Raoul Precht
Periscopio (globale)

Scotellaro, l’eretico

Ritratto di Rocco Scotellaro, a cent'anni dalla nascita. Un intellettuale organico alla sua gente, ma non al Partito. Nella sostanziale "irregolarità" della sua esperienza di scrittore e di amministratore c'è il ritratto di un'Italia irrisolta

Per ricordare Rocco Scotellaro si può prendere come punto di riferimento il 19 aprile, centenario della nascita, o il 15 dicembre, che segna i settant’anni esatti dalla morte, avvenuta in quel giorno, appunto, del 1953. In entrambi i casi, per una vita così drammaticamente breve, due date che sembrano ormai lontanissime da noi, così come sembrano lontani, a prima vista, i temi sollevati da questo poeta, scrittore, politico e agitatore e le polemiche e le incomprensioni che ha dovuto affrontare, difendendosi anzitutto dal fuoco amico dei soloni del PCI di allora, che di questa variante un po’ troppo eccentrica e poco gestibile dell’intellettuale gramsciano che Scotellaro rappresentava non sapevano davvero cosa farsene.

Eppure, i vari Alicata, Amendola e Napolitano all’epoca misero – a modo loro, un modo, se mi si consente il gioco di parole, non misero, ma miserrimo – il dito nella piaga: cosa poteva mai apportare, al glorioso Partito Comunista, l’esempio di un intellettuale disorganico rispetto al partito e in odore di demagogia e pressappochismo politico com’era questo giovane focoso e troppo maturo, così in anticipo sui tempi, perfino pericoloso per chi sentiva di dover anzitutto pilotare la storia e farla circolare su binari già risaputi?

Ma facciamo un passo indietro. Scotellaro è anzitutto figlio di un Meridione dimenticato e negletto, e questo non va dimenticato. Nasce a Tricarico, in provincia di Matera, nel 1923, in una famiglia modesta, di piccoli artigiani (il papà è calzolaio, la mamma sarta). Per studiare si sposta a Sicignano degli Alburni, a Cava dei Tirreni, a Matera, a Potenza e per l’ultimo anno del liceo, tra il 1940 e il 1941, persino a Trento, dov’è ospite della sorella Serafina e dove consegue con tutti gli onori la maturità classica, essendo apprezzato da un docente d’italiano di spicco come l’antifascista Giovanni Gozzer. (Segnalo en passant il numero speciale 567 della rivista trentina “UCT – Uomo Città Territorio” del marzo scorso, dedicato appunto a Scotellaro, in cui, fra altri, compare anche uno scritto di Gozzer.) Iscritto a giurisprudenza a Roma, è costretto dalla guerra a spostare il luogo degli studi prima a Napoli, poi a Bari, e finirà per rimanere indietro con gli esami senza più laurearsi. In compenso, dopo aver aderito al Partito socialista e avervi svolto un’intensa attività tanto sindacale quanto politica, nel 1946, ad appena ventitré anni, è eletto sindaco del proprio paese, Tricarico, e da quel momento – fatta intanto la conoscenza di due personaggi per lui importantissimi quali Carlo Levi e Manlio Rossi-Doria – sarà per tutti, e per antonomasia, il poeta-sindaco. La sua lotta contro il clientelismo e la sua vicinanza ai diseredati – fra l’altro, creerà praticamente dal nulla una scuola e soprattutto il terzo ospedale della Basilicata, convincendo il clero locale a cedere l’edificio necessario – lo renderanno uno degli amministratori pubblici più giovani e più amati d’Italia, ma porteranno anche a calunnie e a un arresto per concussione nel febbraio del 1950. Scotellaro, già schedato e sorvegliato dalla polizia fin dal lontano 1943, sconta un mese e mezzo di carcere a Matera, un’esperienza che lo porta sull’orlo del suicidio, prima di essere prosciolto con formula piena dalla Corte d’appello di Potenza, e infine rilasciato. Reintegrato nella carica di sindaco, la lascia poco dopo in preda a una forte disillusione, e si trasferisce prima a Roma, poi a Portici, per lavorare con l’amico Rossi-Doria presso l’Osservatorio di economia agraria e per il Piano regionale della Basilicata. Il 15 dicembre del 1953 è stroncato da un infarto.

