Nicola Fano
Viaggio nella memoria del teatro

Le Cantine romane

Viaggio nei luoghi (vuoti) delle Cantine romane, il fenomeno che rivoluzionò il teatro europeo negli anni Settanta. E che ancora oggi, con la sua forza storica dirompente, potrebbe indicare una strada nuova. Anche se qui da noi, ormai, contano più i cuochi degli artisti...

Roma è una grande forma di formaggio Emmental. Una sequela di buchi dove sprofonda la storia, spesso senza più riapparire. Fretta, disinteresse generale, disprezzo per la memoria: le ragioni sono tante. Via Alberico II, via Giuseppe Gioacchino Belli, via dei Riari, Via Portuense, Lungotevere dei Mellini, Via Galvani, Via Benzoni: sono gli estremi di una toponomastica dell’assenza, altrettanti buchi nei quali sono sprofondate le Cantine romane.

Con questo nome, “Cantine romane”, è identificato un complesso fenomeno creativo che ha caratterizzato la Capitale negli anni Settanta (con una coda nei primi Ottanta): una intera generazione di artisti ha scoperto il teatro e ne ha svelato la forza identitaria rifiutando in blocco i modelli tradizionali (Strehler, il giovane Ronconi, grandi divi come Gassman, Albertazzi, Stoppa/Morelli) e andando in cerca di un linguaggio alternativo. Fatto di molte immagini, molta musica e poche parole. Chiamiamola, per l’epoca, “cultura giovanile” che non aveva alcunché di giovanilistico. Ma, soprattutto, questa vasta e composita generazione d’artisti ha ripudiato le regole del mercato: abbonamenti, contributi pubblici, ritualità borghesi. Finanche i luoghi di rappresentazione sono stati ricusati: per garantirsi libertà creativa, i protagonisti di questo fenomeno avevano bisogno di spazi alternativi, senza condizionamenti. Fecero teatro nelle cantine. Cantine vere e proprie, spesso: spazi anticonvenzionali, ripitturati alla meglio, arredati con gusto ma senza sfarzo. Luoghi da vivere anche se erano freddi e non di rado scomodi.

Ai prodromi del fenomeno delle cantine c’era Carmelo Bene, che, nel decennio precedente aveva iniziato a imporsi con la forza della sua rabbia contro ogni regola. Ma già nel 1968, per rompere gli schemi, Pier Paolo Pasolini aveva firmato su Nuovi Argomenti il suo Manifesto per un nuovo teatro, il “Teatro di Parola”, scagliandosi contro il “Teatro del Gesto e dell’Urlo”, vale a dire quello di Carmelo Bene. «Mentre il teatro del Gesto o dell’Urlo ha come destinataria – magari assente – la borghesia da scandalizzare (senza la quale esso sarebbe inconcepibile, come Hitler senza gli Ebrei, i Polacchi, gli zingari e gli omosessuali), il Teatro di Parola, al contrario, ha come destinatari gli stessi gruppi culturali avanzati da cui è prodotto». In questo clima dilagò il fenomeno delle Cantine romane che, forse, più del Teatro di Parola pasoliniano, ha segnato in profondità la scena dei decenni successivi. Salvo venire dimenticato. Sprofondato nella città-Emmental che l’aveva prima inventato e poi vezzeggiato.

Carmelo Bene

Perché Roma, negli anni Settanta, anche grazie alle Cantine, è stata al centro del dibattito culturale mondiale: artisti, critici, teorici – non solo di teatro – erano di casa qui; qui venivano a trarre indicazioni e suggestioni per il futuro. Forse sembra assurdo, oggi, ma così è stato.

Ebbene, con l’irragionevole proposito di riportare alla memoria quella stagione, ne propongo qui una toponomastica quanto più possibile fedele. Soprattutto perché dove c’erano le Cantine, oggi c’è il vuoto, il niente; qualcosa peggio dell’oblio. Roma, che al tempo vedeva nascere uno spazio d’arte, teatro o cultura a ogni angolo, oggi ospita e foraggia – sempre a ogni angolo – solo bar, ristoranti, paninerie e anditi per lo street food. L’impiattamento ha preso il posto dell’arte e i cuochi sono i nuovi maître-à-penser a cui ci si rivolge per conoscere i destini del mondo. Tra un tappeto di rucola e uno spaghetto risottato. Sicché noi, qui, faremo un percorso a ritroso in ordine sparso, così come la memoria ne ripropone l’urgenza. Perdonate fin d’ora la lunghezza.

