Danilo Maestosi
A Palazzo Cipolla, a Roma

L’arte e il metaverso

Una mostra curata da Gabriele Simongini e Serena Tabacchi mescola realtà e finzione, ispirazione e algoritmi nel nome del metaverso. E le intuizioni dei futuristi introducono alle ricerche di Mario Klingsmann, Krista Kim o Fabio Giampietro


Benvenuti nel lunapark del metaverso, l’altrove che la tecnologia si è data come traguardo multiuso e che sta promovendo come terra promessa alle fantasie di evasione dell’umanità di un futuro ormai alle porte. È lo spettacolo ideato da un mecenate curioso e senza paraocchi ideologici come Emmanuele Emanuele e messo in scena nelle sale romane di palazzo Cipolla in via del Corso, da una inedita coppia di curatori, Gabriele Simongini e Serena Tabacchi, alternando le opere di maestri del passato che hanno anticipato e sperimentato nel solco della tradizione vie di fuga possibili dalle costrizioni dello spazio e del tempo e i lavori di artisti di oggi che hanno distillato visioni e nuove prospettive di rappresentazione sfruttando il repertorio di calcoli e proiezioni dell’intelligenza artificiale e della realtà aumentata. Costellando questo percorso ad andiriveni di segnali di allarme e domande inquietanti sulle derive, le cadute, le insidie che puntano a trascinare fuori della Storia, rendere irreversibili le mutazioni dell’immaginario umano innescate dai linguaggi digitali, ma lasciando in sospeso ogni giudizio finale.

Avvolgendolo in una dimensione di gioco che non ti nega il piacere di starci, abbandonarsi alla fantasia dell’esperienza, quel come se, cui stai partecipando, ma riancorandoti subito dopo alla realtà a cui sei tornato. Proprio come succedeva nei vecchi lunapark ormai condannati al disarmo: nei precipizi vertiginosi di paura mozzafiato dell’Ottovolante, in quei cilindri rotanti dove la calamita della gravità ti inchiodava come un gadget da frigorifero al muro in uno stato di sospensione nel vuoto, in quei labirinti di specchi dove ti ritrovavi per qualche minuto ad invocare la salvezza di un filo di Arianna o a indossare a tua scelta le maschere del Minotauro o di Teseo.

Perché il metaverso – avverte, il titolo di questa mostra – non è che un’ipotesi. Una realtà simulata. Un effetto speciale, come quelli a cui il cinema – terra di conquista della bulimia incontrollata dell’arte contemporanea come tutti i territori vicini in cui è sconfinata – ci ha allenati da decenni. Un’applicazione derivata dalla scienza, ma battezzata da un nome coniato non a caso dalla fantascienza: il nome appare per la prima volta in un romanzo del 1992, Snow Crash, di Neal Stephenson. «Un luogo dove andare senza andare da nessuna parte», lo definisce un creatore d’altri mondi e futuri prossimi venturi come il cineasta Steven Spielberg.

Piranesi, Carcere

Un progetto e un piano d’evasione.

Ce lo ricorda proprio il doppio colpo d’ala con cui si apre questa esposizione. Il primo tassello è una preziosa icona ottenuta in prestito dall’Istituto per la grafica: un vertiginoso volo a colpo d’occhio tra le arcate, le scale, le balaustre, le mura, le architetture fantastiche, i cupi fondali di un luogo immaginario di detenzione, inciso su una lastra di rame da uno dei più geniali maestri del Settecentouno dei tanti capolavori del suo ciclo a stampa più celebre e gettonato: la serie delle Carceri (1749-1761). La prigione come un labirinto dell’anima, opprimente e spaesante, e lo sguardo prospettico che l’autore ci invita a seguire sostituito da un intreccio di punti di vista, tempo e spazio sospesi in un’attesa enigmatica. un palcoscenico di vibrazioni tra passato e futuro, guizzi d’ombra e di luce. Un manifesto della sfida dell’arte, della ricerca dell’Invisibile come senso più profondo del mestiere di vivere e di creare.