Questa, in poche parole, la vita. Costellata, oltre che dall’impegno politico, da almeno un significativo (e per certi versi irrisolto) libro di poesie, È fatto giorno, da una folta serie di componimenti inediti, in gran parte di minor interesse, che verranno pubblicati solo nel 1978 con il titolo di Margherite e rosolacci, da uno pseudo-romanzo incompiuto, L’uva puttanella, da un’inchiesta sulla condizione dei contadini del Mezzogiorno, Contadini del sud, da una ventina di racconti, e infine da vari scritti giornalistici e cinematografici, il tutto raccolto e ampiamente commentato nel volume Tutte le opere edito da Mondadori nel 2019, a cui rimando per le approfondite e spesso illuminanti trattazioni dei curatori.

Rocco Scotellaro (a destra) a Tricarico in una foto di Henri Cartier-Bresson

Cominciamo dalle poesie. “Stanotte il cielo è un mandorlo fiorito / e nella valle il cuculo già freme”: ecco, uno che a diciott’anni scrive un distico di una simile perfezione non può certo passare inosservato. È un poeta fatto, di grande cultura, con profonde radici almeno crepuscolari ed ermetiche, e certo non solo impregnato di cultura contadina (checché all’epoca ne scrivesse Levi, che forse per esaltare la sua scoperta volle farne una specie di “buon selvaggio”). È stato del resto più che dimostrato dalla critica quanto Scotellaro abbia letto e assorbito Rebora, Corazzini, Palazzeschi, Ungaretti, Quasimodo, Sinisgalli, perfino d’Annunzio, e fra i prosatori almeno Comisso e Bilenchi. Maturerà ancora, la poesia di Scotellaro, fino a fargli concepire l’idea, sette anni dopo, di riunire in un volume una selezione di livello forse disuguale, ma che avrà comunque una vicenda editoriale inutilmente complessa, tale da scoraggiare chiunque. Si passa attraverso l’apprezzamento di Carlo Muscetta, le riserve di Cesare Pavese, i complimenti di Geno Pampaloni e un primo impegno di Einaudi subito disatteso, e poi ancora attraverso gli interventi di Carlo Levi, l’interessamento di Eugenio Montale, di Linuccia Saba e di Remo Cantoni, i pareri di Vittorio Sereni e Sergio Solmi e un contratto finale con Mondadori che però non arriverà a compimento e firma che un mese prima della morte del poeta, tanto che il libro finirà per uscire postumo. A sei mesi dalla morte di Scotellaro, per la precisione, con taluni interventi da parte del curatore, Carlo Levi, che a posteriori sembrano abbastanza pesanti; e con l’ottenimento quasi forzato di un premio, il Viareggio – assegnato, come scrisse Ungaretti, anche “per motivi di opportunità umana” –, su cui, in nome dell’egemonia culturale del PCI di allora, quello dei vari Salinari e Alicata, si concentra il fuoco di sbarramento di chi vorrebbe chiudere i conti non tanto con Scotellaro, quanto con Levi, al cui Cristo si è fermato a Eboli si imputano aspetti reazionari, con il Partito socialista e infine anche con industriali illuminati e non allineati come Adriano Olivetti.

Polemiche vecchie e ormai stantie, si dirà; ma che hanno a lungo impedito una disamina equilibrata e serena del “sistema poetico” di Scotellaro, al di là del suo inquadramento, sul versante politico, in una vaga compagine progressista e meridionalista, e, su quello letterario, nel tardo ermetismo, facendone un epigono di Quasimodo, Gatto o Sinisgalli e tacendo gli elementi di novità nel suo linguaggio. O, peggio ancora, al di là della definizione di “poeta contadino”, che vuol dire tutto e nulla. Poeta-antropologo, semmai, che descrive costantemente un paesaggio umano più che geografico, e che innesta la vita quotidiana dei cafoni disillusi in una nuova prospettiva di avanzamento politico, Scotellaro non recede davanti alla descrizione di riti e residui arcaici che conosceva di prima mano, come quelli legati a una concezione tradizionale della famiglia, o dell’infelicità quasi inevitabile delle relazioni amorose, o ancora del sentimento di fratellanza, ma anche di estraneità, che lo allontana (lui, “esiliato” a Trento, a Roma, a Napoli, infine a Portici) da un popolo di cui pure è parte integrante e del quale avverte l’ansia esistenziale. In definitiva, l’io lirico si tramuta non in un noi, ma in un io collettivo, protagonista di una poesia in cui i toni elegiaci prevalgono su quelli epici.

