Al Maxxi di Roma
Leggere Enzo Cucchi
Roma rende omaggio a Enzo Cucchi con una grande mostra aperta dalla biblioteca dell'artista: un modo inedito per cercare le chiavi di lettura delle opere esposte. Che dimostra come questo pittore sia andato ben oltre i confini della "transavanguardia" che lo lanciò
Il prologo è una saletta che ti sbuca davanti appena sceso dall’ascensore verso il primo piano. Sulla parete, una libreria sulla quale sono allineati in un voluto disordine un centinaio di volumi di tutte le dimensioni. Di fronte un banco con un lungo sedile, sul quale sfogliare quei libri che puoi sfilare dagli scaffali, senza che il custode ti ammonisca o ti fermi. Libero di leggerli o guardarli per ragionarci su, a tuo piacere.
La mostra curata da Bartolomeo Pietromarchi e Luigia Lonardelli,con cui il Maxxi di Roma rende omaggio nella sua sede di via Guido Reni a Enzo Cucchi, 76 anni, star dell’arte figurativa made in Italy, mezzo secolo di carriera alle spalle, è aldilà del sipario.
Chi ha fretta dà una letta sommaria alla lunga didascalia di presentazione bilingue appesa di lato e passa oltre. Ma questo stralcio di libreria casalinga è molto più di un’inutile parata celebrativa di circostanza, come quelle che trovi nelle pagine iniziali di ogni catalogo. O un intervento di scenografia, che gioca con l’inusuale: non ricordo un incipit così in una mostra d’arte.
È parte integrante dello spettacolo che ti aspetta. È una della novità che lo impreziosisce. Stende l’arcata di un ponte di collegamento sul baratro del divorzio che da anni si è consumato tra l’universo della scrittura e quello delle arti visive, tra artisti e scrittori, dilapidando un patrimonio di complicità e familiare convivenza che era utile ad entrambi per capire e capirsi. E creando una distanza tra parole e visioni più estesa di quella che comunque distingue due mestieri diversi. Un vuoto di cui il sistema dell’arte si è impadronito per governare più agevolmente il mercato e il popolo della creatività visiva, sostituendo alla voce diretta degli autori il monopolio dispotico dei critici e dei curatori che ne decifrano e a volte ne reiventano il linguaggio, arbitri delle loro carriere e della circolazione delle loro opere.
È successo anche a Enzo Cucchi, giovane artista e poeta emigrato dalle Marche a Roma, intercettato e arruolato dal gusto istrionico e dal rodato acume di Achille Bonito Oliva insieme ad altri quattro colleghi all’esordio (Chia, Clemente, Paladino, De Maria) come campione di una ribellione contro le formule omologanti e le profezie di cambiamento sempre più sbiadite e disilluse degli Anni Sessanta, che rilanciava il primato della soggettività e il ritorno alla radici arcaiche della pittura e delle arti di tradizione: la transavanguardia. Una formula fortunata e di facile presa, intonata, nonostante la sua declinazione provinciale, al clima di trapasso verso la postmodernità che si respirava in quella fine degli anni Settanta, che ha dischiuso a lui e agli altri compagni d’avventura le porte del mercato e del successo internazionale.
Non credo che Enzo Cucchi rinneghi, da ingrato, quella patente e quella stagione. Ma, quasi mezzo secolo dopo, chiamato dal Maxxi a ripercorrere la sua carriera, sembra volersene allontanare come per liberarsi di una divisa troppo stretta, logora e sfilacciata e riappropriarsi del diritto di dire e spiegare il tempo che è passato e, da quasi ottantenne, sente sfuggirgli davanti con parole diverse da quelle di un critico militante. Più in movimento, in risonanza con le contraddizioni, i fantasmi e gli impulsi erratici del suo immaginario: un abbaglio da specialisti pensare che il mondo visionario degli artisti si nutra solo dei debiti e del confronto visivo con le opere, le tesi dei compagni del presente e del passato e non raccolga già, non trasfiguri in segni, colori, come visioni l’eco di narrazioni, definizioni folgoranti rubate dal mondo parallelo della scrittura come bussole dell’esistere e del creare.