Motivi d’affetto personale mi inducono a cominciare da Via Alberico II, tra i Giardini di Castel Sant’Angelo e Porta Cavalleggeri: quasi un affronto blasfemo alla santità del Vaticano che incombe con le mura del Passetto di Borgo. Lì c’era il Teatro Alberico: una multisala – per così dire – gestita da un impresario gentile e geniale, Antonio Obino. Lo spazio grande era al piano terreno: ospitava un po’ più di un centinaio di spettatori, forse duecento. Vi si alternavano, stabilmente, Bruno Mazzali con Rosa di Lucia e Daniele Costantini con Laura Morante. Spesso ci lavoravano, prima di avere loro spazi, Valentino Orfeo e Pippo Di Marca. Ma era anche il punto di approdo di tutti quei gruppi che sperimentavano nuovi linguaggi lontano da Roma, Arnaldo Picchi a Bologna, Roberto Cimetta ad Ancona. E molti altri. Sotto, poi, c’era l’Alberichino: poche sedie di legno – scomode – e una temperatura polare. Lì hanno debuttato Roberto Benigni (insieme a due grandi attori toscani quali erano Donato Sannini e Carlo Monni) e Carlo Verdone. Indimenticabili i loro spettacoli!

“La conquista del Messico” con Rosa Di Lucia.
Regia di Bruno Mazzali. Foto di Giorgio Piredda

L’Alberico, più e meglio di altre cantine, era anche un luogo di ritrovo per i teatranti che lo raggiungevano dopo aver recitato altrove. Io, al tempo spettatore professionale, critico militante, ci andavo tutte le sere a tirare tardi dopo aver visto lo spettacolo che mi spettava per mestiere. Nella migliore delle ipotesi, a un dato punto spuntava una bottiglia di vino. Una sola per tutti i convenuti, sicché solo i più frettolosi acchiappavano al volo un fondo di bicchiere: io ero timido e restavo quasi sempre all’asciutto. Per questo ero spesso sfottuto, ma non me la prendevo: nessuno si prendeva sul serio, lì. Il teatro era una passione pervasiva e vitale.

Oggi in Via Alberico II non c’è niente: una saracinesca chiusa definita solo da un generico passo carrabile. Gli spazi del teatrino furono prima trasformati in un ristorante con coda spettacolare (una roba di nessun interesse) poi vennero chiusi definitivamente, a vantaggio dei condomini timorati di Dio che non volevano seccature.

Sempre in Prati, in Via Belli, dietro Piazza Cavour, c’era il Beat ’72: una cantina vera e propria alla quale si arrivava scendendo una scala stretta dipinta di nero. Officiato da Simone Carella e Ulisse Benedetti, qui si consumava il rito della “nuova spettacolarità” che aveva in Giuseppe Bartolucci e Achille Mango i suoi teorici ufficiali. Da basso, in una specie di foyer minuto, s’aspettava di veder scendere dalla scala i proverbiali sandali di Beppe Bartolucci per cogliere il senso della serata epocale: se c’era lui, si faceva la storia. Perché poi i teorici erano gli unici che si prendevano sul serio. E nelle loro fumose parole c’è l’unica testimonianza di un fermento critico ormai perduto.

Al Beat ’72 ricordo gli esordi della Gaja scienza di Barberio Corsetti ma soprattutto di Marco Solari e Alessandra Vanzi, le vere menti del gruppo. Ricordo pure uno strano performer, che mescolava teatro e danza quando Pina Bausch non s’era ancora palesata nel nostro empireo: si chiamava – e spero si chiami ancora, benché da anni non ne abbia più avuto notizie – Benedetto Simonelli. I suoi spettacoli erano energia pura. Tutto al contrario di una singolare performance cui assistetti una sera: condotti pochi spettatori in sala, ciascuno era sistemato su una poltroncina rimediata chissà dove. Dopo di che, buio totale e una lieve suggestione di ambient music (andava assai di moda, allora): niente altro. Non attori, non danzatori, non parole, non musica propriamente articolata. Forse durò mezz’ora, forse di più. Poi, inaspettatamente: luce, lo spettacolo è finito, tutti a casa. Gli ideatori di questo scherzo erano – se non sbaglio – proprio Simone Carella e Mario Romano, che così perlustravano la riva teatrale dei silenzi di John Cage. E forse fu proprio qui, poi, che mostrò al pubblico il suo ultimo lavoro su L’uomo senza qualità Giuliano Vasilicò: un genio continuamente rimandato.  

