A proposito di “Corpo a corpo"
La boxe della vita
Il nuovo romanzo di Elena Mearini usa la metafora della boxe e dello sport per raccontare la storia di tre personaggi (il protagonista, la compagna morta e la sorella di lei) che fuggono costantemente dal tempo
Ci sono romanzi che esercitano il classico potere ipnotico sprigionato dall’incastro e dal dispositivo (come in questo caso) concentrico che formulano la loro struttura sferragliante come un quieto ed efficiente motore elettrico: Corpo a corpo di Elena Mearini (Arkadia Sidekar, pagine 110, €14) rientra a buon diritto nella categoria. L’impatto iniziale è sorprendente: apprendiamo subito che “il tempo è tutto un errore”, e chi si pronuncia così: un fuggiasco, un ladro o forse un assassino, di certo è qualcuno che ha in mano tutte le chiavi della vicenda e del suo sbroglio e racconto, il protagonista io-narrante e attonito testimone.
Due ingredienti iniziali subito avvolgenti e sempre più incalzanti: si sviluppano, si srotolano, compiono un percorso articolato e significativo, ma in più hanno la funzione, e il pregio, di tirare dentro molto altro.
Sul fronte del tempo, secondo un’idea di simultaneità in cui spazio e tempo sono curvi e uguali, e in concomitanza con lo slittamento del punto di vista, viviamo la vertigine della sovrapponibilità dei momenti temporali, del loro essere contemporaneamente presenti alla coscienza dell’io-narrante nella concitazione del pugno d’ore che è il presente del romanzo (da notte fonda sino al pomeriggio-sera) nello stesso teatro, la palestra di boxe del maestro-allenatore Mario, in cui il nostro Virgilio tiene tutti i fili e prova a domare tutti i piani della vicenda che lo incastra.
La macchina narrativa ha una sua regolarità circolare e concentrica, scandita dai dodici round degli incontri di boxe – il protagonista lascia solo allora il ring e ne ha buoni motivi, oltre a cedere a una necessità esterna direi di opportunità (o forse di opportunismo). Nell’intreccio, tenuto con briglie tese e agili dall’autrice, con mano ferma pronta a modularsi in accordo a strappi e allentamenti, ruotano tre cerchi concentrici: la fuga del protagonista/io-narrante, Stefano Santi, in seguito alla morte della giovane compagna; il diario di lei, Marta, che così è attrice attiva benché contumace; la breve vita della sorella di lei, Ada, che aleggia: a lei è riservato il posto dell’angelo,come recitava anni fa il titolo di un romanzo di Laura Pariani.
Bisognerà tener conto poi dell’alfa e dell’omega di questa storia: il primo incidente di cui Stefano Santi, allora giovane promessa della boxe, in una impensabile notte balorda si rese autore, e questo recentissimo che lo ha messo in fuga. E si dovrà tener conto del contenitore in cui tutto l’intrico emerge: la conversazione con Mario, maestro irregolare e riluttante, involontario e refrattario, più ancora che per lo sport, per la vita – un vecchio saggio che inchioda Stefano, docente di Lettere e a sua volta allenatore amatoriale di boxe in quanto ex-promessa, a fronteggiare il suo avversario del momento (decisamente il destino) ricordando lo spirito della boxe: saper unire mente e cuore (metafora molto bella, questa dello sport, e della lealtà nel pugilato), ma anche a non dimenticare che pulizia e accuratezza, gestione e allenamento sono le chiavi per una pratica onesta e per un confronto aperto senza colpi bassi o “trucchi da quattro soldi”, avrebbe detto qui Carver.
Punti di forza del romanzo risiedono certamente: nel tessuto della scrittura che incorpora echi dalla letteratura che ormai consideriamo classica e che non è, proverbialmente, obbligatorio riconoscere, purché il lettore o la lettrice troppo accorti non forzino troppo certe attribuzioni [a un certo punto, per dire, c’è il catino di Buck Mulligan (e ci viene naturale sentir vibrare nel nome del protagonista, Stefano Santi, l’eco dell’altro Stephen), poi in fondo c’è pure la prostituta sguarnita di “Non ti muovere”, o, spiccando un altro salto, il ben noto fallire ancora, fallire meglio – una linea irlandese, via]; e anche nella tradizione classica della boxe, nell’evocazione dei grandi campioni di cui Mario, l’allenatore/gestore della palestra (dove Stefano, forse braccato, si rifugia), tiene una sua personale galleria, esposta in un punto meno visibile della scena in cui questa vicenda viene raccontata analizzata espiata, così emergono figure come Joe Louis che sconfisse Schmeling, campione della Germania hitleriana, o James Walter Braddock, anche lui campione degli anni Trenta, e poi si evoca lo storico incontro tra George Foreman e Cassius Clay/Muhammed Alì, in cui Alì con tattica attendista smontò l’avversario semplicemente illudendolo di poter vincere e lasciandogli bruciare ogni energia nei primi due terzi dell’incontro per poi abbatterlo in un colpo.
La metafora della boxe e dello sport è molto convincente in un romanzo in cui la regista occulta di molti destini è presente con la sua versione dei fatti riportata in corsivo e letta a voce alta al vecchio mentore dal protagonista, e questo espediente (definiamolo così) non solo sposta il baricentro della narrazione in un retroscena efficace a stravolgere l’andamento dei fatti ma fa di questa vicenda una specie di braccio di ferro in cui il più attivo dei due, anche perché l’unico dei due vivo, è l’unico a poter scrivere la pagina finale.
L’efficacia della metafora sta nella semplice immagine del ring che non è solo un quadrato, ma è una cornice di regole e lealtà dentro cui siamo educati a tutelare l’esistenza come una faccenda da professionisti, non da viventi dilettanti, da umani della domenica. E poi ci aiuta a scoprire un’altra regoletta semplice ma ignorata dai più: il tempo “non sbaglia un colpo, è un picchiatore esemplare” – dopo che, lungo tutto il libro, del tempo è stato detto che, oltre a essere tutto un errore, è anche un gancio, un bastardo, o corre a ritroso. Il tempo, come lo spazio, istruisce un capovolgimento. Infine:
Ada, sorella eccelsa e perfezionista, è in effetti amatissima, al punto che, per evitarle l’infelicità della perfetta prigionia di una vita senza difetti e sempre sotto i riflettori dell’ammirazione altrui, la soluzione è consistita nel sottrarla al tempo; poi avrei voluto cominciare con una certa scena questo breve saggio su un libro in cui la boxe è metafora e contenitore, tanto che a un certo punto si dice, “…è così che si diventa forti, tirando pugni al sacco e al vuoto”– la scena viene da “Lassù qualcuno mi ama”, film di Robert Wise del ’56, racconto della parabola umana e sportiva di Rocky Marciano: vediamo lui bambino, che suo padre già allena a picchiare tenendolo a distanza col braccio teso e la mano piazzata sulla fronte del ragazzo, in modo che il campione in erba tiri al vuoto senza poter colpire il padre/avversario mai. Qui impariamo che nella boxe si tiene la distanza mediante il corpo a corpo: immagine concreta del conflitto come l’altra ne comunica il disegno simbolico.
La fotografia accanto al titolo è di Roberto Cavallini