Per questo nel prologo di questa rivisitazione ha aggiunto la novità di quei titoli di libri presi dagli scaffali delle sue case. Ed esibiti in un voluto disordine. Monografie di maestri in cui si è in qualche modo specchiato, Seurat, Picasso, Raffaello, van Gogh, Fontana, Dosso Dossi, Rodin capolavori d’arte africana accanto sculture d’arte ittita. Ma il grosso è riservato a letture d’adolescenza e di formazione. Dal Bouvard e Pécuchet di Flaubert, alla Vite parallele d Plutarco, dal Candido di Voltaire ai partigiani di Fenoglio, dal Big Sur di Kerouac fino ai mostri tenebrosi di Lovecraft. Dai saggi di Deleuze alle biografie di Orson Welles e San Francesco. Presenze che abitano molte sue opere, ogni titolo una piccola chiave per entrare nel suo laboratorio d’autore. E afferrarne il senso. O magari solo qualche passaggio, un dettaglio di partenza o d’arrivo. Neanche un libro sulla transavanguardia: al suo mentore Bonito Oliva Cucchi rende omaggio solo esibendo un suo piccolo saggio su Paolo Uccello, cantore eretico del Rinascimento.
Tenete a mente quelle copertine e quei nomi, possono davvero diventare un filo d’Arianna per entrare e uscire dallo spaesante labirinto creativo che Cucchi ha apparecchiato nella grande sale del Maxxi., al quale consegna il compito di rappresentare la sua produzione e la sua biografia di Poeta e mago, comelui stesso ha voluto battezzare questa sua retrospettiva in cartellone per tutta l’estate.
Un’antologia senza alcun criterio cronologico, che mescola anni, tecniche e materiali proprio come uno stregone da fumetto getta nel calderone di tanto in tanto ingredienti diversi, li mescola, recita formule e parole propiziatorie e ci da in assaggio di tanto in tanto la pozione per vedere l’effetto che fa. Quanto la scrittura e la lettura siano importanti per lui lo rivela una delle prime immagini con cui Enzo Cucchi sale sul palcoscenico: il profilo di un volto spigoloso da santone, probabilmente un autoritratto, che ha incastonata nell’orbita, come emblema del suo sguardo, una pagina aperta di libro.
Il prima, se proprio avverti l’urgenza di un ancoraggio storico, te lo devi cercare. Io l’ho trovato in un campionario di carte prestate dal Mart di Trento. La data è il l979, l’anno in cui Cucchi comincia a salire sul trampolino di lancio. Su un fondo giallastro si muovono e galleggiano sagome maschili e femminili che sembrano esibirsi come acrobati da circo, tenute in equilibrio da esili sprazzi di colori che sembrano posarsi su fragili trame di fiori di cotone. Il paesaggio e le figure ridotte all’osso, bloccate nella loro apparenza da stereotipi. Ma qui il registro è una leggerezza da schizzo infantile, che ancora non invoca la sacralità e le responsabilità di un ritorno alle origini arcaiche della pittura.
Questo anelito d’innocenza bambina torna spesso a ripresentarsi quando Enzo Cucchi indossa l’abito da poeta. Eccolo riaffiorare nello scarno impianto iconografico di quattro grandi pannelli del 2009, poche pennellate di smalto bianco e azzurro su un fondale di rete a trama molto fitta a simulare un mare ondoso che nelle sequenze successive impallidisce nel profilo di una città sommersa. L’autore si ritrae in un omino che impugna come un’arma una tavolozza colorata. Strumento che gli scivola dalle mani e cade giù in fondo, sfidandolo nell’ultimo riquadro a tuffarsi per rimpadronirsene. Un senso di perdita che lo accompagna da sempre nel cimento continuo, nella voglia di misurarsi da artigiano ed esploratore del fare forma con altre tecniche parallele, la scultura, la ceramica, l’uso del legno, della plastica, del marmo, del bronzo, del vetro resina.
