A cento anni dalla nascita
Su Cristina Campo
Note – attraverso brani delle sue opere – intorno alla grande poetessa e traduttrice del nostro '900 non ancora abbastanza conosciuta. Vittima di un pregiudizio letterario che ha accomunato le scrittrici del secolo scorso, deve la sua notorietà tra i lettori di poesia alla meritoria diffusione dei suoi testi, dalla fine degli anni Ottanta
Io vorrei scrivere certi versi che ho in mente da tanto tempo. Una specie di Cantico dei cantici rovesciato. “Andrò per le piazze e per le vie, cercherò quelli che nessuno ama”. “O tu che dimori nei giardini, non farmi udire la tua voce”. Vorrei scriverlo nella lingua più moderna, quasi sul ritmo di un blues, e insieme dovrebbe essere solenne e puro – e anche qualcosa di terribilmente vivo – come un piccolo Goya. È il Cantico dei senza-lingua, come avrà già capito.
Cristina Campo è lo pseudonimo con il quale è ricordata Vittoria Guerrini, poetessa e traduttrice del nostro Novecento ancora non abbastanza conosciuta. Nata il 28 aprile 1923 a Bologna, era figlia del musicista Guido Guerrini e della aristocratica Emilia Putti; compì studi privati a causa di una patologia cardiaca che rese la sua salute cagionevole. Assente dalle antologie poetiche del Novecento è stata vittima di un pregiudizio letterario che ha accomunato le scrittrici del secolo scorso. La notorietà tra i lettori di poesia la deve alla meritoria diffusione dei suoi testi, a iniziare dalla fine degli anni Ottanta, da parte della casa editrice Adelphi.
Cristina Campo è un nome parlante, anche se in un’intervista rilasciata alla radio svizzera, pochi giorni prima della morte, volle sviare ogni interpretazione. Cristina significa “Portatrice di Cristo”, il cognome Campo potrebbe riferirsi ai campi di dolore, i campi di concentramento creati dagli uomini. Descritta come capricciosa e misteriosa, maestra delle maschere, la ricerca di noms de plume dovette essere un gesto di pudore verso se stessa e un modo per sfuggire a ogni genere di pubblicità. Nelle lettere agli amici, in parte pubblicate, si firmava il più delle volte Vie, come la chiamava Leone Traverso, suo compagno dal 1947 al 1955. Tra il 1956 e il 1960, parallelamente a una trasformazione interiore, si definisce dietro la maschera definitiva di Cristina Campo: firma usata per la prima volta su «Paragone Letteratura» la prestigiosa rivista diretta dalla coppia Roberto Longhi – Anna Banti, fondata nel 1950.
Dopo la fanciullezza bolognese, si può spartire la sua breve vita in due periodi. Il periodo fiorentino, seguito alla nomina, nel 1928, del padre a direttore del conservatorio Luigi Cherubini e il romano che va dal 1955 al 1977, anche questo determinato dal trasferimento nel 1951 di Guido Guerrini per dirigere il conservatorio di Santa Cecilia. A Firenze Vittoria maturò la sua formazione, frequentando grandi scrittori come il poeta Mario Luzi e il narratore Tommaso Landolfi; critici letterari quali Giuseppe De Robertis e il già ricordato Leone Traverso, che le fece scoprire la poesia di Hofmannsthal, del quale diventerà un’eccellente traduttrice. La consuetudine con l’intellettuale e psicanalista Gianfranco Draghi le permise di ricevere in dono La pesanteur et la grace di Simon Weil. Vittoria sposò il mondo di Weil come perfettamente congeniale alla propria visione dell’arte e preparatorio alla propria conversione religiosa.
È stato un bene lasciare Firenze. Troppe cose, lassù, erano ancora di un “tempo ricco”. Amo Roma soprattutto perché mi insegna che il nostro non lo è più – parlo di Roma Metropoli, dei grattaceli di fronte a casa mia – e soprattutto di luoghi come il viale Pretoriano – caserme, ospedali, un cimitero senza confini e le più brutte e nuove chiese del mondo.
