A centocinquanta anni dalla morte
Attualità di Manzoni
La predilezione di Belli e Leopardi per l’autore dei “Promessi Sposi” e i parallelismi tra “L'affaire Moro” di Sciascia e la “Storia della colonna infame”. Anche “Paese d’ombre” di Giuseppe Dessì, Premio Strega nel 1972, evoca “La storia nell’arte di Alessandro Manzoni”, tesi di laurea dello scrittore sardo
«È un libro che bisogna leggere dopo i cinquant’anni». Così amava ripetere Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Anche se non è possibile sapere se, durante la stesura del Gattopardo, li abbia letti, è certo che il grande romanziere siciliano teneva in grande considerazione i Promessi Sposi. Ma andiamo con ordine. È nota la predilezione di Belli. Il poeta romano conobbe il romanzo di Manzoni durante il primo viaggio a Milano nell’estate del 1827, o poco poi. Del 1827 è l’edizione dei Promessi sposi appartenuta al Belli e della primavera-estate dell’anno seguente dovrebbe essere l’indice che se ne legge ai numeri 916-920 dello Zibaldone. Sulla guardia del terzo volume si legge «questo è il primo libro del mondo» e su tutti e tre i frontespizi un emistichio di Dante, Inf. V, 9 «E quel conoscitor…», che vuol essere tributo di ammirazione al Manzoni come indagatore e giudice dei vizi dell’animo umano – le «peccata». A quella lode è forse riportabile anche la postilla di poche parole illegibili, in margine alla lista dei processi agli untori nell’ultimo capoverso del cap. XXXII – su cui indugia anche l’indice dello Zibaldone, con la voce «supplizi, barbarie, inciviltà» – dove è il proposito di scrivere la Storia della colonna infame. E appunto nella Storia della colonna infame il proposito manzoniano di riferire e mettere insieme i particolari d’un «celebre delirio» troverà la sua superiore giustificazione nella ricerca di una risposta a un interrogativo angoscioso sulle cose di quaggiù, non estraneo a Belli.
A proposito di Leonardo Sciascia è appena il caso di ricordare che ha scritto una introduzione alla Storia della colonna infame dove ha dichiarato, tra Verri e Manzoni, di sentirsi «più vicino al cattolico», al suo sforzo per ricondurre alla responsabilità umana un «celebre delirio», un complesso di fatti atroci che a tutta prima poteva sembrare soltanto un prodotto dei tempi, e ha rivissuto il suo dramma nel dramma di Manzoni, la sua crisi nella crisi spirituale che aveva portato lo scrittore ad abbandonare il romanzo per la storia: «Se dieci anni prima mi avessero detto che Moro avrebbe cambiato la mia vita avrei riso: invece è stato così. Dopo la morte di Moro io non mi sento più libero di immaginare. Anche per questo io preferisco ricostruire cose già avvenute: ho paura di dire cose che possono avvenire».
Si può dire che L’affaire Moro svolge, nel contesto dell’opera di Sciascia, la stessa funzione di quell’altro romanzo-inchiesta che è per lo scrittore siciliano la Storia della colonna infame, richiamando in proposito la lucida intuizione del grande romanziere siciliano quando scrive che «se i Promessi Sposi è come un fiume che scorre alla foce, in tutto il suo corso segnato sulla mappa della fede, la Storia della colonna infame ne è la derivazione imprevista, l’ingorgo, il punto malsicuro del fondo e delle rive. La ragione per cui il Manzoni espunge dal romanzo la Storia non è soltanto tecnica. La ragione è che nei documenti del processo, sull’analisi e le postille del Verri, Manzoni entrò, per dirla banalmente, in crisi».
Dunque, dopo Belli e Manzoni, Sciascia e Manzoni. E così tanti altri. Ma ho fatto in proposito una piccola scoperta, la tesi di laurea che Giuseppe Dessì discusse presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Pisa nell’anno accademico 1935-1936 intitolata La storia nell’arte di Alessandro Manzoni. Forse le pagine più significative di quella tesi – e già l’epigrafe proustiana ci indirizza in questo senso – sono quelle dedicate a Ermengarda, al problema del tempo, la «prospettiva di tempo», l’«atmosfera di tempo», la memoria proustiana, il passaggio dall’ideogramma all’alfabeto. Ma certo dal punto di vista dello sviluppo di quel leit-motiv che da San Silvano arriva a Paese d’ombre, le considerazioni più interessanti sono quelle che riguardano il libro di Angelandrea Zottoli, Umili e potenti nella poetica del Manzoni, che Dessì riprende perché si pone il problema del rapporto tra realtà e fantasia, di quella linea di confine tra la poesia e la storia che il Manzoni aveva cercato di segnare con tanta nettezza e che a un certo punto ondeggia e minaccia di svanire, proprio quando, abbandonando l’originario proposito di scrivere un dramma su Spartaco, lo scrittore si avvia alla lenta elaborazione dei Promessi sposi.
«Abbiamo già ricordato – scrive Dessì con riferimento al noto passo manzoniano nel secondo capitolo del Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia –un’osservazione dello Zottoli che fa rilevare in quali condizioni si trovasse lo spirito del poeta all’uscire dall’indagine storica. Di fronte al triste ma portentoso fenomeno di quella immensa moltitudine d’uomini, tutta una serie di generazioni, che passa sulla terra, sulla sua terra, inosservata, senza lasciar traccia, “la coscienza del Manzoni rimaneva commossa… e la vista che non sapeva staccarsene ancora tentava di penetrarne in qualche modo il mistero” […] Anzi, sempre secondo lo Zottoli, per il Manzoni “l’unica storia che abbia vera importanza è la storia di coloro che non hanno lasciato traccia nella storia”, coloro che non hanno storia individuale, possiamo aggiungere, e che, se hanno lasciato una traccia del loro passaggio sulla terra e nel tempo, questa traccia è come quella lasciata da un torrente».
In questo brano sembra già prefigurata la vicenda del racconto Paese d’ombra, della fiumana di pietre che passando per le mani di generazioni lontanissime scende entro la forma sempre uguale delle povere case: «Questa è la frana che travaglia Ruinalta e costituisce la sua vera, immutabile storia. E quando si pensa, fantasticamente, alla sua lenta discesa attraverso le case e gli uomini, verso la valle, non si può fare a meno di pensare, nella dissoluzione della materia, che questo è un paese d’ombra, di fantasmi di case; e che queste viti, questi alberi di fico, questi vasi di basilico, questi rosai selvatici dei piccoli cortili, e i polli, i bambini, la biancheria stesa altro non sono che forme labili posate come farfalle su questa materia inconoscibile. Bruni uguali ciottoli a forma d’uovo colati dalla spaccatura della montagna come i semi da un frutto». In questo brano soprattutto sembra già preannunciato il romanzo vincitore del Premio Strega, Paese d’ombre.