Al Teatro della Pergola
Surreale Arrabal
Da Breton a Tzara, da Ionesco a Beckett («che detestava l'etichetta "teatro dell'assurdo"»), dal franchismo («che mi impediva di respirare») al surrealismo, Incontro con lo scrittore spagnolo Fernando Arrabal per i suoi novant'anni
Fernando Arrabal, spagnolo nato a Melilla in Marocco nell’agosto 1932, drammaturgo, poeta, narratore, pittore e regista, ha compiuto da poco 90 anni ed è considerato la modernità fatta persona, grazie al successo della definizione che ne dette Mel Gussow: “incarnazione delle tre icone della modernità, Surrealismo, Dada, Patafisica” cui lui tiene ad aggiungere il Movimento Panico, che fondò con Jodorowski e Topor. Vuole anche si dica che è “trascendente satrapo”, titolo assegnato dal Collège de Pataphisique e che ebbero anche molti anni dopo Eco, Fo, Baj e Baudrillard e ‘’quel giorno ebbi l’onore di averli tutti assieme a festeggiare a casa mia a Parigi’’. Incontrarlo oggi è un po’ incontrare il Surrealismo personificato con influenze degli altri tre movimenti, non solo perché si presenta sempre con una giacca orientale nera e oro, magari con ricamati alcuni draghi, e perché porta sempre due occhiali sovrapposti, quelli normali da vista e quelli superiori, sulla fronte, colorati, per una diversa visione interiore, appunto surrealista del mondo, ma anche perché con gli anni ha raggiunto una libertà di pensiero, una capacità di ricordare e raccontare libera, fatta di associazioni, di momenti diversi, di sovrapposizioni, di risposte che sembrano andare in direzione assai diversa della domanda, ma poi, magari, in extremis la recuperano e illuminano.
Ecco allora che rievoca la durezza e ferocia degli anni della guerra e del franchismo durato 40 anni se gli si chiede dei giovani d’oggi e quindi ricorda i suoi bellissimi incontri e il suo lavoro con Breton e Tzara, che “tra l’altro ho avuto la fortuna non mi abbiano mai espulso dal movimento”, per parlare poi all’improvviso della “modernità-delle-meraviglie che è la fortuna di chi vive oggi e ha l’occasione di poter sfruttare tutto quanto è stato esplorato, scoperto, liberato, rivoluzionato in tutti questi anni a partire in particolare dai quattro movimenti creativi e innovativi che ho avuto il piacere di vivere, quattro approcci follemente diversi ma che hanno avuto in comune e lasciano in eredità l’atto del creare rinnovando”.
Arrabal lo abbiamo incontrato a Firenze, ospite del Teatro di Toscana nell’ambito del progetto di alleanza tra teatri europei con la Pergola e il Théatre de la Ville di Parigi in testa, impegnati a confrontarsi per guardare al futuro lavorando per la trasmissione di esperienza tra attori di una generazione e i giovani della successiva in una commistione di lingue. È quel che accade nel grottesco e festoso, ridicolo e inquietante “Ionesco suite” costruito da Emmanuel Demercy-Mota su brani di cinque testi di Ionesco in cui recitano interpreti francesi cui si aggiunge ogni sera un diverso attore della scuola del Teatro di Toscana. La sera della prima il lavoro è stato presentato dalla figlia dell’autore, Anne France, la quale, a proposito del padre, ha parlato della “lotta col linguaggio, per rivelare il senso nascosto della condizione umana, come accade con Beckett o Adamov e Arrabal”. Quest’ultimo dice da parte sua: “Ho conosciuto Ionesco. Si capiva che tutta la sua vita, oltre la sua opera, soggiaceva alla poesia come accade di rado e come conferma lo spettacolo di Demarcy-Mota che abbiamo appena visto. Per questo dire che la sua è avanguardia è un confinarlo in un ghetto”.
Subito dopo parla allora di come un giorno dei primi anni ‘60, mentre era preso da una impegnativa partita a scacchi con Samuel Beckett “si presentò Susan, sua moglie con in mano un libro cercando di farglielo vedere. Ma Beckett, che deve muovere, non la guarda nemmeno. Lei aspetta, poi insiste più volte e alla fine riesce a mettergli sotto gli occhi una copia del volume appena uscito di Martin Esslin intitolato ‘Teatro dell’assurdo – Adamov, Beckett, Ionesco’, allora lo scrittore legge e esclama: teatro dell’assurdo, che assurdità!”, a ribadire come tali autori rifiutassero sempre qualsiasi etichetta come fuorviante e limitativa del loro lavoro.