Roma rappresentò la città nella quale col nome “artificiale e connaturato” di Cristina Campo fece nuovi incontri, primi tra tutti con Ignazio Silone, Maria Zambrano, Corrado Alvaro ed Elémire Zolla: «accanto a lui dal 1960, e fino alla morte, Vittoria visse e creò la sua opera», come testimonia Margherita Pieracci Harwell. Nella nota biografica che accompagnava un suo libro, diceva di sé, usando la terza persona: «Ha scritto poco e le piacerebbe avere scritto meno». Le sue parche pagine in prosa e in poesia, tra le più alte della seconda metà del secolo scorso, sono state paragonate a quella di Caterina da Siena, Eloisa del Paracleto, Emily Brontë, Emily Dickinson, Teresa d’Avila, Anna-Caterina Emmerick, Marina Cvetaeva e soprattutto di Simone Weil. Possiamo dire che la sua smilza produzione fu inversamente proporzionale alla profonda meditazione sui testi prescelti per una crescita spirituale e letteraria, per una ricerca della perfezione tecnica quale medium di sapienza:
A chi tornerà in mente che il fine ultimo di quei grandi saggi per una teoria dell’infanzia, di quelle preparazioni pianistiche alla morte, i 24 Studi di Federico Chopin, fu una irreprensibile disciplina delle due mani? Eterni, trasparenti fanciulli corrono tra stille di sole e frecce di verde per un eterno, trasparente giardino; i morti risorgono teneri e terribili, l’amore misura il proprio abisso, un popolo si ammanta di lutto. E l’intero miracolo riposa sul più casto degli intenti: flettere il polso almeno 600 volte, irrobustire l’articolazione del quarto dito.
I maggiori interessi inizialmente furono rivolti alle traduzioni: Una tazza di tè e altri racconti di Katherine Mansfield nel 1944, e Poesie nel 1948 di Eduard Mörike, introdotto in Italia con una edizione con testo a fronte, chiusa da una nota della traduttrice: «Alla voce Eduard Mörike – solitario e purissimo cantore svevo – nessuna audibile eco aveva risposto sinora in Italia. Tra noi, solo ai cultori di letteratura germanica e agli appassionati di musica è veramente familiare». Nei primi anni Cinquanta, a Firenze lavorò a un libro per diffondere in lingua italiana il nome di scrittrici di tutti i tempi: L’antologia delle ottanta poetesse, che misteriosamente non vedrà mai la luce. Fu progettato durante una vacanza a Forte dei Marmi nell’estate del 1951 insieme all’editore Casini di Roma, e preparato con Remo Fasani, Mario Luzi, Gabriella Bemporad e Leone Traverso con un impegno che durò due anni. Resterà un’opera inedita, e introvabili i manoscritti con molte traduzioni della stessa curatrice. In una lettera a Fasani scrive: «Il libro procede bene, ormai ha più di 200 pagine che stampate saranno forse 250». Ancora nel 1956 ne parla a Margherita Pieracci Harwell che testimonia di aver ricevuto in dono dall’amica diversi libri, tra cui quelli di «tutte “le [sue] donnine”, le ottanta poetesse, con qualche cavaliere degno come Maurice Scève». Le potesse individuate nell’elenco apparso nella scheda di presentazione del libro sono sessantatré, non ottanta, e vanno da Saffo a Simone Weil. Alcune rappresentanti italiane sono Caterina da Siena, Santa Umiltà, Vittoria Colonna, Gaspara Stampa, Veronica Franco:
Una raccolta mai tentata finora delle più pure pagine vergate da mano femminile attraverso i tempi. Versi, prose, lettere, diari, scritti rari o mal conosciuti, nuove scelte e traduzioni di testi famosi. L’incomparabile forza e semplicità della voce femminile, sempre nuova nella sua freschezza, sempre identica nella sua passione, vibra da un capo all’alto di questo vasto e pure intensamente raccolto panorama di poesia, dalla scuola di Saffo alla Cina classica, dal Giappone dei Fujiwara al deserto premaomettano, da Bisanzio al Medioevo, dal Rinascimento al secolo XVIII, dal grande Romanticismo ai nostri giorni.
Assenti nostre scrittrici degli ultimi secoli, perché, come aveva sostenuto in una recensione alla poesia di Maria Luisa Spaziani – alla quale aveva dedicato alcuni mesi prima Biglietto di Natale a M.L.S. ‒: «Dai giorni miracolosi di Gaspara Stampa si stendono fino a noi quattro secoli, quasi deserti, in Italia, di poesia femminile. Solo la visionaria voce di Luisa Giaconi e quella gracile e perigliosa di Antonia Pozzi segnano di una vita indubbia l’ultimo tratto».
