Eleonora Rimolo
Ceppo Poesia 2023 in tre parole /3

Carità Natura Fatalità

Il poeta non possiede soluzioni ai crucci dell’esistere, «ma tenta di contribuire alla complessa evoluzione del pensiero con “il soffio della grande poesia che gli venta nell’anima”». Ecco il “centro di gravità” poetico del terzo e ultimo vincitore finalista nella sezione Under 35

Nell’ambito del 67° Premio Ceppo, presieduto e diretto da Paolo Fabrizio Iacuzzi e dedicato quest’anno alla Poesia, è oggi Eleonora Rimolo – ultima dei tre finalisti nella sezione Under 35 che il 7 maggio vengono votati dalla Giuria dei Giovani lettori – a spiegare in tre parole-chiave il proprio “centro di gravità” poetico. L’autrice di Prossimo e remoto (Pequod) vince «in virtù di una sicura voce poetica impegnata a rappresentare la precarietà delle aspirazioni in un contesto instabile e minaccioso», attraverso sentimenti e luoghi che «rispecchiano e contrappuntano il sentire privato, il penoso e irrisolto rapporto con un’alterità ostile ed evanescente». (www.iltempodelceppo.it).

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Carità
Per Carlo Betocchi essere poeti «è dimenticare se stessi per l’altro da sé, che è diverso da noi e che stringe insieme tutte le cose in un comune amore»: questo amore, nella sua forma più nobile, è la carità, protagonista della prima sezione Microcosmo di Prossimo e remoto. In questi testi racconto in versi sia il bisogno di vicinanza autentica che tutti noi proviamo istintivamente verso l’alterità, sia la distanza che caratterizza le relazioni attuali: sono due elementi che spesso convivono in maniera disfunzionale. Prossimità e distanza, desiderio di essere amati ma difficoltà a lasciarsi andare nell’amore (amore inteso sì come erotismo, ma anche come amore solidale, come amore per la natura, come amore per il mistero del cosmo e delle nostre origini): è il male oscuro che affligge il contemporaneo, disintegrando ogni tentativo di rapportarsi all’altro in maniera non superficiale. In Microcosmo si parla della necessità di essere umani, della necessità delle “relazioni” e della fatica delle responsabilità che tutti abbiamo nei confronti dell’altro, che sia da noi “prossimo” o “remoto”, e a cui dobbiamo rispondere per poterci definire degni di vivere (e non di sopravvivere). È il tarlo della richiesta ossessiva di comunicazione dell’uomo con gli altri uomini, della richiesta ancestrale di condivisione, contro tutti i monadismi di tendenza, una attestazione ferma della volontà di restare e di riuscire a formare almeno una crepa nel muro di cemento armato dell’egoismo. Centrali sono i testi che si concentrano sulla solitudine degli ultimi: le storie di Modesta Valenti, del senzatetto abbandonato sulla spiaggia e arso dalla droga e dal sole d’agosto, dell’extracomunitario morto assiderato lungo le strade di una grande città sono degli exempla di come l’osservatore, mosso da un pungente sentimento di pietas, riesca a “vedere” l’altro in difficoltà e, anche quando la sola poesia non basta a intervenire sulla realtà per plasmarla e migliorarla, la sua funzione di testimonianza permette di orientare il lettore alla carità, attitudine da cui solitamente oggi si rifugge per la paura di mostrarsi esposti, fragili, umani. 

Eleonora Rimolo

Natura
Anche il rapporto con la natura, nei secoli modulato sempre diversamente e oggi fondato sul primato dell’uomo sull’ambiente, è oggetto di riflessione e può essere vissuto sia come esperienza di prossimità (volontà di rispettare le leggi della natura, attenzione all’equilibrio ambientale) che di distanza (penso soprattutto ai disastri dolosi causati dall’uomo, sui quali mi ero soffermata nel precedente libro, La terra originale): nella seconda sezione, Isola, si cerca un rapporto con la natura che sia più vicino alla interpretazione simbolista che a quella scientista. L’uomo è rispetto alla natura un piccolo abitante impaurito, un naufrago su un’isola deserta che tutto e niente offre alla sopravvivenza: la sensazione che si prova di fronte all’immensa potenza naturale è molto vicina al sentimento del sublime kantiano, e ogni tentativo di ricongiungimento e di fusione totale con gli elementi naturali cede di fronte alla linearità della vita umana, destinata alla fine e all’aspirazione strozzata di un’eternità ciclica di solo appannaggio della natura. Quel che resta da fare, dunque, è imparare ad “abitare” il mondo, dove abitare sta – come ricorda infatti Heidegger – per soggiornare da mortali sulla terra: «Ma sulla terra – chiarisce il filosofo tedesco – significa già sotto il cielo». E questo a sua volta significa sia «rimanere davanti ai divini» (die Göttlichen) sia una appartenenza alla comunità degli uomini, con i quali abbiamo la necessità di trovare una chiave di dialogo e di condivisione, di prossimità – come ci indica Leopardi nella Ginestra, dove non a caso l’elemento naturale dello «sterminator Vesevo» si scontra col titanismo del fragile fiore, simbolo della gracilità della condizione umana. 

Fatalità
Qohelet, che chiude in epigrafe Prossimo e remoto («Tutto è vuoto niente / Tanto soffrire d’uomo sotto il sole / che cosa vale? // Venire andare di generazioni / e la terra che dura / […]»), ci ricorda quanto l’uomo sia imprigionato nel suo limite, nella sua impotenza, nella sua modestia strutturale. A questa domanda non c’è univoca risposta e alla sera della vita l’uomo non trova tra le mani che hebel, “vuoto”, nulla. Questa sensazione si amplifica sfociando nell’orrore al cospetto dell’immensità sterminata del cosmo, che l’uomo cerca disperatamente di sondare per comprenderne i suggestivi misteri. La terza sezione del libro, Macrocosmo, indaga appunto lo straniamento dell’umano di fronte allo spettacolo delle stelle e alla difficoltà di conciliazione dei concetti di scienza e di fede. Certo le antiche illusioni restano irrecuperabili, e la scienza ne è colpevole: il poeta-fanciullo, per dirlo con le parole di Pascoli, stupefatto e incredulo, è quindi designato alla ricerca delle parole atte a descrivere e significare la solitudine dei mortali nel cosmo, lo sgomento generato da una visione oramai solo scientifica degli astri. Il poeta, tuttavia, non possiede soluzioni definitive a tali crucci, ma tenta di contribuire a questa complessa evoluzione del pensiero con «il soffio della grande poesia che gli venta nell’anima». E questo vento, che è anche cosmico, chiude Prossimo e remoto con un testo sulla maternità, a testimonianza del fatto che sebbene le leggi insondabili della natura costringano il singolo alla morte, garantiscono comunque la continuazione della specie umana attraverso la continuità della vita biologica.

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