Attilio Del Giudice
Un racconto di memorie antiche

Il bandito e le stelle

«Finalmente scorse la vecchia che arrancava, aiutandosi con un bastone. L’affiancava, imbacuccata in uno scialle nero, una giovane. Gli sembrò alta e robusta. Pregustò il piacere, ma rifletté che era costretto a non abbandonare la guardia...»

Pioveva ininterrottamente da quarantotto ore. Tommaso si sentiva l’umido nelle ossa. Fascine nella grotta ce n’erano per accendere un fuoco, ma il fumo si sarebbe visto. La vecchia aveva detto che il paese era infestato da carabinieri. Tommaso guardò nella scarpata, sperando di vedere la vecchia che gli portava latte di capra e pane di granturco; aveva fame, gli restavano poche sigarette e poche speranze. In galera c’era stato una volta, ma l’idea dell’ergastolo gli sembrava inconcepibile, a venticinque anni, Cristo.

“Portami una ragazza! Ti do trenta lire.” Aveva detto alla vecchia.

“Pensa ad uscire da questo pasticcio, figlio mio! Per le puttane c’è tempo, in ogni caso trenta lire sono poche coi rischi che corro”. Disse la vecchia nel suo dialetto.

Per salire fino alla grotta c’era un tratturo allo scoperto, sotto tiro, e lui ne avrebbe potuto far fuori tranquillamente cinque o sei prima di arrendersi. Solo la vecchia conosceva esattamente il nascondiglio e finché pagava quel po’ di roba a suon di bigliettoni, si poteva fidare.

Il maresciallo aveva parlato nell’imbuto: “Tommaso Caputo, arrenditi. Non hai scampo, sei circondato!” Ma non s’erano azzardati a salire.

“Pensa a quella povera donna di tua madre!” Aveva detto quella faccia di merda.

Tommaso accese una sigaretta. Aveva smesso di piovere, finalmente. In fondo alla vallata fra la nuvolaglia nera, s’era insinuata una sciabolata di luce, che scendeva traversa fino al fiume e alla vecchia locanda di donna Amalia. Lì, davanti al fuoco, aveva fatto l’amore l’ultima volta.

Caterinella, la serva d’Amalia, che era diventata muta da quando un fulmine le aveva ucciso il padre sotto gli occhi mentre raccoglievano a terra le castagne, all’amore, in verità, ci pensava sempre, notte e giorno, ma quando Tommaso glielo mostrò turgido e rosso, come un animale scuoiato, prese paura e si coprì il volto col grembiule.

“Guarda che bellezza!” Aveva detto Caputo. “Vieni qua che ti faccio tornare la parola!”

Ripensando a quel corpo tenero e caldo gli risalì la rabbia. “Che mi venissero a prendere!”

 Sentì i tocchi della campana di San Sebastiano. La messa delle otto. Si ricordò che era domenica. Pensò a quel bastardo di Don Larco. Quella canaglia!

Saggese sì che era un prete, un santo. Si ricordò di quando era bambino e vestito da chierichetto, serviva messa.

“Devi studiare!” Gli aveva detto Saggese. “Perché sei intelligente e puoi diventare avvocato”.

Un pomeriggio, d’estate, nella controra, s’era addormentato nella sacrestia. Il parroco lo svegliò accarezzandogli i ricci.

“Ti devi confessare, Tommasino!” Disse.

“Perché che ho fatto?”

“Hai commesso atti impuri, ti sei toccato.”

Tommasino sgranò gli occhi e avvampò.

“Io? No, non è vero!”

“Allora vediamo se anche il pistoletto dice bugie.” E dolcemente gli sbottonò i pantaloncini.

Ma, a parte questo, Saggese era un brav’uomo e, quando morì improvvisamente a sessantacinque anni, al funerale piangevano pure i sassi.

Don Larco, no! Don Larco era una serpe e quella soffiata gliela avrebbe fatta pagare col sangue.

Ogni volta che si prefigurava la vendetta, gli si gonfiava una vena sulla fronte e si immaginava una scena diversa. Stavolta si immaginò di sorprendere il prete mentre cenava. Sì, in una bella serata di primavera, dopo il vespro, durante il mese mariano. Gli sarebbe comparso davanti con gli occhi fiammeggianti come l’angelo sterminatore.

“Zitta tu, zoccola!” Avrebbe detto a Chicchinella, la sua compara.

Li avrebbe costretti a denudarsi. Li avrebbe messi l’uno su l’altra e in questa positura di vergogna, li avrebbe freddati.

S’era alzato un vento di tramontana, che ululando rapidamente spingeva il sudicio lenzuolo delle nubi verso il mare. Le gocce di pioggia sulle foglie degli ulivi sembravano minuscole lampadine trepidanti. Finalmente scorse la vecchia che arrancava, aiutandosi con un bastone. L’affiancava, imbacuccata in uno scialle nero, una giovane. Gli sembrò alta e robusta. Pregustò il piacere, ma rifletté che era costretto a non abbandonare la guardia.

La giovane si fermò a una trentina di metri. La vecchia, invece, affannando, salì fino all’imboccatura della grotta.