“Luglio 1953” è la data che si trova in calce al saggio dal titolo ispirato a Weil: Attenzione e poesia che costituisce un punto essenziale della poetica di Campo e sul quale ritornerò. Nel 1954 presenta, sul quarto fascicolo della rivista «L’Approdo», A writer’s diary: being extracts from the diary of Virginia Woolf, una selezione del diario della scrittrice, raccolta dal marito Leonard Woolf (London, Hogarth press, 1953). La recensione rappresenta l’esordio, con ancora il suo nome di battesimo, sulla rivista stampata dalle edizioni torinesi della radio italiana; e il preludio alla sua traduzione del Diario, condotta insieme a Giuliana de Carlo, per Mondadori nel 1959.
Negli stessi anni prende forma l’esile raccolta di versi di Cristina Campo. Il volume, sembrava non essere destinato alla stampa, ma alla lettura di pochi amici, consapevole di comporre una poesia per un pubblico non ampio. Il pensiero e lo stile della raccolta hanno un’impronta originale, pur derivando da un fitto e complesso dialogo con i poeti tradotti. Per Campo la bellezza di un testo si coglie prima del significato, è un concetto presente anche a Ungaretti lettore di Mallarmé, che Campo spiega bene: «Sentire la giustizia in un testo molto prima di averne compreso il significato, grazie a quel puro timbro che è solo del più nobile stile: il quale a sua volta nasce dalla giustizia». Il titolo non è casuale, Passo d’addio: l’ultimo spettacolo che una ballerina compie da allieva prima di congedarsi dall’accademia; per la scrittrice è probabilmente la fine di una parte della sua vita, e l’inizio di una nuova. I versi di Eliot, in esergo, sono inequivocabili: «For last year’s words belong to last year’s language and next year’s words await another voice» (Four quartets, Little gidding II, vv. 65-66).
Le undici poesie, scritte tra il 1954 e il 1955, non hanno un titolo, sono poste all’interno della raccolta senza un ordine cronologico e in modo apparentemente casuale. Solo la prima poesia formata da tre terzine è del 1945:
Si ripiegano i bianchi abiti estivi
e tu discendi sulla meridiana,
dolce Ottobre, e sui nidi.
Trema l’ultimo canto nelle altane
dove sole era l’ombra ed ombra il sole,
tra gli affanni sopiti.
E mentre indugia tiepida la rosa
l’amara bacca già stilla il sapore
dei sorridenti addii.
Una poesia che sembra attestare una precoce frequentazione di John Donne; soprattutto i versi «dove sole era l’ombra ed ombra il sole / tra gli affanni sopiti» richiamano quella Lezione sull’ombra delle Poesie amorose che Campo tradurrà negli anni Cinquanta e che confluiranno nell’edizione Einaudi del 1971. Leggiamo la pima strofa che ci aiuta a introdurre Passo d’addio:
Ferma, amore: ti darò una lezione
sulla filosofia d’amore.
Tu ed io, queste tre ore,
passeggiammo e innanzi a noi due ombre,
opera nostra, andavano con noi.
Ma ora che il sole è a picco su di noi,
siamo diritti sulle nostre ombre
e ogni cosa è ridotta a luce coraggiosa.
Così, mentre crescevano
i nostri amori bambini, crescevano
le finzioni, proiettando ombre
su noi e su ogni nostra cura. Fino ad ora.
Passo d’Addio è un breve canzoniere, legato da fili tematici che danno continuità a poesie nude, rigogliose, taglienti che raccontano la sofferenza e il giubilo dell’animo nel passare da “laggiù ad ora”, prima di compiere il passo d’addio. Parallela prosegue l’opera di traduzione degli scrittori di cui si è nutrita: Dickinson, Eliot, Lawrence, Weil, Murena, Williams, Herbert, Crashaw, Vaughan, San Juan de la Cruz, Efrem Siro, Wilson, e, come ho accennato, la grandiosa versione delle poesie amorose e teologiche di Donne. Il lavoro traduttorio di Cristina Campo rientra in quel progetto di apertura alle letterature straniere che dà spessore al ruolo delle riviste in Italia negli anni Cinquanta e Sessanta dello scorso secolo. Più che la quantità colpisce l’impegno profuso in traduzioni inedite, condotte appositamente per alcune testate come «L’Approdo», da studiosi di vaglia o da riconosciuti poeti, con lo sguardo sempre aggiornato sulla produzione estera sia in lingua che in versione italiana e sulle inchieste culturali condotte dai periodici fuori confine. Sono proposti, in prime traduzioni, brani antologici di opere originali appena pubblicate dei maggiori scrittori dell’Ottocento e Novecento europeo, nord-americano e dell’America latina.