“Iper-Uranio” di Simone Carella
e Mario Romano al Beat ’72, 1980

Inutile dire che lì in Via Giuseppe Gioacchino Belli oggi non c’è nulla. Una porta di ferro perennemente chiusa ricorda a chi la visse, quella stagione bella e pazza.

Alle spalle del Beat ’72, invece, su Lungotevere dei Mellini, c’è ancora uno spazio teatrale che alla fine dei Sessanta e nei primi Settanta ha ospitato il vero padre delle Cantine romane: Mario Ricci. Artista figurativo geniale e testardo, fu lui il primo a puntare sulla centralità dell’immagine. Lo faceva in quella cantina (si chiamava Teatro Abaco) alla quale si accedeva da una porta con i vetri smerigliati sistemata proprio sulla via. Continuò a vivere come teatro fra alterne fortune. Adesso è gestito da un sedicente sindacato di scrittori che non sa che farsene.

A Roma non c’è il mito della Rive gauche come a Parigi, né quello di Oltrarno come a Firenze, ma le cantine erano quasi tutte Oltretevere: ossia dalla parte del Vaticano, del potere spirituale, non di quello temporale. E non dev’essere stato un caso.

Sempre in ordine sparso, alle porte di Trastevere, proprio alle spalle di Regina Coeli, quasi sotto il livello del fiume, c’era un teatrino bello e minuscolo: il Teatro alla Ringhiera. Lo gestiva un attore e regista che si chiamava Franco Molè (gli vidi fare una bella edizione de La lezione di Ionesco, una delle prime qui in Italia, sarà cinquant’anni fa) ma ospitava anche gli spettacoli della Fabbrica dell’Attore, alias Giancarlo Nanni e Manuela Kustermann. Che, del mondo delle Cantine, oltre ad essere tra i più corrosivi e geniali, erano sicuramente i più belli. Nanni era un genio molto irrequieto: il suo stile è stato ripreso pari pari (senza neanche pagare i diritti d’autore…) da Antonio Latella. Se vi piacciono i suoi spettacoli, sappiate che Nanni li ha fatti, meglio, qualche decennio prima. Irriverente e creativo, Giancarlo Nanni mescolava la poesia al pop, l’arte figurativa alla danza: la sua versione di Franziska di Wedekind si chiudeva con Non è Francesca di Lucio Battisti. E calzava a pennello. Ma era Manuela Kustermann a rendere tutto credibile, con il suo talento e la sua bellezza: difficilmente dimenticherò un suo Cymbelino (testo molto minore, tra quelli di Shakespeare), mentre dormii in strada, un paio d’anni dopo, per vederla al Teatro Romano di Verona in Amleto, nei panni del principe di Danimarca, ovviamente, diretta da Giancarlo Nanni: uno spettacolo memorabile.

Manuela Kustermann ne “Il risveglio di primavera”,
regìa di Giancarlo Nanni. Foto di Agnese De Donato

Ovviamente, del Teatro alla Ringhiera oggi non c’è più traccia, mentre c’è un ristorante al posto del Teatro La Fede, in via Portuense a Porta Portese, dove Nanni e Kustermann hanno costruito i loro primissimi spettacoli, all’inizio degli anni Settanta.

Sempre a Trastevere, nel cuore del rione, c’era e c’è l’unica Cantina romana sopravvissuta: il teatro La Comunità di Giancarlo Sepe. Anche questa, una cantina in senso proprio: prima del restauro della metà degli anni Ottanta curato dallo scenografo Uberto Bertacca, era un antro scuro con una piccola platea maltrattata da un paio di colonne di cemento armato che sorreggono l’edificio sovrastante. Oggi è un piccolo salotto in bianco e nero – dominato da alcune splendide gigantografie di Samuel Beckett – che riproduce alla perfezione l’immaginario tra kabarett e cinema in bianco e nero di Giancarlo Sepe. Che, meritoriamente, continua a produrre gioielli in questo spazio che è del tutto congeniale alla sua creatività.

