Gabriel Del Sarto
Ceppo Poesia 2023 in tre parole /4

Sindrome, Umanità Futuro

Verità dell’esperienza, creaturalità, essere vivi «in una sfera che germoglia»… Di questo si compone “Sonetti bianchi” di Gabriel Del Sarto, raccolta di prose brevi e di poesie che ripropongono, con variazioni metriche e ritmiche importanti, la forma classica del sonetto. Tra i finalisti che il 7 maggio saranno votati a Pistoia

È Gabriel Del Sarto a scandire oggi in tre parole-chiave il suo “centro di gravità” poetico. Con Sonetti bianchi (L’Arcolaio Edizioni) è uno dei tre finalisti al Premio Internazionale Ceppo Poesia – presieduto e diretto da Paolo Fabrizio Iacuzzi – che il 7 maggio vengono votati dalla Giuria dei Giovani lettori. Come scrive Michele Bordoni nella motivazione, il poeta vince «per la composizione di un’opera in grado di “tenere insieme l’Altro, sé stessi, infine la lingua, col filo della ferita”». (www.iltempodelceppo.it).

***

Sindrome
Poco, nella vita, è paragonabile alla realtà generata da una sindrome di tipo genetico. È l’etimologia stessa a spiegarlo, a dirci che essa sarà la compagna costante della tua strada. Composta infatti di due parole, “con” e “corsa” (quindi “corsa insieme”), in senso stretto ogni sindrome genetica, ti spiegano subito a scanso di equivoci, non è una malattia, perché dalle malattie si può guarire. Dalle sindromi, almeno per quello che sappiamo fare oggi, no. Certo, c’è la speranza delle terapie geniche, ma riguarderà altri che verranno, forse. Quello che puoi fare, sensatamente, è decidere se accogliere un destino o rifiutarlo. In ogni caso, non si torna mai indietro, non esisterà più, per i genitori e per chi viene toccato da questo tipo di evento, un ritorno. C’è un prima e un dopo. Nel momento in cui scegli, affermi anche qualcosa sulla tua idea di libertà. La serietà dentro cui cade la notizia che ricevi, permette poche variazioni stilistiche. Perlomeno in prima battuta non puoi che raccontare. Per questo il mio libro è formato anche da prose non-poetiche (almeno nelle intenzioni) semplicemente narrative, che sono piccole scene di un racconto, quello che serve credo, per rendere l’evento, le scelte e le fatiche che implica, come quella di assumere una posizione netta di fronte al futuro. Come dico a un certo punto: «Fu importante inventarsi un pavimento, lì per lì, per evitare di cadere». La caduta, d’altronde, è il rischio perenne di chi corre, e questa corsa ha equilibri assai precari e delicati, in bilico fra l’amore e la disperazione, fra la grandiosità e il non senso della ripetizione mortifera. Difficile dire, scrivere, di questi equilibri, perché le retoriche da cui siamo circondati sono in agguato. Le retoriche sono un peccato contro lo spirito da sempre, ma nel nostro tempo mi pare abbiamo intensificato la forza della loro azione. Le retoriche manipolano, corrodono, corrompono, soffocano la parola libera, assediandola immediatamente con i distinguo, le posture, le posizioni. Cosa intendo dire? Basti un esempio: un figlio come il protagonista di Sonetti bianchi o non nasce o è definito speciale, in definitiva è schiacciato fra due retoriche. Mi interessa la seconda, la retorica della bontà. Si può stare un po’ al gioco stucchevole ma in fin dei conti amoroso quando se ne parla fra amici, ma il più delle volte questa modalità è un inganno che intende nascondere la fatica della “corsa insieme”, impedisce di guardare la realtà fissamente e infine banalizza le scelte di chi comunque ha accolto ciò che viene. Ecco perché la prima difficoltà che ho dovuto affrontare è stata questa: rendere in modo onesto, si potrebbe dire autentico, la corsa che è stata data in sorte ai protagonisti del libro. Liberare, per quanto possibile, l’evento dalla pellicola di qualsiasi retorica, di qualsiasi buona intenzione, per recuperare, cosa che attiene alla poesia, un frammento di verità dall’esperienza. 

Gabriel Del Sarto

Umanità
Scriveva Bordoni, nella sua lezione al Ceppo due anni fa: «La carne è quasi il basamento in cui si dà l’emergenza visibile del mondo, il terreno che permette il contatto tra me e me […] tra me e gli altri». Questa idea di una base carnale, di un luogo concreto in cui si manifesta il contatto e si gioca l’identità umana in quanto creaturalità, è, mi pare, il punto di partenza del canto dei Sonetti bianchi. Si tratta di un corpo a corpo, come a un certo punto scrivo, proprio con l’altro che si ama: «sei tu, sono io, il vero centro / del lungo corpo a corpo, dell’inizio / che cerchiamo ovunque, necessario / e lontano». Il corpo a corpo, il combattimento, è ineludibile. L’io solo così, in questa lotta e grazie a essa, può essere preservato, salvaguardato da tutte le ideologie che lo vorrebbero distruggere. Ma essere preservato perché? Per quale scopo? Il resto di questi sonetti, soprattutto di quelli più armonici e esplicitamente musicali, è, mi sono accorto dopo averli scritti, un tentativo di rispondere a questa domanda. Ogni ritmo e ogni suono vorrebbe rimandare a una dimensione cosmica e inafferrabile della nostra esistenza, come tutto fosse il residuo di un’eco interstellare. Come se noi, in quanto creature, esistessimo solo dentro questa eco. Se così fosse, sarebbe vero quello che scrive Jankélévitch: «L’uomo, creatura intermedia, è un essere che diventa».

Futuro
Niente è più vicino alle stelle della genetica. I mondi che presto appariranno davanti agli occhi dell’umanità saranno spalancati, non senza un dolore di parto, da queste due frontiere: la genetica e il cosmo profondo. Da lì verranno i barbari e gli angeli. Per distinguerli forse ci sarà richiesto uno sforzo cognitivo, qualcosa che richiami la nostra attenzione più viva, il discernimento, in altre parole: la poesia. Non sarà semplice ma credo che chi potrà vivere quei momenti avrà molto da raccontare, poi. Come immagino questa prospettiva? Nel mio libro i segnali sono intermittenti, come piccoli flash o luci su uno sfondo cupo. L’infanzia, ad esempio, è uno dei perni su cui ruotano certe percezioni che propongo, vista come l’età nella quale ancora non sappiamo di essere orfani e, per questo, chiamati alla responsabilità verso tutte le cose e tutte le creature. In questa fase di inconoscenza si coagulano in noi, misteriosamente, desideri e sogni, ferite e profondità. Si deposita nella nostra carne l’inermità, ossia quella forma particolarissima del sapersi fragili e al tempo stesso spavaldi, che poi sperimenteremo dolorosamente anche nell’adolescenza. Il futuro vorrei fosse di chi, riposti i panni della voracità e della violenza, saprà riconoscersi in questa inermità che ci possiede, infanzia perenne di cui siamo la più alta notizia: «Come arbusti/marini, caro figlio mio, ignoriamo/le silenziose sinfonie stellari / che ci plasmano, grandiose e lontane / duplicando cromosomi sul niente / del più piccolo autosoma che segna / te e me, che siamo svegli siamo vivi / e verdi, in una sfera che germoglia». Un nuovo inizio è alle porte e bussa.

Facebooktwitterlinkedin