Il favore che acquistano in questi primi anni Cinquanta le traduzioni è il segno dell’interesse del nostro Paese verso gli scrittori stranieri. Se fino a trenta o anche a venti anni prima una élite di appassionati leggeva nella lingua originale le opere d’oltralpe, ora, con l’affacciarsi di un pubblico più vasto, si rendono necessarie versioni tradotte. A sostenere questa tesi è Carlo Bo che sulle pagine dell’«Approdo» illustra l’inaspettato successo della traduzione in tre volumi della Recherche di Proust stampata da Einaudi nel 1974. Possiamo aggiungere che si stava realizzando una delle missioni che la radio prima e poi la televisione si proponevano: educare democraticamente gli italiani alla conoscenza della propria lingua e letteratura, strumenti che avrebbero permesso di avvicinarsi alle opere di altre nazioni. Campo è presente nel 1961 (fasc. 2-3) con la traduzione di alcune poesie del trentaseienne argentino Hector Murena tratte dalla raccolta El escandalo y el fuego, mentre collabora a puntate letterarie trasmesse sia sul Programma nazionale sia per il Terzo Programma.
Ancora tra il 1960 e il 1961 sull’«Approdo Letterario», che poteva contare su Carlo Betocchi e Leone Piccioni come redattori, appaiono due suoi scritti che costituiranno una parte rilevante del suo secondo libro, Fiabe e mistero(1962). Il primo, intitolato Diario d’agosto è composto da frammenti che hanno come modello brevi prose di Simon Weil trascelte da Gustave Thibon dai Cahiers della filosofa, e raccolte nel volumetto La pesanteur et la grâce(Paris, Plon, 1947). Queste di Diario d’agosto sono riflessioni di poche righe che partono da una frase famosa o, viceversa, da un pensiero personale rafforzato da una citazione. Era stato il suo Eliot a scrivere nei saggi pubblicati nel 1920: «Nessun poeta, nessun artista di qualsiasi arte ha il suo completo significato in uno spazio esclusivamente proprio. Il suo significato, il suo apprezzamento deriva dall’apprezzamento della relazione con i poeti e gli artisti morti. Non può avere un significato a sé stante. […] ciò che accade quando una nuova opera d’arte è creata è qualcosa di simultaneo che accade con tutte le opere d’arte che la precedono». Campo riprende dai grandi tragici alla Bibbia, da Dante a Shakespeare, dalle poetesse rinascimentali a Weil non solo per dipingere una propria biblioteca ideale e reale, ma per esprimere le sue verità sulla scrittura, la critica, ma soprattutto la poesia, con asserzioni precise e incisive:
Saveur maxima de chaque mot. Riflettendo a questa parola mi è parso che a tale massimo di sapore occorrano gli elementi riuniti della forza vitale e di quella spirituale: violenza e dolcezza, lentezza e rapidità, imprevisto e inevitabile, radicamento e leggerezza. Il massimo del sapore non lo gustiamo mai nelle parole rare o in quelle del costume […] – ma nelle pure e originarie – nel reale – quando siano sospinte dalla forza vitale come da una matrice e sboccino nella chiarezza dello spirito come fiori.
