Flavio Fusi
Cronache infedeli

Eterno Erdogan

Le elezioni in Turchia, in attesa del ballottaggio, confermano una profonda spaccatura globale tra gli elettori delle città che chiedono novità e democrazia e quelli delle campagne che privilegiano i richiami all'ordine e all'identità religiosa. Un conflitto che salva gli Erdogan, i Putin...

Il Reis, il Boss, il Califfo, il Capataz è ancora in testa alla corsa. Non è stato sufficiente quasi il 90 per cento dei cittadini al voto – uno sforzo commovente, in questa Turchia piagata dalla crisi economica e dal terremoto – per disarcionare l’uomo che governa e comanda con pugno di ferro da venti anni, e che in venti anni ha modellato il Paese a sua immagine e somiglianza. Sconfitto nelle previsioni e in testa nel voto delle urne, Recep Tayyip Erdogan si prepara a combattere nel ballottaggio del 28 maggio l’ennesima battaglia. A suo modo: con un approccio autoritario fatto di minacce e blandizie, con gli apparati dello Stato mobilitati a fianco del potere con una proposta politica ad alto potenziale esplosivo: una miscela aggressiva di islamismo tradizionale e ultra-nazionalismo.

Ma l’autocrate ha questa volta di fronte un contendente di peso e un partito di opposizione erede dello storico partito di Kemal Ataturk. Mai come in queste elezioni la popolazione turca si è rivelata profondamente divisa e polarizzata, con i due principali contendenti che hanno messo sul tavolo visioni contrapposte e irriducibili di leadership e di democrazia, di rispetto dei diritti e di inclusione sociale.  Di qui la distanza non certo abissale tra i due schieramenti.

Con la maggioranza assoluta di seggi conquistati al primo turno, il nuovo parlamento è schierato con il presidente: e già questa è una mezza inaspettata vittoria. 

Ieri più dei numeri parlavano le immagini: da una parte il Califfo di fronte alla Moschea e con a fianco la moglie velata secondo i dettami dell’Islam più rigido, dall’altra l’avversario Kemal Kilicdaroglu nel suo studio e sotto un benevolo ritratto di Mustafà Kemal Ataturk. Oggi l’amaro verdetto: la Turchia laica, quel Paese moderno – insieme radicale e compassionevole – immaginato e plasmato dal padre della patria è ormai minoritaria e costretta ogni giorno a combattere contro nemici potenti: l’oscurantismo, la bigotteria religiosa, la violenza cieca del nazionalismo.

Soprattutto: la città deve combattere ogni giorno contro la campagna.  Erdogan perde nelle città – come è successo clamorosamente quattro anni fa ad Istanbul – ma continua a ricevere l’investitura dalle campagne, dalla Turchia arretrata, dai ceti poveri e più permeabili alla propaganda revanscista della coalizione che sostiene il presidente.  Si pensava che la pesante crisi economica e insieme l’onda di dolore e di rabbia seguita al terremoto devastante ai confini con la Siria avrebbero messo in difficoltà il governo e il leader. Niente di tutto questo: si invera al contrario l’antico slogan maoista che mezzo secolo fa diede il via alla famigerata rivoluzione culturale cinese: «Le campagne che assediano la città». 

Non solo in Turchia. Le campagne sono oggi la chiave di volta del successo dei nuovi poteri autoritari che si affermano nel nostro pianeta. Sono state in gran parte le campagne a svuotare e portare al fallimento le primavere arabe nate dalle proteste cittadine, dalla mobilitazione dei giovani e dei ceti istruiti. È la forza d’urto dell’immensa retrovia delle campagne cinesi che si riversano nelle nuove metropoli a sostenere il potere immutabile dell’oligarchia cinese, rossa e turbo-capitalista. È la fissità immobile del sistema delle caste – la “gabbia dei polli”, come scrive Aravind Adiga – a garantire il potere assoluto del capataz indiano Narandra Modi. È infine il sonno delle campagne russe a rinnovare di volta in volta – elezione dopo elezione – il mandato a vita del Vohdz russo Vladimir Putin.

Erdogan e Putin in particolare sono oggi i gemelli diversi di questa turbolenta fase della geopolitica mondiale. Entrambi al potere da venti anni, entrambi promotori di nuove compiacenti architetture statuali, entrambi con la prospettiva di nuove illimitate investiture presidenziali. Con una differenza: salvo incidenti di percorso, la sciagurata guerra a Kiev garantisce a Putin un potere esclusivo che Erdogan dovrà invece, e ancora una volta, conquistarsi alle urne con il sudore della fronte. In ogni caso, il ponte tra Mosca e Istanbul è ben saldo, soprattutto dal punto di vista economico. Putin soprattutto ha bisogno della sponda di Erdogan: basta ricordare che nel recente meeting di Astana – ottobre 2022, in piena guerra all’Ucraina – il presidente russo ha parlato della Turchia come del futuro hub energetico della regione.

L’autocrate turco è bifronte e sta – a modo suo – dentro la cornice della Nato. È un partner a volte compiacente a volte riottoso della compagnia occidentale, e dall’Occidente riceve miliardi per garantire una barriera alla transumanza di milioni di  profughi verso i paesi europei. Tiene in sospeso il suo voto per l’adesione della Svezia alla Nato e nello stesso tempo non perde occasione per accreditarsi come grande negoziatore con il Cremlino. Da qui al ballottaggio il presidente sarà ancora uno nessuno e centomila e sarà sempre più tentato di giocare sul tavolo della polemica contro i valori occidentali. Fanno testo le recenti dichiarazioni incendiarie del ministro dell’interno turco e capo sei servizi segreti Suleyman Soylu, che nei giorni scorsi ha accusato l’Occidente di complottare contro la Turchia: «Interferendo con le elezioni, l’Occidente tenta di screditare e punire il nostro Paese».

Il copione della campagna elettorale da qui al 28 maggio è già scritto: l’alleanza di centro sinistra cercherà di far breccia nell’elettorato mettendo all’ordine del giorno i temi dell’inflazione rampante e della caduta del potere di acquisto della lira turca. In una parola: i costi della crisi economica che il governo non ha saputo combattere.  Erdogan e i suoi uomini insisteranno invece sulla stabilità e sulla identità islamica del grande Paese, non esitando a criminalizzare le tematiche e i rappresentanti dell’opposizione. Da venti anni la Turchia di Erdogan vive in instabile e pericoloso equilibrio tra democrazia e autocrazia, tra la libertà del dibattito politico e le manette dell’autoritarismo. Questo paese – denuncia Frank Schwabe, inviato dell’assemblea del Consiglio d’Europa – non rispetta i principi basici delle elezioni democratiche. Figure chiave della politica e della società civile restano in prigione, la libertà mediatica è minacciata e si respira un clima opprimente di autocensura. Lo Stato è molto lontano dal creare le condizioni per una campagna elettorale limpida. «Tuttavia la democrazia turca ha dato prova di essere straordinariamente resistente. Queste elezioni hanno goduto di un’ampia partecipazione e hanno offerto alternative reali».  Un riconoscimento e un auspicio per il futuro.

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