Il secondo tassello è un prologo al bisogno di fuga come orizzonte generativo del metaverso, affidato ad un effetto speciale che è insieme sintassi, preistoria e storia di queste nuove possibilità di racconto dischiuse dalla tecnica: l’immersione nel flusso fascinoso e artificiale della terza dimensione lungo il tracciato dischiuso dal Valadier. Un omaggio al talento visionario del grande incisore celebrato dieci anni fa da un duo di cineasti provetti, Dupont e Teardo. Uno schermo al posto del foglio. E una macchina da presa che insegue in movimento le infinite piste con cui si possono attraversare le Carceri Piranesiane. Si inerpica per quelle scale, sfiora quei personaggi fantasma che popolano la scena, precipita verso il basso aggrappandosi ai segni del bulino come gradini. Puro cinema, costellato da raffinati guizzi d’autore, che ci dimostrano come abitare quelle architetture fantastiche e strappare a quell’ambiente di tenebre e luci le soluzioni che le governano, ne trasportano al gusto più pigro e distratto di oggi le radici e l’esempio. Lo stesso modello che la mostra ci suggerisce di rintracciare e a tenere come bussola in mente, osservando le geometrie impossibili inventate nel secolo scorso da Escher in uno dei suoi planetoidi eccentrici, o cogliendone gli echi anticipatori nei vortici barocchi della cupola affrescata di Sant’Ignazio che sembrano sfondare lo spazio e trovare nel miracolo dell’aria il loro stesso sostegno.

Un passo in più ed eccoci già sul palcoscenico interattivo del metaverso. Basta sedersi e lasciarsi oscillare sull’altalena di Fabio Giampietro e poi fissare lo schermo di fronte animato da algoritmi e sensori: ad ogni movimento lo sguardo avanza e sprofonda nella gola di segni di un buco nero che ti ipnotizza e divora. Un rito cannibale di annullamento aldilà del quale puoi, se stai al gioco, trovare lo squilibrio di una nuova identità provvisoria, verso cui riemergere come un surfista quando riaffiora dall’abbraccio di un’onda gigantesca. L’artista non va oltre, ti offre, come un ammonimento l’ebrezza del perdersi senza la certezza del ritrovarsi.

Nella stanza successiva, che chiama alla ribalta un altro italiano che esplora senza reticenze gli universi paralleli degli algoritmi digitali, Federico Solmi, bolognese cinquantenne, che si è fatto strada in America, l’approdo è in un frastornante palcoscenico di carnevale: a sinistra un’orchestrina in parrucca che esegue lo spartito di una musica ballabile, di fronte una platea di danzatori che si agita su uno sfondo di bagliori rossastri, addosso costumi di ogni tempo, e maschere ghignanti in cui riconosci, stravolte in caricatura, le facce di grandi personaggi della Storia, da Napoleone a Madame Pompadour. Ma per dar vita a questo popolo in baldoria devi indossare una maschera e impugnare come un volante dei moncherini di mani plastificate. Consegnarti finche vuoi ad un dispositivo che ti dischiude la porta di un sogno, No non è la realtà, ma qualcosa che le somiglia. È lo stesso autore a metterti sull’avviso, esponendo nell’anticamera dove ti predisponi al viaggio, tre mascheroni di ceramica che ricalcano in chiave grottesca le sembianze di tre attori che partecipano alla festa danzante. Ma sì li hai intravisti anche tu in mezzo a quella folla di fantasmi promiscui e irridenti. E li riconosci al risveglio, riesci persino a battezzarli: Messalina, Giulio Cesare e un Garibaldi barbuto e impettito. Come un prestigiatore che dopo averti trascinato nello stupore svela il suo trucco Solmi, a gioco finito, ti mostra gli scheletri virtuali di calcoli e segni della sua troupe: ecco il suggestivo ritratto di una coppia in posa frazionato in un mosaico di geometrie dissonanti. Ed ecco nella sala vicina un video che immortala le schegge geometriche di un pittore, un clone di Elon Musk, che ritrae una modella accosciata in una tuta da robot. Da artista a cavalcioni tra finzione e realtà, ispirazione e bisogno di fare mercato e cassetta anche Solmi sente il bisogno di ancorare il suo futuro di mago alla prova concreta di un’opera.