Ma va detto anche che Scotellaro analizza i meccanismi sociali e religiosi della sua gente con una chiarezza e un’audacia (e senza le sovrastrutture politico-ideologiche di certi contributi in campo etnologico di Ernesto De Martino) che ritorneranno, amplificati, in quell’originale e peculiare mescolanza di autobiografia e romanzo che sarà L’uva puttanella. Un testo episodico e discontinuo, fatto di lacerti che s’illuminano all’improvviso, scritto dopo le dimissioni da sindaco a mo’ di terapia e per meglio chiarire (ancor più che nella poesia) i termini dello scontro fra l’italiano delle classi dominanti e quello dei ceti popolari, in particolare contadini, con in più pagine amare e disilluse sull’esperienza del carcere e sulla reale incidenza dell’attività dei partiti di sinistra  – sempre più lontani e divaricati dalle reali preoccupazioni della collettività – sulla vita dei diseredati, in un quadro (ancora e sempre) di analfabetismo diffuso. Anche questo testo, dove più che altrove traspare quasi una peculiare premonizione in Scotellaro, quella di non avere tempo a sufficienza, tanto è caratterizzato da impazienza e repentine accelerazioni, solleverà d’altra parte reticenze e critiche, per esempio da parte di Cantimori e Muscetta. Anche in questo caso ci si opporrà alla pubblicazione, da parte di Einaudi, di un libro che doveva essere curato, ancora una volta, da Carlo Levi. Alla fine, in una controversia in cui le questioni editoriali si intrecciano a quelle ideologiche, tanto L’uva puttanella quanto Contadini del Sud usciranno per i tipi di Laterza. Ma con la conseguenza che fino agli anni Settanta di Scotellaro non si parlerà praticamente più.

E sì che già solo la metafora del titolo, l’uva puttanella, appunto, composta di acini che maturano lentamente ma si rivelano più dolci degli altri, avrebbe dovuto segnalare (e magnificare) il contributo che il Meridione può e deve ancora dare, liberandosi delle sacche di arretratezza e di criminalità organizzata, allo sviluppo della nostra società. Perché la posizione di Scotellaro, ben lungi dall’essere nostalgica o mitizzante, era invece propositiva: soprattutto nell’ultima fase gli interessava la diffusione capillare, con pazienza e perseveranza, di quelle competenze tecniche, giuridiche, economiche e in senso lato professionali che potessero contribuire a inserire in modo attivo i nuovi soggetti del Meridione in quella modernizzazione dell’apparato statale e del mondo industriale che gli pareva ormai indilazionabile.

Se è vero che in certi passaggi di Cristo si è fermato a Eboli si evidenzia una certa estraneità del narratore alle vicende trattate e che la civiltà contadina e bracciantile è colta nell’immobilismo pressoché assoluto degli anni Trenta, quelli del confino dell’autore, non sono certo questi i limiti imputabili all’opera di Scotellaro, che dell’amicizia e della complicità con Levi ha forse più sofferto che giovato. (Più opportuno sarebbe oggi forse mettere in relazione il poeta lucano con lirici e operatori culturali in qualche modo a lui affratellati da tematiche e sensibilità comuni, come Vittorio Bodini.) Si è detto che Levi abbia rappresentato il mondo contadino nel suo lunghissimo sonno, e che Scotellaro abbia invece segnato il momento del suo improvviso risveglio; ciò che in Levi può sembrare talora decorativo e pittoresco, nel poeta di Tricarico diventa profondo e intimamente partecipato, con in più la speranza forse ingenua in un futuro diverso, di cui già il titolo generale scelto per la raccolta poetica, È fatto giorno, doveva dar conto. Titolo che Scotellaro voleva a un certo punto cambiare; ma ne venne dissuaso da Italo Calvino, al quale piaceva moltissimo. “È fatto giorno, siamo entrati in giuoco anche noi / con le faccie e i panni che avevamo…” Un giorno nuovo: il sol dell’avvenire che per una volta illumini anche il mondo contadino, nonostante lo svuotamento delle campagne, l’inurbamento forzato e l’emigrazione, il disprezzo per il territorio e tutto ciò che fin dagli anni Cinquanta il Meridione sta ancora vivendo sulla propria pelle. Un giorno nuovo che in parte ancora aspettiamo.

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