All’improvviso riparla di Breton e sottolinea che citava molto Artaud, ‘’ma quando molti anni dopo gli chiesi cosa pensasse di lui mi rispose: È un ribelle per il nulla’’. Quando comincia a ricordare i suoi amici, le persone con cui ha lavorato, a partire da quelle già citate, esce l’elenco di tutti i grandi del Novecento da Picasso a Duchamp, da Dalì a Cocteau, da Warhol a Umberto Eco, da Artaud a Aleixandre, da Kantor a Fo e Bene, e così via, per concludere: “Non so davvero come faccio a continuare a vivere senza di loro, amici e maestri che mi hanno dato davvero tanto”. E subito dopo aggiunge: “La persona però che mi ha insegnato di più di tutte è stata a Ciudad Rodriguez, dove sono andato a vivere a 7 anni con mia madre, dopo che mio padre era stato arrestato e condannato a morte da Franco, anche se pare si salvò evadendo, ma noi non ne abbiamo mai saputo più niente. Era la mia maestra elementare suor Mercedes, donna religiosissima e che non sapeva nemmeno chi fosse Picasso, ma voleva tutti i suoi alunni diventassero degli scienziati e ci insegnava la disciplina, la geometria e l’aritmetica. Poi il resto lo fecero alle superiori i padri scolopi, ma quella è un’altra storia”.
È la storia, il paradosso che è all’origine di Arrabal scrittore iconoclasta e dissacratore, sempre aspramente antifranchista (come dimostra la sua famosa lettera aperta del marzo 1971 sulle atrocità del fascismo spagnolo indirizzata proprio a Franco e letta in teatro a Firenze da Vinicio Marchionne), eppure selezionato da ragazzo dal franchismo quale prototipo di quell’uomo nuovo che “ogni totalitarismo voleva creare fraintendendo Nietzsche. Alla fine di un concorso nazionale per bimbi superdotati scolasticamente fui tra i vincitori e avrei dovuto andare a frequentare un’apposita scuola speciale, ma mia madre, pur essendo franchista, con le sue ambizioni di eleganza e classe si oppose per mandarmi al migliore e più chic istituto di Madrid che era appunto un collegio di padri scolopi di S. Antonio, scuola di grande tradizione, dove avevano studiato Victor Hugo e Jacinto Benavente e dove cominciai i miei primi esperimenti di scrittura”. Lascerà poi l’accademia militare dove lo aveva iscritto la madre, inizierà a lavorare, quindi a studiare diritto all’università, ma nel 1954 va a Parigi “in autostop per vedere Brecht e la prodigiosa Hélène Weigel che ci incantava spennando un pollo in Madre Coraggio”. Lì si ammala di tubercolosi: “È il franchismo che mi impediva di respirare’’ dice e poi aggiunge: “ho avuto la stessa operazione al pneumotorace che ha avuto il Papa e lo rassicuro, perché a 90 anni non ne soffro le conseguenze”. A Parigi verrà accolto nel mondo degli esiliati suoi connazionali e scrive nel ’59 il romanzo che è forse la sua opera più nota, ‘’Baal Babylonia’’ da cui poi una decina di anni dopo trasse e diresse lui stesso il film ‘’Viva la muerte’’, titolo dell’inno anima nera del regime che uccise centinaia di migliaia di spagnoli antifranchisti. Nel ’67, durante un ritorno in patria per assistere alla messinscena di un suo lavoro, esclama e scrive “Merda alla patria” in una dedica che è l’occasione per arrestarlo, tenerlo in prigione quasi un mese e poi processarlo, nonostante le proteste di uomini di cultura di tutto il mondo e la pubblica difesa del poeta premio Nobel Vincente Aleixandre. Sarà solo dopo la morte di Franco, nel 1975, che anche in Spagna verrà accettata e celebrata la sua importanza.
