A proposito di “Tu non c'era ancora”
Portante e la lingua dell’anti-guerra
Nella “riscrittura” in italiano di sue poesie composte in francese, l’autore nato in Lussemburgo da genitori abruzzesi «promuove l'idea di una poesia vissuta come ascolto e condivisione di visioni, poesia che diventa base fondante di una comunità universale, antidoto ai conflitti…»
C’è una linea, un filo ininterrotto di parole, che lega la raccolta Tu non c’era ancora (Milano, La Vita Felice, 2022) alla ricerca linguistica di Jean Portante, e lo fa nel segno dell’idea, personalissima e tutta portantiana, di “langue baleine”. La “langue baleine” nasce da una potente similitudine: come il cetaceo nasconde il suo polmone, il ricordo della terra ferma, così Portante, poeta poliglotta nato in Lussemburgo da genitori italiani, decide di nascondere per anni la lingua italiana delle origini dentro quella francese. Nel 2009, però, il mondo linguistico del poeta subisce un cambiamento profondo. Il “tremore” devastante del terremoto aquilano (la famiglia di Portante è originaria di un paese della provincia dell’Aquila), con le sue scosse, apre «crepe nella lingua» e l’italiano ne approfitta «per venire fuori» (Jean Portante, In segno di prefazione, nel suo L’invenzione dell’ombra, Rimini, Raffaelli Editore, 2019, p. 5). È così che il poeta inizia a comporre le sue poesie in lingua italiana senza la mediazione linguistica di un traduttore. Le due raccolte L’invenzione dell’ombra e Tu non c’era ancora, infatti, non sono più traduzioni, ma “riscritture” italiane di poesie in lingua francese: da La tristesse cosmique (Luxembourg: Éditions Phi, 2017) quelle de L’invenzione dell’ombra e da Jadis je disait (Luxembourg: Éditions Phi, 2021) quelle di Tu non c’era ancora. La decisione di stravolgere il metodo compositivo si lega alla necessità di operare una vera e propria ricostruzione del testo poetico nel suo passaggio da una lingua all’altra, superando in questo modo il problema della fedeltà all’originale.
Portante, grazie alla sua particolare condizione linguistica, può maneggiare, senza remore e con una certa dose di rischio calcolato, una lingua piena di neologismi, di ricche invenzioni lessicali, giungendo alle «piraterie linguistiche» di cui parla Loretto Rafanelli nella prefazione (p. 6). C’è in questi testi la libertà di un «orecchio apolide» che attraversa i confini con un approccio ludico e aperto. Nell’operazione di riscrittura stavolta è il polmone francese a essere dietro all’italiano che, si badi bene, non è quello standard ma una lingua di nuovo conio. Portante, del resto, non ha mai imparato l’italiano scritto; il suo italiano è una lingua individuale come quella dei poeti autentici, veri e propri “fabbri della parola” nel senso tutto dantesco di artefice e insieme operaio della lingua.
Il titolo della raccolta e dell’ultima sezione del libro, Tu non c’era ancora, mette in evidenza due aspetti fondamentali. Innanzitutto la concordanza straniante del pronome personale soggetto “tu” con la voce verbale della terza persona. Nelle poesie della silloge è infatti presente uno sfasamento ripetuto fra pronomi e voci verbali. L’idea di Portante potrebbe essere quella di rendere evidente l’instabilità nell’uso dei deittici con un “io” e un “tu” che sostituiscono una forma impersonale esplicitata, appunto, nella terza persona della forma verbale. Sembra un gioco linguistico che intende tradire l’io lirico e aprirlo all’indefinitezza di un agire collettivo: la memoria individuale che si sublima e si depersonalizza in una voce corale originaria. Il secondo elemento è dato dalla flessione del verbo all’imperfetto “c’era”, una dimensione ancestrale posta nel passato che risulta in questo modo indefinito. E i termini temporali si rompono facendo incontrare il passato espresso dall’imperfetto, che è il tempo verbale prevalente, e il presente che vive anch’esso nell’indefinitezza. I livelli temporali si confondono e si sovrappongono. La memoria irrompe, così, spifferando da una crepa di una scena, di un’immagine.
In Portante il discorso sulla lingua non interessa soltanto la pelle, per così dire, della sua poesia ma penetra nel nucleo profondo delle immagini poetiche, innescando uno sconfinamento continuo, un’apertura incondizionata e irriducibile verso la molteplicità del mondo in tutte le sue ramificazioni. Lo sconfinamento fra gli steccati linguistici, la rottura dei limiti dei termini lessicali e dei livelli temporali corrisponde alla caduta delle barriere culturali. La curiosità del poeta si unisce a un canto dello sradicamento, a un inoltrarsi in spazi sconosciuti (viene in mente l’immagine della clessidra citata da Loretto Rafanelli nella sua prefazione e presa in prestito dalla cultura sufi: una clessidra vuota che è felice perché, una volta rivoltata da una mano invisibile, ritroverà l’abbondanza). Questa irrilevanza di un centro tonale culturale, mai taciuta da Portante, conduce a una «cultura della comunanza, intesa come condivisione e ricerca della verità». L’operazione portata avanti dal poeta produce un movimento esattamente opposto a quello creato dai muri e dalle frontiere che, invece, non fanno altro che impedire «il riappropriarsi di una essenza comune» (Loretto Rafanelli, p. 8). Portante, in definitiva, promuove l’idea di una poesia vissuta come ascolto e condivisione di visioni, poesia che diventa base fondante di una comunità universale, antidoto ai conflitti, vera anti-guerra.
Qual era la chiave che apriva la porta
di un vecchio inverno
quando da concepire c’era
solo questa prole che lontano da me
teneva in una mano un pezzo di carta
che piegava e piegava
e nell’altra una bottiglia
che il mare mai non sveglia
da nessuna parte esce il grido
e da nessuna parte entra
ma sulle colline i soldati
sono dritti come alberi
e in questo momento in cui sto facendo la scelta
non posso fare a meno di pensare
che ogni guerra ha la sua chiave
e che la pace rimane immobile come una statua.
***
Il minatore di fondo
Cos’altro andava a cercare il minatore di fondo
nelle gallerie incerte
se non la profondità che poi consolidava
affinché nulla crollasse.
Scendeva il minatore con la pala in mano
dopo aver appeso il cappotto
come ci si libera della pelle del giorno
su un gancio nella sala degl’impiccati.
Sospesa la pelle e il minatore scendeva
alla luce della sua lampada a carburo
cercando come cerca uno speleologo
segni sulle pareti di roccia dura
tracce di un’altra discesa o di tutte.
Perché era da figlio a padre che scendeva
per ripercorrere il filo del tempo
nella speranza di toccare un giorno
la mano della prima discesa.
D’inferno ne trovava a volte
con le sue pelli secche
e le anime pietrificate
che quando voltava le spalle
facevano finta di seguirlo
ma non lo seguivano.
***
Era sull’acqua
che io camminava
chi gli aveva detto che la terra
era vicina – io correva
di aria erano i ponti e di acqua
i vicoli e il cielo per una volta
era sotto i suoi piedi
chi aveva rovesciato la sfera
posata un tempo nella vetrina
della sala da pranzo sapeva
che un giorno camminerebbe
a testa in giù in questa città
che un nulla rovescia
– tu non c’era ancora.
Jean Portante
Da Tu non c’era ancora, La Vita Felice