Più complesso e articolato il suo tragitto di mago. O di apprendista stregone guidato da una ossessione: la trasmutazione che accompagna il tragitto di ogni sua figura verso un’altra figura che ne prosegue, ne stravolge o ne divora il destino. Un procedere di fughe e agnizioni che scandisce con smaccata evidenza tutte le sue prove grafiche, quel corpo di disegni che è il laboratorio di tutte le sue invenzioni di ieri e di oggi ed è il vero centro motore della mostra, disteso alle pareti in un campionario ricchissimo, che a me evoca l’incompiutezza e il metodo , il tormento e l’intensità di quel cimitero di reperti ed indizi che gli investigatori del cinema e dei romanzi inchiodano al muro come orme dell’assassino cui danno la caccia. Può essere il muso di un cavallo chino sul sacco di una mangiatoia che si trasforma in un groviglio di spine. O il salto di un’altra sagoma equina che in basso si specchia nell’ombra di una rondine in volo. Un grande numero 1 che protende il becco ad ingerire un corpo umano. Un pugno chiuso che lascia trasparire nel palmo il bagliore scheletrico di un cavallo staccato dalla parete di un affresco preistorico.
Un collaudo di fantasmagorie, tra orrore e canzonatura, che raggiunge però i suoi risultati più efficaci nel trapasso dalle due dimensioni del foglio al tre d del modellato scultoreo. Una metamorfosi che sembra segnata dall’apparizione costante della morte e del suo simulacro più diffuso e riconoscibile: Il teschio. Non ricordo se prima sia apparso tra le fantasie dell’autore, ma ora, dall’inizio del nuovo millennio dilaga ovunque. Come se Cucchi, forse pressato dallo spettro precoce dell’età che avanza, avesse indossati i panni di Amleto che ritrova il cranio del suo buffone di corte, e ripescato quel simbolo in chissà quale cimitero della sua mente e continuasse a dialogarci in ogni occasione. Eccolo sbucare moltiplicato a dentiera tra le valve di una conchiglia sbozzata nella ceramica. Eccolo a prolungare, in una scia evidenziata da smalti celesti, la coda di un lupo disegnato nel bronzo. Eccolo dipinto di rosso galleggiare su una rudimentale canoa. Eccolo appostato come un cane da guardia a guardia di una sortadi gigantesco osso rosicchiato a capanna. Eccolo scavato nel marmo, a trasformare in un ghigno funebre il sorriso e il candore di pietra smerigliata di un neonato.
Nel marmo, in una galleria di statuine recenti è incisa la trasmutazione che a me sembra più riuscita: un abbraccio di due corpi che si trasforma in un pianto dirotto, due mani tese a nascondere in un sussulto di pudore le lacrime. Un’operazione di riduzione alla quale il talento istrionico di questo artista mago stenta ad adattarsi. Troppo anarchico il suo rapporto con lo spazio per impedirgli di forzare il limite della visione con qualche aggiunta. Alcune davvero stonate. Come quei grumi di materiali con cui viola la geometria di pannelli e disegni. Solo parzialmente assolto dal disordine con cui raggruppa i suoi lavori. Dal rapporto di odio amore con la pittura che confessa su un tabellone finale.
E dalla novità di quell’incipit con cui ci dirotta nel metaverso dei libri, molto più eloquente e seduttivo del dilatato sipario in cui ha schierato la sua produzione di poeta e le sue altre poliedriche incursioni in quel campo. Libri d’autore, copertine, illustrazioni per testi altrui.
Foto Musacchio, Ianniello, Pasqualini & Fucilla. Courtesy Fondazione Maxxi