Dalla parte opposta di Viale Trastevere, lo spettatore della memoria troverà attivo anche il teatro Belli (proprio accanto a Santa Maria in Trastevere) dove Roberto Lerici costruiva i suoi azzardi (oggi lo gestisce il figlio Carlo Emilio): ma non è una vera e propria cantina, piuttosto un piccolo, elegante teatrino. Invece bisogna inoltrarsi ancora di più dentro Trastevere, verso Piazza Trilussa, in Vicolo Moroni, per trovare le vestigia di un’altra multisala dell’epoca. Oggi c’è un piccolo cinema, ma negli anni di cui stiamo parlando c’era il Teatro in Trastevere: tre sale di misure diverse. La B era la più grande, dove recitavano regolarmente Leo e Perla e dove hanno debuttato (a Roma) Toni Servillo e Renato Carpentieri. La sala A era più piccola e ospitava le novità più ardite (Antonio Neiwiller, per esempio), mentre nei sotterranei c’era la Sala Pozzo, interamente dedicata al teatro di Remondi e Caporossi che qui hanno realizzato tutte le loro prime meraviglie, da Cottimisti a Pozzo, appunto.

E restiamo a Trastevere per ricordare il Metateatro (sì, alla maniera di Breton): lo fondò Pippo Di Marca per costruirci i suoi spettacoli. Era uno stanzone affacciato sulla strada (via Mameli). Mi sembra di aver visto lì il primo spettacolo di Romeo Castellucci; e non mi piacque per niente.

Lo spirito che animava il teatro delle Cantine Romane era molto diverso da quello che muove le compagnie che oggi si autoproclamano paladine del teatro “contemporaneo”. Intanto, in arte il concetto di contemporaneità, specie se contrapposta alla classicità, non esiste: tutto il teatro è contemporaneo, ossia parla al pubblico il quale, in quanto compresente al rito, non può che essere “contemporaneo” di chi sta in scena. Sennonché, oggi quell’etichetta ha un valore esclusivamente lobbistico: un marchio tendente a escludere chi non se lo intesta accettando la supremazia di quanti distribuiscono improbabili timbri di “contemporaneità”. Al tempo delle Cantine, questa tendenza a bocciare chi non partecipava alle attività collettive non c’era. Certo, i “teorici”, specie Beppe Bartolucci, erano molto propensi a dare voti, a stabilire promossi e respinti; ma solo sulla base di considerazioni estetiche. In quanto tali discutibili e opinabili da loro stessi.

Oggi il (nuovo?) teatro vive nella contrapposizione generazionale: chi usa video e cinema è giovane e, in quanto tale, contemporaneo. Al tempo delle Cantine la contrapposizione – sovente molto più cruenta di quella che si consuma oggi tra lobby giovanili e lobby tradizionali – era, per così dire, “di classe”. E dunque totalmente politica. La contestazione del nuovo teatro contro il vecchio si manifestava nel rifiuto della liturgia borghese delle prime, delle pellicce, del vacuo mostrarsi in platea. Il teatro convenzionale viveva anche di una ritualità vuota in base alla quale s’andava in platea per apparire in società: qualcosa che affondava le radici nel Settecento, quando i Teatri all’Italiana, con i loro foyer e i loro spazi comuni, erano crogiuolo della socialità del tempo. Il teatro delle Cantine romane rifiutava questa fetta della storia e voleva riportare il rito teatrale alla sua originaria funzione etica, quando i greci partecipavano (più ancora che assistere) alle tragedie per imparare a conoscersi. Anche noi, lì, nel gelo delle Cantine abbiamo imparato a conoscerci. Questa semplice considerazione ci riporta al Manifesto di Pasolini: il grande scrittore non colse minimamente questa spinta etico-politica del “Teatro dell’Urlo e del Gesto” e anzi ci lesse una falsità rituale (e borghese) che davvero non apparteneva alle Cantine romane.