“Caputo, ti ho portato la ragazza come avevi ordinato. È una bella figliola e ti darà soddisfazione. A me dai cinquanta lire.”

“No, vecchia. Ora ho altro a che pensare. Portamela stasera, appena fa buio.”

La vecchia si mostrò perplessa. Poi, con una smorfia laida da

ruffiana, disse: “Non si compra la gatta nel sacco! Non la vuoi vedere meglio? Non la vuoi palpare? È soda sai!”.

Si girò verso la ragazza e la chiamò. “Maria, Maria, vieni! Fatti vedere!”

Maria non si mosse e pudicamente abbassò lo sguardo. Tommaso se lo sentì farsi grosso e premere violentemente contro la stoffa ruvida delle brache. L’idea di poter subito palpeggiare la ragazza gli fu fatale. Appoggiò la carabina a un cerro e si avvicinò. Vide che era una bruna, ben piantata.  Il viso mezzo coperto dallo scialle. denotava una forte timidezza. “Da dove vieni?”

In realtà la giovane era un giovane e, precisamente, il vice brigadiere Gaspare Gargiulo, che, volontariamente e con coraggio, si era prestato alla trappola.

Gargiulo fece scivolare lo scialle e mostrò per intero la faccia di uomo risoluto, ma, soprattutto, mostrò la beretta d’ordinanza puntata al petto del bandito.

“Un solo passo, Caputo, e sei spacciato.”

Caputo digrignò i denti come una bestia, ma restò fermo, pietrificato dalla sorpresa.

“Ti scannerò con le mie mani!” Disse alla vecchia.

Sopraggiunse il maresciallo con altri armati. Lo ammanettarono in un baleno.

“Meglio così, Caputo, meglio così! Senza spargimento di sangue”. Disse il maresciallo. “Avrai un regolare processo.”

Accusato di tre omicidi, stupri e rapine, Tommaso Caputo prese l’ergastolo.

La spiata non l’aveva fatto don Larco. Pare che a denunciarlo fosse stata la madre.

“Preferisco – aveva detto – saperlo in galera, piuttosto che ammazzato come un cane senza sacramenti. Tommaso in fondo all’anima è buono e un giorno si pentirà e chiederà perdono a nostro Signore Gesù Cristo.”

Non sappiamo se Tommasino chiese perdono a nostro Signore Gesù Cristo, di certo si sa che alla fine della seconda guerra mondiale un convoglio di cinque guardie che scortava il detenuto per un trasferimento, fu attaccato da un commando di tedeschi, in ritirata presso Santa Maria Capua Vetere. Caputo approfittò della circostanza, appena scalfito a un braccio, si finse morto, poi, lasciando sul posto tre mitragliati passati ormai a miglior vita e due agenti gravemente feriti che perdevano sangue, agevolmente se la svignò. Di lui non si è più saputo niente di certo. Alcuni hanno sostenuto che avesse cambiato nome e si fosse arricchito con lo spaccio degli stupefacenti, altri hanno affermato che si fosse arricchito col commercio delle armi ma, di queste voci come di altre non ci sono prove.

Questa storia di Tommaso Caputo ce la raccontò Zio Vincenzo.

Zio Vincenzo non era un nostro parente, ma lo chiamavamo tutti così confidenzialmente: “Zio Vincenzo”. Era un vecchio coinvolto in svariati problemi filosofici, sapeva di Greco e Latino e fumava un profumatissimo tabacco inglese nella sua elegante pipa di radica. Era bello ascoltarlo, tutti sentivamo il fascino dei suoi racconti e le sue considerazioni lasciavano, in tutti noi ragazzi, sempre una scia di riflessioni.

Ci disse che aveva conosciuto da bambino Tommaso Caputo. Avevano frequentato insieme le elementari fino alla quarta. Poi, per via di un trasferimento a Caserta della famiglia, si erano perduti di vista.

Tommasino era un bambino timido e dolcissimo. Zio Vincenzo raccontò che una volta barattò con dieci palline di vetro colorate un cardellino ferito, lo curò con grande tenerezza e quando si rese conto che l’uccelletto era guarito ed era in grado di volare, gli dette la libertà.

“Vedete, ragazzi, il più grande mistero umano è l’uomo medesimo. Come si fa ad immaginare che un ragazzino così sensibile potesse diventare un terribile bandito, un assassino spietato?

Abbiamo fatto grandi scoperte, abbiamo raggiunto una tecnologia altissima, impensabile fino a pochi anni fa in molti ambiti ma, nella comprensione dell’animo umano, siamo ancora agli albori.

Ma c’è da chiedersi: chissà che questo limite, così lampante, non sia un bene per l’uomo, vale a dire che la seduzione del mistero ci è necessaria, almeno quanto la freddezza della ragione scientifica? Forse si!”

Zio Vincenzo ci guardò, uno per uno, sapendo che non avevamo elementi per contraddirlo, accese la sua pipa, fece una boccata, guardò il cielo e concluse con una locuzione scespiriana: “C’è una ragione, ma non la dirò a voi, purissime stelle.”


Le fotografie sono di Roberto Cavallini

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