Il cinema de laMeneghello
No, Moretti no!
"Il sol dell'avvenire”, il nuovo film di Nanni Moretti che ha scatenato le opposte tifoserie (e sarà presentato in concorso a Cannes), poteva essere un apologo sul Pci e invece è un catalogo di auto-citazioni
Con questo articolo Ida Meneghello inizia a collaborare con Succedeoggi. Firmerà una rubrica di recensioni cinematografiche.
È uscito un mese fa e ancora ne stiamo parlando. E ne riparleremo in questi giorni di Cannes (dove il nuovo film di Nanni Moretti, Il sol dell’avvenire, sarà in concorso). Da anni non mi succedeva di discutere così intorno a un film e di sentirmi felicemente minoranza tra i cori che inneggiano al capolavoro. Perché l’ho visto appena uscito, l’ho rivisto, ma il mio giudizio non è cambiato. Ha ragione Marco Giusti: Il sol dell’avvenire di Nanni Moretti “non è un capolavoro, non fa né piangere né ridere”, è un film noioso, un noiosissimo, ripetitivo, datato déjà vu. Potrei chiuderla qui, ma poiché ho visto tutti i suoi film e quindi posso dire con cognizione di causa che questo è, ovviamente a mio parere, il suo peggiore (insieme a Tre piani), spendo ancora qualche parola.
“I had a dream”, avevo un sogno: vedere finalmente il musical di Moretti sul pasticcere trotzkista nell’Italia degli anni 50 che aveva vagheggiato nel film Aprile, il titolo mi suggeriva questo. Il sol dell’avvenire racconta invece un’altra storia, che mi sarebbe comunque piaciuta per quel retrogusto dolce amaro che hanno le storie al tramonto: la sezione del Pci del Quarticciolo, periferia proletaria romana, che si ribella ai diktat del partito in occasione della rivolta anti Urss in Ungheria del 1956, una vicenda oggi preistorica che però poteva ancora suscitare qualche brivido in noi boomers morettiani, immaginando come sarebbe potuta cambiare la storia della sinistra italiana.
Invece questo film c’è solo in parte perché la sceneggiatura si smarrisce in inspiegabili interruzioni – un pippone interminabile contro i film violenti post Tarantino con l’imbarazzante chiamata in causa di Renzo Piano, Corrado Augias e Chiara Valerio che niente c’azzeccano, le canzoni cantate continuamente sul set o in macchina che neanche a Sanremo, i ripetuti riferimenti ad altri film che c’entrano ma anche no – e tutto affonda allora nella noia dell’autocitazione compulsiva (i palleggi di La messa è finita, la copertina di Sogni d’oro, le scarpe sbagliate di Bianca ecc). Salvo Margherita Buy, che per una volta non fa Margherita Buy, i fedeli Orlando e Bobulova e una scena verso la fine sulle note del prevedibile Battiato, quando tutti sul set ruotano come dervisci, nell’illusione ipnotica di non vedere la terribile realtà.