Le 120 giornate di Sodoma,
regìa Giuliano Vasilicò. Foto Giorgio Piredda

E poi i protagonisti di quella stagione, mediamente, erano più colti e preparati di quelli di oggi: qualcuno veniva dall’Accademia Silvio D’Amico ma, più di frequente, i registi avevano studiato nelle Accademie di Belle Arti: potevano vantare studi di estetica non solo approfonditi, ma ancorati alla concretezza dell’atto creativo. E infatti i loro spettacoli erano fatti di simbologie molto corporee e riconoscibili; grazie alla musica popolare, grazie a un uso spregiudicato della luce, grazie a una ricerca ossessiva sulla gestualità. Tutti elementi che mettevano questi artisti in collegamento diretto con i loro avi delle avanguardie storiche. Da Picasso a Breton a Duchamp. Il tutto era frutto di studi, non di acquisizioni superficiali da orecchianti. Tutto ciò sia detto senza nostalgia, ché non avrebbe senso, ma solo per dovere di cronaca da parte di chi, come me, va a teatro da cinquant’anni con immutata passione. Assistendo con lo stesso piacere patologico sia agli spettacoli belli sia a quelli brutti.

Ma andiamo avanti con il nostro viaggio. Passato il fiume, pur restando lontani dai palazzi del potere, bisogna deviare verso il Mattatoio (al tempo fungeva ancora da Mattatoio): lungo via Galvani, dove ora c’è il nuovo Mercato di Testaccio, negli anni Settanta c’era il teatro tenda Spaziozero. Una tenda vera e propria, gestita da un regista arruffone e geniale che si chiamava Lisi Natoli. Aveva voluto lavorare in una tenda in nome di un’idea forte di teatro popolare dell’epoca, animata da un rigore politico senza pari. Da lui, che consumava una intera sigaretta con una sola tirata, sentii dire per la prima volta la frase «Per essere comunisti senza essere stalinisti bastava essere brechtiani» che solo molti anni dopo seppi essere un mantra dei teatranti francesi del Sessantotto. Lisi Natoli era brechtiano a suo modo, mescolava il teatro didattico con la passione per i cantastorie, il teatro di strada con il primato dell’immagine: nei suoi spettacoli c’era tutto. A volte anche troppo. Ma l’emozione del pubblico era garantita.

Poco più giù, oltre la Stazione Ostiense, c’era il tempio di Memè Perlini, il Teatro La Piramide. Più che una cantina, un hangar. Forse era stato un garage, oggi è una palestra. Mi ha fatto molta tristezza, qualche giorno fa, passarci davanti. La memoria è andata diritta ad alcuni splendidi spettacoli di Memè Perlini e Antonello Aglioti. Uno per tutti: La cavalcata sul lago di Costanza di Peter Handke, un delirio – rigorosissimo – di suoni e luci intorno a un vero e proprio lago ricostruito da Aglioti. Però Perlini e Aglioti avevano debuttato anni prima al solito Beat ’72, con uno spettacolo-manifesto che ha fatto epoca: Pirandello chi?, vagamente ispirato ai Sei personaggi. Qualcuno, prima o poi, dovrà prendersi la briga di studiare più a fondo la funzione maieutica esercitata da Pirandello: da Questa sera si recita a soggetto del Living Theatre a questo spettacolo di Perlini/Aglioti.

Dalla parte opposta della città, ma sulla stessa riva del Tevere, alle spalle di via Flaminia, poi, c’era un’altra sala storica, il Politecnico: un brand, più che un teatro semplicemente. Luogo di ricerca sulla drammaturgia e lo spazio, era gestito da Amedeo Fago, quello del mitico Risotto che, dopo oltre quarant’anni, viene ancora replicato.

Ma, prima di chiudere, c’è una domanda alla quale non si può scappare: come e perché quella stagione è finita?

Le risposte sono tante. Ne posso azzardare alcune che forse non esauriscono il tema. Intanto, la funzione innovatrice di quel teatro si è esaurita per la semplice ragione che tutti gli artisti della convenzione e della tradizione nel volgere degli anni Ottanta hanno introdotto quelle novità nei loro spettacoli: registi di grande rilievo come Mario Missiroli, Roberto Guicciardini Giancarlo Cobelli, Aldo Trionfo, ma anche il Luigi Squarzina di quel decennio (per non parlare di Antonio Calenda che le prime cantine le aveva inventate all’inizio degli anni Sessanta), non avrebbero potuto firmare gli spettacoli che hanno realizzato senza la rottura operata dalle Cantine romane. Restò proverbiale un Mercante di Venezia allestito da Memè Perlini all’Eliseo con Paolo Stoppa protagonista: uno spettacolo non riuscito, sicuramente, ma il segno definitivo della rottura del muro che divideva due mondi. Dopo di che, niente è più stato come prima.

