Arturo Belluardo
Dopo "Il sol dell'avvenire"

Confessioni di un morettiano

In margine al dibattito che si è scatenato intorno al nuovo film di Nanni Moretti: come e perché l'immaginario del regista ha incarnato quello di una generazione. Un catalogo di scoperte, sogni e delusioni. Ma soprattutto di voglia di vivere e capire

«Faccio fatica a capire l’ilarità circa i numerosi post commenti a proposito dell’ultimo film di Nanni Moretti. Siamo stati mesi a concionare e pubblicare meme su una frase stampata sullo scialle di una influencer sul palco sanremese e adesso non meriterebbe, almeno, la metà di spazio e attenzione l’ultimo film di uno dei pochissimi autori e intellettuali italiani di rilievo internazionale? Perché può piacere o non piacere, ma tutto si può dire del cinema e degli interventi di Moretti, tranne che siano irrilevanti. Parafrasandolo: ve li meritate gli influencer ve li meritate». Così la scrittrice Simona Baldelli in un suo post su Facebook di circa un mese fa.

Non aggiungo altro, il dibattito sull’ultimo film di Nanni, Il sol dell’avvenire, ha dominato i social, chiunque, quanto meno nella mia bolla Meta, ne ha scritto, commentato, criticato, elogiato. Al Marchè del Festival di Cannes il film sta andando benissimo, sembra che ottenga distribuzione in tutta Europa.

Quello che sembra essere il film più autoriferito del regista romano, una contrazione del suo metaverso personale in cui coesistono tutti i suoi film, in cui lo spazio e il tempo spariscono se non nella durata, circolare, della proiezione in una sala buia e quindi infinita, questo film valica il ring provinciale di Monteverde Vecchio e approda a un respiro più ampio, come se lo spettro del comunismo dal volto umano auspicato da Nanni si volesse aggirare nuovamente per l’Europa.

E dire che per me, adolescente cinefilo onnivoro, topo solitario da cineclub di provincia, minchia di mare che passava i sabati sera a casa a vedere le rassegne di Zanussi e Altman sul secondo canale, per me Moretti era ed è stato il regista che più ha parlato con un linguaggio personale, quasi esclusivo, generazionale, ma di una generazione ristretta, quella che cresce in periferie amorfe della nazione, sperando in un futuro radioso e socialista e finisce immelmata nel riflusso gastroesofageo della craxiana Milano da bere e da mangiare. Con buona pace dell’amaro Ramazzotti, a noi rimasero soltanto il nasale Eros e i suoi zingari di professione.

Nanni Moretti lo incontrai grazie a Odeon, quando la Rai faceva ancora scoperta e promozione culturale: la storia di questo ragazzo che, a vent’anni, vende la sua collezione di francobolli per comprare una cinepresa Super 8 e si mette a girare film con i suoi amici, fino ad arrivare al successo del Filmstudio con Io sono un autarchico, non poteva non assumere da subito una dimensione mitologica per chi, a quindici anni, si sentiva incatenato da un futuro di scirocco colloso in una piccola città (bastardo posto) siciliana. E già in quel film quasi oscuro, dalla recitazione straniata, emergeva prepotente la rivoluzione morettiana, il racconto del disagio di una generazione attraverso battute fulminanti. Si iniziò con No, il dibattito, no! per continuare con Mi si nota di più…, Ve lo meritate Alberto Sordi, Faccio cose, vedo gente, Le parole sono importanti, Continuiamo così facciamoci del male, Non mi faccia il tunnel nel montblanc, Trend Negativo? Io non parlo così…, Le mie idee erano giuste e io sono uno splendido quarantenne, D’Alema, dì qualcosa di sinistra.

Era la creazione di un codice, una sintesi folgorante e folgorata, chiave di riconoscimento immediata inter pares: una delle chiavi di lettura per rimorchiare una ragazza, una cartina al tornasole, citavi una battuta di Nanni Moretti e se lei ti rispondeva a tono, allora si poteva continuare, c’era speranza di dialogo e baci.

Le parole di Moretti, sia al cinema che fuori (ricordiamo l’attacco ai dirigenti dell’Ulivo, Se continuiamo a spararci così non andiamo da nessuna parte), sono diventate uno specchio identitario, la creazione di una comunità che trovava in Nanni Moretti l’espressione del suo sentire profondo e non espresso, non riconosciuto. Una comunità che si stringeva attorno a lui nel movimento dei girotondi contro il berlusconismo dilagante o che esplodeva in applausi catartici a scena aperta (mai visto da allora al cinema) alle sequenze di Bianca: a Roma non si riusciva a trovare posto per quel film, le persone andavano a vederlo e rivederlo, era diventato un rito collettivo.

Così come la musica che ci faceva scoprire, quanti di noi hanno scoperto Keith Jarrett dopo la lunghissima corsa in Vespa di Caro Diario per andare sul luogo dell’uccisione di Pasolini? Io devo a quella sequenza l’inizio del mio amore per il jazz. E la struggente canzone d’amore di Damian Rice ne Il caimano? E I’m on fire di Springsteen in Palombella Rossa? E Battiato?

A me, poi, il cinema di Moretti ha segnato la vita, ricordo esattamente quando e dove ho visto i suoi film: di ritorno in treno da Parigi, dopo la maturità, una sosta a Roma per andare a vedere Sogni d’oro, che a Siracusa non era mai stato distribuito (e che per me resta uno dei suoi più belli, ero io il mostro del finale); La messa è finita, visto alla prima alle 22.30, per non leggere le critiche sul giornale il giorno dopo e non sciuparmi niente (Ma non puoi comprarti il giornale e tenertelo da parte senza leggerlo? mi aveva chiesto Cesare, che avevo costretto a venire con me. Non ce la faccio, la mia risposta); La stanza del figlio, visto con mia moglie incinta, ed entrambi in lacrime a scoprire che il nome scelto per nostra figlia, Arianna, ero lo stesso della ragazza che “salva” la famiglia del protagonista dalla disperazione del lutto.

E ricordo tutte le volte che l’ho incontrato a Roma, sotto la pioggia a Trastevere, lui in Vespa con una mantella ridicola a chiedermi nasale dov’era via della Mantellate e al mio non saperlo, rispondermi con il suo scocciatissimo Vabbè.

Fino al girotondo a Palazzo di Giustizia, al Palazzaccio, io e mia cugina stanchi, seduti a chiacchierare sulle gradinate e Nanni che viene portato quasi di peso davanti a noi a parlare alla folla. E così sono venuto in tutte le foto, dietro di lui, con un megafono riluttante in mano.

Quella foto mi rappresenta, ci rappresenta bene, noi morettiani: un passo indietro ad ascoltarlo, a sentirgli dire quelle parole, a creare quelle immagini, che tu hai dentro e che non riesci a esprimere, che rappresentano con esattezza la tua posizione politica e morale in quel momento, acuto, nasale, straniato.


Accanto al titolo, fotografia Archivio Iconografico di Stato

Facebooktwitterlinkedin