A proposito di “Dove non mi hai portato"
Scrivere per mostrare
Il nuovo romanzo di Maria Grazia Calandrone, dedicato a un caso di cronaca degli anni Sessanta (la storia di una madre costretta ad abbandonare la figlia), scade spesso nel didascalismo. E l'autrice finisce per spiegare le ragioni della sua scrittura
La regola aurea vuole che, quando si scrive, mostrare sia meglio che dire. Come tutte o quasi le regole si presta naturalmente a essere infranta: la differenza la farà allora il modo. Del nuovo romanzo di Maria Grazia Calandrone a non convincere è appunto il modo, e fin dall’apertura: che qualcosa la mostra, sì, ma è il suo didascalismo. L’autrice esordisce infatti con un «Sebbene si tratti di un’opera principalmente in prosa, alcuni paragrafi presentano a capo e spaziature inconsuete: la scelta è intenzionale» che lascia forse trapelare una generica sfiducia nelle abilità intellettive del pubblico di lettori: come se una scelta del genere potesse mai non essere intenzionale.
Dove non mi hai portata. Mia madre, un caso di cronaca (Einaudi, 256 pagine, 19,50 euro) è un romanzo che muove dalla storia vera di Lucia Galante, madre che date le condizioni avverse si vede costretta a abbandonare la figlia – qui la voce narrante Maria Grazia – probabilmente nella speranza di garantirle un futuro migliore di quello che avrebbe se restasse con lei e il suo nuovo compagno. La vicenda, siamo a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, diventa fatto di cronaca: la notizia dell’abbandono arriva tramite lettera a uno dei principali quotidiani dell’epoca, e preannuncia che, a seguito del gesto disperato, la sua autrice, Lucia, e il suo compagno si toglieranno la vita. La trama è un tentativo di ricostruire la vita e le intenzioni di Lucia e si presenta con una prosa in cui le speculazioni dell’autrice sono spesso luoghi comuni («Luigi è burbero e severo, dritto come un soldato, mamma Amelia è dolcezza e rassegnazione») e si accompagnano a dei propositi per così dire poetici, con l’intento di dare alla narrazione dei toni alti, ma la sensazione che ci si trovi davanti a un’infruttuosa ricerca di letterarietà è forte.
A scatenare questa sensazione è soprattutto l’accostamento di passi ultraletterari, dove abbondano aulicismi e termini desueti, e interventi diretti in cui l’autrice si premura di spiegare quanto accade. Questa scelta impedisce una coesistenza armoniosa tra passaggi di diversa natura, tra momenti discorsivi e momenti più prettamente poetici: «Sch sch sfrusc sfrusc […] Il titolo di questo breve paragrafo è l’onomatopea con la quale in paese si canzona il rumore del sesso; La forca è un attrezzo che serve a muovere e caricare il fieno, ha un manico di legno e una forcella in ferro a due punte di circa trenta centimetri. Questa, adesso, è la vita di Lucia. La vita di una figlia abbandonata da genitori vivi». L’ultimo esempio è emblematico: per rendere il senso di una metafora, Calandrone non solo la spiega ma sente il bisogno di illustrare cosa sia una forca.
Ma di metafore poco chiare, spiegate o meno, si rintracciano vari casi. Uno in particolare è «esploro un metodo per chi ha perduto la sua origine, un sistema matematico di sentimento e pensiero, così intero da rianimare un corpo, caldo come la terra d’estate, e altrettanto coerente». In che senso un sistema matematico di sentimento e pensiero è intero (così da rianimare un corpo, poi)? Contribuisce a suscitare un generale smarrimento l’andamento della prosa, un continuo spezzarsi del ritmo che non sembra essere voluto; non si ravvisa, per citare una possibilità, un’impedenza del ritmo ma si assiste, piuttosto, a uno zoppicare generale: «Nello scatto dove Lucia veste in nero l’espressione «fotografia», scrittura di luce, appare corretta. Nella fotografia in bianco, lo sguardo della sposa risucchia l’intera scena in una vitrea assenza di vita. Lucia fa gli occhi lisci della preda che finge di non esserci, arretra in uno sguardo impenetrabile, dove il mondo è un paesaggio di bestie aguzze e senza sogni, addormentate fuori dalla natura. E su quegli occhi aperti il mondo scivola, non posa più». A questo incedere poco fluido si aggiungono le inserzioni in latino, le citazioni di testi poetici, il ricorso nobilitante alle maiuscole («fra i due attori del reato verosimilmente si installa Amore») e gli interventi di natura cronachistica sul contesto storico («quasi certamente Lucia non ha notizia delle lotte femministe che in quegli anni cominciano a percuotere a colpi di reggiseno le fondamenta delle famiglie tradizionali, vorrebbe solo vivere una vita voluta»), componenti che dovrebbero in qualche modo innalzare il livello del testo ma che finiscono per veicolare un estenuante patetismo, nonché per appesantire un andamento reso già forzoso dalle intrusioni dirette della scrittrice («Lucia compra un costume da bagno. Questa ripetizione non è un errore, è una sottolineatura, che avrà senso alla fine, come molte cose»).
E pur se si nota un leggero miglioramento nella seconda parte del testo, forse perché si fa di impianto più giornalistico e asciutto, i troppi cortocircuiti linguistici e stilistici disseminati nel romanzo ne impediscono ogni forma di riscatto.
La fotografia accanto al titolo è di Roberto Cavallini