Segnato dall’infanzia e dalla rigidissima educazione religiosa e franchista i suoi lavori sono frutto di quel dolore e della necessità di liberarsene, in un insieme di angoscia e tenerezza, incubo e stupore, tragedia e comicità grottesca che portano in superficie il senso dell’umano, dei sentimenti, spesso rovesciandolo come nella madre-vittima de ”I due carnefici” che col ricatto della sua bontà esprime una assoluta crudeltà. Ci sono le continue trasformazioni, l’assenza di ogni identità e certezza. Arrabal ha scritto: “Il mio teatro non è surrealista e non è soltanto realista: è realista ma comprende l’Incubo, che occupa un posto importante nella mia esistenza e quindi finisco per metterlo in ciò che scrivo. Spesso nel mio teatro le situazioni si modificano, i personaggi, le idee diventano intercambiabili, il mostro adombra la bellezza, il criminale racchiude in sé la santità, la vittima nasconde il boia’’. Ecco allora gli atleti in allenamento de “Il cimitero delle automobili” che si mutano in perfidi poliziotti, per non parlare delle continue metamorfosi interdipendenti de “L’Architetto e l’Imperatore di Assiria”, macabra festa onirica con una sua circolarità senza uscita su un’isola, quella dell’Imperatore in cui sbarca naufrago l’Architetto, che pare rimandare a “La tempesta” shakespeariana ma poi naturalmente deraglia e lievita in riti magici, erotici, grotteschi frutto di una sorta di partita a scacchi tra i due. ”Nulla è umano se non è confuso, se non è amore e tragedia – ribadisce oggi – e io faccio un teatro realista che rappresenta questa confusione”, costruendo testi con ferreo rigore strutturale e stilistico per una resa esemplare e di sicura evidenza eversiva di quella che potremmo dire l’ingiustizia della ragione, con radici nel barocchismo letterario classico spagnolo. “Io scrivo i miei lavori teatrali come si ordina una cerimonia – ha dichiarato una volta – con la precisione di un giocatore di scacchi e nello stesso tempo, dò la preferenza a un panico effimero, dove il teatro si esprime per mezzo di un delirio che non ha rapporti con la tecnica”.
Alle spalle oggi ha, oltre a tanti quadri e sei film (da “Viva la muerte” del 1971 a “Addio Babilonia” del 1992) più alcuni cortometraggi, 14 romanzi a cominciare da “Baal Babylonia” a “Il funerale della sardina” o “La mattatrice del Giardino d’inverno” sino a quello che dice di star scrivendo ora; un migliaio di poesie, tra cui “Cento sonetti” del 1965; una produzione teatrale ricchissima dai titoli citati a “Fando e Lis” a “Preghiera”, da “Il labirinto” a “La scampagnata” o lo scandaloso “Il giardino delle delizie”, cui si aggiungono cinque libretti lirici, da “Apokaliptika” per musica di Milko Kelemen a “Guernica” per Costantinos Stylianou; una ventina di titoli di saggistica e, da ‘’Scacchi e miti’’ a ‘’bobby Fischer: il re maledetto”, quattro libri sugli scacchi. Racconta di avervi giocato anche con Pasolini, ‘’con cui non eravamo mai d’accordo su nulla e discutevamo moltissimo, ma devo a lui l’aver girato un mio film a Matera, dove, avendovi realizzato il suo ‘Vangelo’, mi invitò ad andare”. Poi in silenzio, come riflettendo, conclude: “Sono certo che lui oggi si trova nel paradiso dei pazzi, quello in cui spero di finire anche io un giorno e rincontrarlo”.
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Fernando Arrabal era ospite nell’ambito della collaborazione intitolata “L’attrice e l’attore europei” tra il Teatro di Toscana – La Pergola diretto da Marco Giorgetti e il Théatre de la Villee diretto da Emmanuel Demercy-Mota autore, assieme a alcuni intellettuali francesi, di una carta di intenti ”18/XX1” compilata appunto nel 2018, anno in cui è diventata maggiorenne la prima generazione nata nel nuovo millennio. Il lavoro tra attori oramai affermati e giovani allievi italiani e francesi è stato fermato dalla pandemia e ripreso lo scorso anno grazie all’impegno dei direttori dei due teatri: “Il lockdown e la malattia hanno messo in discussione l’idea di futuro – sottolineano – e con l’isolamento e le incertezze anche le capacità di solidarietà, per cui va ribadito il ruolo della cultura, dell’arte e dell’artista come fondamentale per mantenere vivo il legame sociale, per sviluppare le forze dell’immaginazione, per rendere possibile la resilienza collettiva e individuale”, anche contro “i ripiegamenti su se stessi di molti”. A queste due istituzioni promotrici si stanno aggiungendo responsabili di palcoscenici spagnoli, tedeschi, greci, rumeni, ma soprattutto si sta allargando la collaborazione con i paesi nord africani e sub sahariani “nel nome di principi quali l’ambiente, l’eguaglianza, la salute e l’idea che la ricchezza dei popoli è nel mettere in contatto la loro pluralità e diversità”, come sottolinea Giorgetti. Prossimi appuntamenti a Firenze per la Festa d’Europa il 7 e 8 maggio e poi a Parigi il 21 e 22 dello stesso mese con spettacoli e incontri.
Le fotografie sono di Paolo Petroni