A proposito de “Il dolore crea l’inverno”
Il dolore del gelo
Il nuovo romanzo di Matteo Porru è una storia struggente e aspra ambientata in un luogo sperduto del Mar Glaciale Artico. Una vicenda di silenzi e amicizie che si consumano alla ricerca di un senso di sé
Un lungo elenco di ringraziamenti, bello come il libro. Che racconta di un luogo sperduto sul mare di Kara e della vita altrettanto sperduta dei suoi abitanti. Si intitola Il dolore crea l’inverno, ed è edito da Garzanti (77 pagine, 16 Euro), il nuovo lavoro di Matteo Porru, settantasette pagine ghiacciate con un unico puntolino di luce e di calore. Di mestiere fa lo spalaneve, Elia Legasov, come suo nonno e come suo padre. Ogni giorno, a bordo del Bestione sempre bel oliato, solleva e accantona la neve nelle dieci strade di Jievnibirsk, 289 anime morte che sprangano porte e finestre e escono il meno possibile. Peraltro, dove andrebbero col freddo che ustiona e con le tempeste di vento che tolgono di senno? La miglior cosa, pensano, è rimanere immobili, lasciare che la neve si posi e ricopra la terra, le loro grame esistenze e anche la memoria.
Matteo Porru narra di uomini parchi di parole e di un’unica dolcissima donna, del ritrovamento di un cadavere, dell’amore e dell’odio intrecciati insieme e lo fa con una scrittura adamantina, secca, ritmata come uno spartito. Sfronda, scolpisce le parole, asciuga al massimo i dialoghi. “Sembra che la gioia non sia stata mai insegnata a Elia Legasov, né che lui l’abbia scoperta da sé.” In effetti, lo spalatore che tiene ordinate e linde le sue trenta pale, si accontenta di lenire la sua malinconia e la perfida insonnia con qualche sigaretta russa e molti bicchierini di zveroboy. Se li scola col miope locandiere Matveij e il meccanico Boris.
Non sono pochi, due amici, nella landa lambita dal Mar Glaciale Artico. Un posto difficilmente reperibile sulle carte geografiche, ma Elia non ha mai pensato di andarsene, di staccarsi dalla sua casa troppo grande e spoglia dove conserva una foto seppiata e consunta che ritrae una ragazza bionda col fazzoletto in testa e in braccio due bambini: Mama, adorata Mama. Un particolare che non sfugge all’attenzione di uno straniero con la cravatta arrivato a Jievnibirsk per cercare petrolio. Il che significa scavare, verbo che non piace a Elia e neppure ai compaesani. Gli idrocarburi ci sono, dicono i geologi, ma c’è anche l’affioramento di un corpo con un’etichetta cucita sulla giacca. Chi sia è subito chiaro a tutti e i commenti si fermano qui. Ma non la trama magistrale tessuta da Matteo Porru. “Non ho mai identificato l’inferno col fuoco e le fiamme. Per me l’inferno è il gelo.”
Nato a Roma da padre sardo e madre veneziana, ha studiato al Liceo classico Dettori di Cagliari ed è inscritto a Filosofia alla Ca’ Foscari di Venezia. “Sono vecchio”, dice a 22 anni. Forse ha ragione, perché ha già dato alle stampe diversi titoli, ha vinto il Premio Zingarelli, il Campiello Giovani 2019 con Talismani, è stato finalista ai Premi Cambosu e Alziator, è opinionista e commentatore televisivo. Quasi tutto è bianco, in questo suo romanzo breve quanto saettante. E sotto il bianco della neve, il nero del male, delle coscienze scolorite, del buio che dura sei mesi. “Pensami forte ma non parlare”, disse Eva a suo figlio Elia. Una raccomandazione che è una condanna. L’obbligo, per sempre, a seppellire i ricordi, anche quelli – e ci sono – più teneri. Pochissimi invero, in una vicenda di aspri silenzi sotto “il cielo che cade”.
La fotografia accanto al titolo è di Maria Luisa Paolillo