Un approfondimento della stessa visione così oppositiva e dualistica ‒ che preannuncia con lucidità temi sviluppati da Italo Calvino, anche lui del 1923, nelle celeberrime Lezioni americane ‒ lo ritroviamo nel secondo saggio, Attenzione e poesia, decisivo, come accennavo, per comprendere il costituirsi della poetica di Campo attraverso la lettura e la traduzione di Weil:
Nei vecchi libri è dato spesso all’uomo giusto il celeste nome di mediatore. Mediatore fra l’uomo e il dio, fra l’uomo e l’altro uomo, fra l’uomo e le regole segrete della natura. Al giusto, e solo al giusto, si concedeva l’ufficio di mediatore perché nessun vincolo immaginario, passionale, poteva costringere o deformare in lui la facoltà di lettura. «Et chaque être humain (e si potrebbe aggiungere: et chaque chose) crie en silence pour être lu autrement». […] . Qui poesia, giustizia e critica convergono: sono tre forme di mediazione. […] Poesia è anch’essa attenzione, cioè lettura su molteplici piani della realtà intorno a noi, che è verità in figure. E il poeta, che scioglie e ricompone quelle figure, è anch’egli un mediatore: tra l’uomo e il dio, tra l’uomo e l’altro uomo, tra l’uomo e le regole segrete della natura. […] Dante non è, per quanto scandaloso possa suonare, un poeta dell’immaginazione, ma dell’attenzione: vedere anime torcersi nel fuoco e nell’olivo, ravvisare nell’orgoglio un manto di piombo, è una suprema forma di attenzione, che lascia puri e incontaminati gli elementi dell’idea. L’arte d’oggi è in grandissima parte immaginazione, cioè contaminazione caotica di elementi e di piani. Tutto questo, naturalmente, si oppone alla giustizia (che infatti non interessa all’arte d’oggi). […] L’attenzione è il solo cammino verso l’inesprimibile, la sola strada al mistero. Infatti è solidamente ancorata nel reale, e soltanto per allusioni celate nel reale si manifesta il mistero. I simboli delle sacre scritture, dei miti, delle fiabe, che per millenni hanno nutrito e consacrato la vita, si vestono delle forme più concrete di questa terra: dal Cespuglio Ardente al Grillo Parlante, dal Pomo della Conoscenza alle Zucche di Cenerentola.
Nel volume che oggi raccoglie le sue poesie, alle undici di Passo d’addio e alle sei di Quadernetto ne seguono tredici sotto il titolo Poesie sparse, stampate in varie riviste, soprattutto in «Coscienza religiosa», fondata e diretta da Elémire Zolla. Su quest’ultima appare nel 1969 il componimento scritto per la morte dei genitori ed eponimo del volume:
La Tigre Assenza
Ahi che la Tigre,
la Tigre Assenza,
o amati,
ha tutto divorato
di questo volto rivolto
a voi! La bocca sola
pura
prega ancora
voi: di pregare ancora
perché la Tigre
la Tigre Assenza,
o amati,
non divori la bocca
e la preghiera…
Campo, per dare oggettività ai sentimenti, unisce parole concrete a parole astratte. Qui la lacerante assenza dei genitori, è trasmessa dalla ferocia della tigre. Se la tigre dilania senza pietà i corpi delle proprie vittime, l’assenza dei propri amori produce gli stessi effetti. Campo, dantescamente, chiede ai genitori che intercedano perché la Tigre Assenza le lasci almeno la bocca per pregare. Le ultime sei composizioni uscirono nel 1977 sulla medesima rivista poco dopo la sua morte; per queste, di lunghezza diversa, che segnano l’ultima fase della sua produzione in versi, la scrittrice aveva preparato con attenzione alcune note, introdotte da un’avvertenza:
Per chi non abbia familiari i riti e gli usi della Chiesa cristiana d’Oriente (soprattutto la bizantino-slava di cui si tratta qui) sembra necessaria qualche nota, sia sugli inserti liturgici bizantini e latini, sia sui riferimenti scritturali, soprattutto alcuni passi di san Paolo che legano l’una all’altra, in un modo o nell’altro, tutte le poesie.
Le citazioni sono riprese dai seguenti libri di Cristina Campo:
La Tigre Assenza, a cura e con una nota di M. Pieracci Harwell, Milano, Adelphi, 1991
Gli imperdonabili, Milano, Adelphi, 1987
Sotto falso nome, a cura di M. Farnetti, nuova ed. ampliata, Milano, Adelphi, 1998
Lettere a Mita, a cura e con una nota di M. Pieracci Harwell, nuova ed. riveduta e ampliata, Milano, Adelphi, 1999
Un ramo fiorito, a cura di M. Pertile, Venezia, Marsilio, 2010