Memè Perlini

C’è poi una questione di politica culturale molto importante. Nel 1975, quando quel fermento artistico era nel pieno della sua esplosione, per la prima volta nella storia repubblicana molte istituzioni locali iniziarono ad essere gestite dal Partito Comunista e dai suoi alleati. Grazie all’attenzione che l’illuminato responsabile della politica teatrale del Pci dell’epoca, Bruno Grieco, aveva sempre riservato al teatro delle Cantine, Comuni, Provincie e Regioni rosse iniziarono a sostenere economicamente in modo massiccio giovani artisti e compagnie che vennero definite “sperimentali”. Si aprì, per esempio, la feconda stagione di Renato Nicolini, assessore alla Cultura del Comune di Roma dal 1976, con la sua Estate Romana e la diffusa pervasività del nuovo teatro in tutti gli spazi della città, non più solo le “vecchie” cantine. Questo vasto fenomeno, però, aprì anche un altro fronte all’interno dei regolamenti ministeriali: sempre sulla spinta di Bruno Grieco e del Pci si cominciò a parlare della necessità di finanziare direttamente da parte dello Stato il teatro “sperimentale”. E proprio la cooptazione di quegli artisti nelle maglie dei regolamenti ministeriali ne causò il prosciugamento creativo: fare teatro – per i protagonisti delle cantine come per gli “impiegati” del teatro convenzionale – divenne un mestiere ripetitivo e garantito mediante il rispetto di norme e parametri che con la libertà artistica non avevano (e ancora oggi non hanno) alcunché da spartire. D’altra parte, come ho già detto all’inizio, la frenesia delle Cantine s’era innestata sull’invenzione di un sistema produttivo nuovo, autonomo, totalmente libero: la negazione di questo principio fu letale. Uscire dalle cantine per andare nei teatri tradizionali fu un passaggio mai pienamente riuscito. Anche perché le amministrazioni pubbliche centrali – i vari direttori generali dello spettacolo dal vivo che si sono succeduti al ministero del Turismo e dello Spettacolo poi a quello della Cultura – hanno prima normalizzato le spinte innovative delle Cantine e poi le hanno inglobate in una dinamica di quieta ripetitività. Ne hanno disinnescato la forza eversiva.

Fino ad arrivare a oggi, con il teatro tutto, totalmente finanziato dallo Stato. Ma alle sue (dello Stato) condizioni: uccise definitivamente le compagnie private tramite un regolamento che rende insostenibili gli investimenti e garantisce solo gli scambi tra soggetti pubblici, tutta l’attività scenica in Italia passa attraverso i Teatri Nazionali, i Teatri di rilevante interesse culturale e i Centri di produzione (sono etichette introdotte anni fa dal regolamento ministeriale). Ossia quei soggetti i quali possono scambiarsi tra loro le produzioni a prezzi vantaggiosi e a prescindere dall’efficacia degli spettacoli. Tutti gli altri, tutti coloro che non dispongono di una sala da offrire per questi “scambi”, sono votati al fallimento. La ragione di tutto ciò è semplicissima: le nomine dei direttori dei teatri pubblici (Teatri Nazionali e Tric) sono totalmente nelle mani degli apparati politici (Ministero e Assessorati) ed è evidente che questo stretto legame produce sudditanza. Tant’è vero che il livello generale dei direttori di teatri pubblici in Italia non è mai stato così basso. Tutti eroi della lobby dei “contemporanei”, sicuramente, ma esteticamente ininfluenti; autori di spettacoli autoreferenziali che non riescono a costruire un pubblico nuovo e realmente interessato al rito teatrale.

Insomma, la lezione delle Cantine romane dovrebbe illuminare l’operato di chiunque volesse, oggi, fare un teatro veramente nuovo e diverso. Bisogna ripartire da lì: dalla libertà creativa che passa inevitabilmente attraverso un sistema produttivo inedito, lontano dai condizionamenti delle politiche ministeriali, regionali e comunali. Anche inventando spazi nuovi: qualcosa del genere, da qualche anno, succede con i cosiddetti fringe, festival autogestiti che occupano le città in luoghi non convenzionali. Ma è ancora poco. Non resta che aspettare l’apertura delle prossime cantine.


Le foto che illustrano questo articolo sono tratte dal web. Dove possibile, abbiamo segnalato gli autori. Per quelle non firmate, siamo pronti a inserire i crediti se gli autori ce lo comunicheranno.

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