A proposito de “La vita incauta”
Aspettando Macbeth
Il nuovo libro di Rossella Pretto è a metà strada tra la saggistica, la poesia e la narrativa. Sulle orme di Macbeth, uno dei più controversi personaggi shakespeariani, nel segno del quale l'autrice va in cerca della sua propria memoria
A leggere La vita incauta di Rossella Pretto (Editoriale Scientifica, pagine 160, €13), originale versione contemporanea del più britannico dei generi (però anche un po’ francese), il personal essay, adottato di recente come abito letterario ideale da numerosi autori e autrici, si resta col fiato sospeso: a volte si hanno tuffi al cuore, non raramente si sperimenta un’ipossia da cuore in gola, o si sente il cuore tamburellare incontrollato nel petto, lanciato in una corsa a perdifiato, in un irrinunciabile inseguimento.
Sintomi non negativi: tutti segnali di un’adesione stupefacente che è dell’autrice in primis.
Prova comprovante ne è ciò che si legge a un certo punto a proposito del teatro ligneo londinese in cui William Shakespeare era attore, drammaturgo e azionista: “Che cos’era e che cos’è il Globe […] se non una grande O, una bocca spalancata, parlante, nel significato ripreso che rimanda […] al caos da cui tutto si genera attraverso una cosmogonia sonora che dà vita all’uomo trascrivendolo in semi, in segni inattingibili nel reale e che lo scagliano in un ordine altro, ulteriore, che si nutre dell’umano per significarlo altrove?”, cui segue, poco più in là il tocco magico, fatale: “questo teatro […] di personaggi […] di cui, dice Macbeth, non rimane memoria, o meglio, ne rimane se ricomposti tramite la parola poetica…”.
Di cosa si tratta? La vita incauta è un libro snello e denso, magnificamente articolato.
Il titolo proviene da un verso di Giovanni Raboni che, in un sonetto composto secondo lo schema shakespeariano (tre quartine e un distico finale), raffigura la vita umana come un teatro in cui non “ombre” ma “angeli e demoni in carne e ossa e da tutte le parti” infestano “la fossa e le quinte” mentre “nel foyer […] ferveva l’incauta vita”, esordendo così, “Mio male, mio bene, così vicini…”.
Rossella Pretto si è concessa l’inversione della formula raboniana, e questo credo abbia a che fare direttamente con la natura del suo libro in cui la prosa della ricognizione apre spazi cioè non nega campo all’evocazione e alle visioni.
In questo mirabile saggio, Rossella Pretto prende le misure di un’ossessione che la domina fin dal suo primo poemetto: Macbeth, nero eroe eponimo di una delle più nere tragedie di Shakespeare, che anima ombre in aggiunta al bene e al male, e agita incantesimi strangolanti e figure soprannaturali che si rivelano altrettanti fantasmi della mente, però poi prendono corpo, acquistano consistenza, guidano i pensieri e le azioni, in ossequio a una sanguinarietà che è della più nera (è il caso di ripeterlo) tradizione senechiana.
L’ossessione per Macbeth (dramma e personaggio) è dettata anche dal fatto che l’autrice ha avuto un nonno legato a Shakespeare, a T. S. Eliot (anche lui aleggia sul saggio in questione) e alla letteratura inglese: Elio Chinol, anglista di fama, autore di diverse traduzioni, tra cui appunto la tragedia dell’insaziabile usurpatore scozzese e di The Waste Land (traduzione del 1972, cinquant’anni dopo la prima edizione del poema, ora riproposta da InternoPoesia con due scritti di Rossella Pretto, e soprattutto con uno scritto dello stesso Elio Chinol che, forte di una lettera di presentazione appositamente scritta da Eugenio Montale, incontrò T. S. Eliot nel suo ufficetto presso Faber&Faber nell’estate del 1948, pochi mesi prima che al poeta fosse conferito il Nobel).
Dunque il libro è tutto tessuto sulla ricognizione della truce vicenda di Macbeth e sulla puntuale perlustrazione dei luoghi in terra di Scozia in cui le vicende del Re impostore per credulità e fame di potere si incrociano con le vicende di altri regnanti, segnatamente gli Stuart, a partire da Maria Stuarda e da suo figlio, Giacomo VI di Scozia, poi Giacomo I di Inghilterra, che volle, nello stemma, tradizionalmente dominato da due unicorni rampanti, sostituire quello di destra col leone rosso, simbolo inglese, per dare ipocrita conto di un’unione dei due reami avvenuta solo nella corona, ma mai accettata dai due popoli.
Rossella Pretto, zaino in spalla, si muove prendendo treni pullman traghetti, e venendo a contatto con la gente, esponendosi così anche a un incontro differito con le tre streghe che già avevano illuso Macbeth e infervorato la sua famelica Lady. E noi viaggiamo con lei tra Glasgow e Edimburgo, stazioni terminali del pedinamento: nel mezzo risaliamo verso Oban; poi da Craignure a Fionnphort; poi a Iona (pr.: eye+OH+nuh = aiOna), Ebridi (quindi Scozia) dove San Colomba (Colum Kille = Colomba della Chiesa), re irlandese da Donegal, (Ulster) fondò nel 563 l’abbazia benedettina (34 anni dopo la fondazione di Montecassino) in terra di Scozia; e poi proseguiamo sempre fedeli al suo seguito verso Inverness e Forres; per tornare infine alla caotica civiltà nella rumorosa Edimburgo, dove il pedinamento si conclude, e da cui, in un certo senso, la nostra guida d’eccezione, poeta dopotutto, fugge – non solo ha portato a termine il compito che si era data ma, avendo incamerato molti dati, avendo riempito gli occhi di molte suggestioni e visioni, avendo iperstimolato le inattese corrispondenze tra la propria ramificata biografia e le sollecitazioni raccolte durante la ricognizione, la nostra guida d’eccezione ha anche imparato che una onesta spassionata e ossessiva esplorazione è fatta anche di rinunce: qualcosa bisogna tralasciare.
Il dato (di letteratura) rilevante di questo saggio, che molto è raccontato ed è evocativo, sta nel fatto che echi robusti della vicenda, o meglio dei tormenti di Macbeth, cucinato anche dalla sua inscalfibile complice, Lady Macbeth (che, osserva acutamente Rossella Pretto, non ha un suo proprio nome), accendono piste di meditazione e ricomposizione, e di radicale rievocazione e ricalibratura, che investono solidamente le vicende personali dell’autrice, e il suo rapporto col teatro e con la scrittura: si genera un monologo interiore contrassegnato dal corsivo quali altrettante intermittenze dell’immaginazione, fatte proprio della stessa sostanza cangiante dei sogni, passibili talvolta di esitare in incubi o sonnambulismi.
Si tratta del rovescio invisibile, qui irrefrenabilmente verbalizzato, o meglio ricomposto, di una più profonda ricognizione che svela legami, cioè ponti, tra i luoghi e i retroscena di Macbeth, il suo spirito, da un lato, e dall’altro tutto ciò che di lui e di diverso da lui, lei, l’autrice, speciale everywoman, evoca, ricorda, recupera, rivede, riconsidera.
E questo ci riporta a quella O di stupore a cui si alludeva all’inizio, che non a caso in inglese con termine onomatopeico è reso dalla parola AWE (pr.: Ò) che implica paura e soggezione.
Infine tutto considerato dobbiamo come lettori rivedere la (chiamiamola) classificazione di questa opera perché forse etichettarla solo come (pur fulgido) personal essay potrebbe non bastare: resta aperta la questione.
Accanto al titolo, Vittorio Gassman in “Macbeth“ (1993), fotografia di Tommaso Le Pera.