bellissimo anno. Una gioia dentro, come accade a un bambino nel parco dopo che ha giocato, si è divertito e torna a casa senza riuscire a spiegare il perché più profondo della sua felicità. E il gol della vittoria davanti a Enrico, che era suo fratello.