Nicola Fano
A cinquant'anni dalla morte

È sempre Picasso

Da Arlecchino a Guernica: qualche rapido suggerimento per godere del talento di Picasso, a cinquant'anni dalla morte: un genio di ogni tempo, un "classico" che si è sempre schierato contro la contemporaneità

È difficile parlare di Pablo Picasso in poche righe. Impossibile riassumere tutta la complessità di un genio che ha sconvolto i generi e le consuetudini della creatività. Che ha rivoluzionato il modo di pensare, inventare l’arte. Sicché dovrò limitarmi a qualche suggerimento. Qualche suggestione.

Picasso diceva: «Io non cerco, io trovo». Anzi, più esattamente diceva: «Quando dipingo, il mio scopo è di mostrare quel che ho trovato e non quello che sto cercando». Una maniera per contraddire ed esorcizzare quella mania, quella moda tutta novecentesca di fare arte “di ricerca”. Come se l’atto di cercare fosse garanzia di profondità. Picasso trovava soluzioni. E le trovava nel suo genio. O, se si preferisce, nel suo inconscio. Che usava come se fosse un inconscio collettivo. Senza colpe, senza nessuno da dannare e nessuno da salvare.

Picasso guardava un oggetto e in quell’oggetto trovava una forma. Una faccia, un toro, qualcosa che non aveva cercato ma che aveva trovato perché era già lì, nella realtà delle cose.

Quando inventò il cubismo con Braque, spiegò «il cubismo è un modo di guardare». Il problema era rompere i confini della cornice e portare lo spettatore dentro al quadro per fargli vedere il soggetto dipinto da punti di vista diversi, contemporaneamente. Di faccia, di profilo, di dietro…

Guardare è più importante che cercare. Emozionare è più importante che provocare. Ognuno, nei quadri di Picasso poi ci metterà del suo per cogliere il senso delle cose. Il senso della vita.

Picasso amava il teatro. Non solo perché nei suoi primi anni di Parigi andava tutte le sere in platea ad applaudire certi comici grassi e ignoranti. Ma anche perché aveva colto il segreto del teatro: togliere la maschera alle cose e metterle a nudo. Divertendosi, giocando.

Guardate il quadro qui accanto: si intitola L’acrobata blu, del 1931. È un individuo che trova un equilibrio dove chiunque altro cadrebbe per terra. Un equilibrio suo proprio che magari per gli altri non funziona.

E ora guardate questo affresco di Paolo Uccello, è il Monumento equestre a Giovanni Acuto nella chiesa di Santa Maria in Fiore di Firenze, 1436. Cinquecento anni prima! Il cavallo ha le due zampe di destra sollevate: se capitasse una cosa del genere nella realtà, il cavallo cadrebbe per terra. E pure il cavaliere, ovviamente. Paolo Uccello qui inventa un equilibrio dove chiunque altro cadrebbe a terra.

A Picasso piaceva molto Paolo Uccello: diceva che il cubismo era nato con La battaglia di San Romano, 1438. Quando fu chiamato dal direttore del Louvre ad esporre una sua opera accanto a un capolavoro di quel museo, Picasso scelse la meravigliosa tela di Paolo Uccello.

Il fatto è che Picasso voleva uscire dalla realtà e raccontare, dipingere direttamente le emozioni. Le emozioni di sempre, di tutti i tempi. Ossia slegate dalla contemporaneità. Lontane dal suo e dal nostro tempo presente. La fatica di vivere, lo sconcerto, la morte dell’innocenza, la fine delle illusioni: il futuro è che non c’è futuro, Guernica.

Picasso non era “contemporaneo”, come di direbbe oggi con un termine che va molto moda. Era un artista che coglieva il senso lungo dell’eternità, non quello breve della contemporaneità.

È morto cinquant’anni fa, l’8 aprile del 1973. Ma è ancora vivo. È sempre stato vivo, anche ai tempi di Paolo Uccello, all’inizio del Quattrocento. Sempre.


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