Gianni Cerasuolo
Fa male lo sport

Napoli dopo Napoli

Il calcio basta a se stesso e ai suoi miti (Maradona compreso). E invece Napoli deve sempre riscattarsi da qualcosa. Come se fosse condannata a non finire mai gli esami. Come se dipendessero da quattro calci ad un pallone oppure da un triangolino tricolore il destino sociale di un popolo.

«Ciononostante, noi abbiamo il dubbio che tra la Napoli cantata, narrata, rappresentata e voluta dai suoi medesimi abitanti e la vera, vi corra una notevole differenza. Noi ritroviamo solo qualche gesto e qualche colore della Napoli vera in quella letteraria. La Napoli vera è, sì, più violenta, ma più storica e meritevole di comprensione. Tra le due Napoli c’è la medesima differenza che corre tra un oggetto fotografato e l’oggetto in sé. Nel reale ci sono tre indubitabili dimensioni. Nella fotografia anche le macchie possono diventare piacevoli. Anche i particolari più sinistri – i cenci che sembrano bandiere – acquistano un fascino; e il fascino porta a una deviazione della verità, che si ritrova integra nell’oggetto nudo e crudo, senza il travaso fotografico, ossia senza letteratura».

Quante fotografie e quanta letteratura in questi giorni di scudetto e di pazza gioia avrebbe osservato Domenico Rea parlando delle due Napoli. Perché poi succede che anche una morte violenta, un agguato di natura camorristica, lo si appiccichi ad una festa liberatoria e frenetica. Il solo morto che c’entri qualcosa con la vittoria del Napoli è quel poveretto che si è accasciato per terra vicino alla stazione di Udine e non si è più rialzato. Era un tifoso del Napoli. Ed era da solo.

A parte i fuochi di Capodanno nella città, in tutto il mondo si è brindato. Anche a Milano e Torino. Altro che «qui voi napoletani non festeggiate». Una comunità internazionale che si riconosce e vince le solitudini, ha detto qualcuno, forse Viola Ardone alla radio, dove qualche altro voleva collegare questo successo ai disoccupati, agli ospedali che non funzionano, alla scuola che lascia per strada tanti ragazzi. Solo per Napoli, accade questo. Napoli deve sempre riscattarsi da qualcosa. Come se fosse condannata a non finire mai gli esami. Come se dipendessero da quattro calci ad un pallone oppure da un triangolino di stoffa (stoffa?) tricolore il destino sociale di un popolo, investimenti e bilanci. Uno scudetto contro i cliché è stato tanto ripetuto che è diventato un luogo comune, ormai. Popolo che nel frattempo si è riversato in piazza ed ha celebrato. Con esagerazione (poca, ma comunque con tutti quei feriti per i botti) ed eccitazione (tanta). Con disagi (molti) per una città che non è attrezzata a soddisfare un avvenimento di questa portata e lascia la gente a piedi perché i treni e bus sono pochi (ma alla metro, in centro, si fa la fila anche ogni giorno che Iddio manda in terra perché il boom di Napoli attrae gente da ogni parte e quei convogli di colore giallo non passano come a Tokyo o a Londra, lo sa bene chi va al lavoro o deve spostarsi con i mezzi). La pulcinelleria non ha prevalso. I monumenti hanno resistito, tranne la povera Fontana del carciofo, tra il San Carlo e Gambrinus, vittima designata di qualsiasi festeggiamento (o, un tempo, della rabbia delle proteste).

Questo fino a venerdì 5 maggio. E alle edicole si è vista gente in fila, molti si sono ricordati dei giornali. Persino sulla facciata dell’austero San Carlo, sotto lo sguardo complice della Triade della Partenope, è apparso uno striscione dei lavoratori del teatro: «L’opera delle opere: lo scudetto del Napoli». Preti e monache parevano ultrà delle curve. Ma il giorno dopo la notte dello scudetto, la città ha quasi ripreso il suo normale quotidiano, è stata ripulita in fretta, pavesata a festa come le accade da mesi, in tanti sono usciti di casa con un segno d’azzurro, a scuola molti banchi erano vuoti.

Feste e festicciole andranno avanti. Con grande scandalo dell’altra (o alta?) Italia che alza sempre il ditino. E giudica. È il sazio che non crede al digiuno. E così si arriva a scrivere che i napoletani si sono pagati le feste dello scudetto con il reddito di cittadinanza. Cialtroni e pennivendoli. Ancora una volta è stata oltraggiata Anna Frank: A Mondragone è comparso uno striscione con una sua foto, «Tu sei napoletana e noi no». Ma fascisti, imbecilli e ignoranti sono ovunque.

Piango, ha scritto un amico quando la partita di Udine è finita. Perché, a noi che abbiamo visto Maradona, un groppo in gola ci prende. Roberto Beccantini ha usato queste parole: «È il terzo scudetto, il primo della modernità; il primo, soprattutto, dopo Diego Armando Maradona. Inutile cercare di liberarsi da quei lacci, da quelle catene: a parte il fatto che nessuno vuole, Diego non sarà mai un peso, una barriera. Al contrario: un confine, un ponte. Una bilancia: per pesare chi eravamo “con” e cosa siamo diventati “senza”».

Tanti anni dopo, lui continua ad esserci. Il dopo-Maradona non si chiuderà mai. Ce lo portiamo sulle t-shirt, lo canticchiamo con “Live is life” senza saper palleggiare non con un’arancia ma nemmeno con il pallone, lo continuiamo a vedere con le sue giocolerie ma anche con la sua bulimia della vita e per questo gli vogliamo più bene. Lo invocano ancora tutti. Non più Sorrentino all’Oscar ma Spalletti (resta? se ne va?) negli spogliatoi di Udine: «C’è la protezione di Maradona su questa vittoria…». Viviamo di rimpianti. Repubblica ha titolato un bellissimo pezzo di Angelo Carotenuto: «Il mito non è più ossessione». Maradona aveva dato a Napoli il sapore inedito della vittoria: «I dopo-maradona se ne sono accorti perché per trentatré anni è stato impossibile sentire quel gusto senza di lui, in una città dove però era su tutti i muri, e poi nel nome dello stadio, e poi perfino con il suo volto sulla maglia, una specie di sacra marasindone…». E più avanti: «…Sono gli altri-Dopo che a Napoli non passano mai. Il dopo-terremoto non ha sanato lo Sferisterio, dove si giocava la pelota, uno scheletro da 43 anni. Il dopo-Italsider non ha trasformato Bagnoli, il quartiere della fabbrica. E quando Eduardo raccontava il dopo-guerra in Napoli Milionaria, diceva che la guerra non è finita, è sospesa». Per concludere: «Solo Diego ha vinto durante e dopo. Come spirito guida, come icona su tutte le bandiere. Ora inizia un dopo-Dopo. È il momento di dargli un’ultima carezza, il momento di dirgli ciao Diego, riposa in pace, non ti disturberemo più».

Di certo, D10S se la starà godendo con un sigaro cubano in bocca e un pallone spinto in rete con una mano. Regalo al re d’Inghilterra.

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