La stessa necessità di prendere le distanze che sembra, a mio avviso, guidare un altro pioniere della visione generata da un algoritmo. Mario Klingsmann, un tedesco over 50. Nel gioco di simulazione con cui qui si presenta indossa le vesti e lo sguardo di un pittore specializzato in ritratti. Ne ha incamerati nella memoria artificiale a migliaia, a coprire l’arco di vari secoli, dal Rinascimento alle avanguardie del Novecento, poi ha addestrato una macchina a riprodurne altri dal vivo mescolando e deformando i ritagli rubati. Il risultato è condensato da una serie di immagini di volti che scorrono e si accavallano su due schermi mutando espressione. Fanciulle e gentildonne dai tratti levigati che inarcano occhioni sempre più grandi, bocche sempre più increspate, come corpi vivi che catturano e rivomitano parvenze di dolore, sofferenza, rughe d’invecchiamento. Ma è una trasformazione , uno scarto d’identità guidato da processi così rigidamente meccanici, goffi, ripetitivi da ingenerare più noia che coinvolgimento.

U’emozione che impigrisce la vista anche se stimola all’eccesso il senso che la governa, Come appunto succedeva al lunapark. Quanto dura e che catena di emozioni innesca un’esperienza suggerita dal trattamento immersivo con cui l’americana Krista Kim rivisita un quartiere dormitorio del Bronx e ne ridisegna l’anonimo grigiore dei palazzi squadrati con una serie di pannelli volanti che lo spettatore cattura e pilota munito di mascherina e manopole per poi lasciarli adagiare a cambiar volto, colori e contorni ai quei blocchi di cemento e mattoni. Certo, un architetto potrebbe trarne spunto per un intervento di riqualificazione reale. Ma dubito che restare ancorati a questa vertiginosa simulazione potrebbe davvero ridare modalità più umane , restituire socialità al modo con cui abitiamo e trasformiamo in prigioni le nostre città. Al confronto sembra più piatto e più inerte il mosaico di volumi e geometrie colorate del quadro di Vasarely, datato 1964, che i curatori hanno esposto nella stessa sala, a testimoniare il debito che i cultori del metaverso devono sempre saldare con questi antenati delle avanguardie pittoriche. Eppure se si ha la pazienza di entrare davvero dentro la sua visione per poi lasciarci lavorare la fantasia non si scoprono forse soluzioni formali più faticose ma più ricche e promettenti su cui ragionare, profezie di liberazione con cui abbiamo perso contatto, trascinati dalla velocità ammaliante della tecnologia e dallo sterminato potenziale combinatorio delle banche dati cui internet ci dà accesso?

Fabio Giampietro

È un dubbio, un sospetto di annaspare nel vuoto se ci abbandoniamo da consumatori senza freno e giudizio all’estasi di futuro degli sconfinamenti nel metaverso, alla sbornia di una felicità da appagare come unico motore dell’esistenza, che è lo stesso copione di questa mostra con i suoi calcolati salti all’indietro a metterci di fronte. Il dubbio di aver sbagliato strada e previsioni che traspare dal quadro, una processione di corpi che sembrano annaspare senz’aria tra i grattacieli, con cui nel 1944 un futurista doc come Fortunato Depero tentò di riassumere il suo impatto spaesato con New York, modello esemplare della città che cresce, d’un eterno progresso,venerata da MarinettiIl sospetto di aver perso per strada la possibilità di misurare la duttilità e la solidità dello spazio inseguendo il miraggio del tempo che Bocconi confessò con uno dei suoi capolavori più ammirati, Forme uniche nella continuità dello spazio. E ancora la certezza che nonostante condividano la stessa radice semantica metafisica e metaverso abbiano imboccato strade completamente diverse, e il secondo non sappia misurarsi davvero con l’angoscia esistenziale e il silenzio parlante del vuoto: raggiungere la stessa intensità di denuncia e artificio di una delle piazze deserte in balia di un sole impossibile dipinta da Giorgio De Chirico, affondare nel mistero implacabile del mito declinato nel collage Eco e Narciso di Giulio Paolini,

Al tirar delle somme, stando alla campionatura scelta per questa intrigante ricognizione antologica, la più ricca mai vista in Italia, ecco a me sembra che all’arte che si sta sviluppando su questo versante e agli autori che con passione e talento la praticano, manchi una presa di contatto con l’unica ineludibile verità dell’esistere: la certezza della morte e la presenza della sua ombra incalzante. Una rimozione che del resto è segno inconfondibile dell’epoca che stiamo vivendo, della cattiva coscienza di una società che in pochi anni ha visto allungare oltre ogni previsione i propri tempi di vita. E consegna ad altre immotivate paure la propria paura di invecchiare e avvicinarsi alla fine.

Più che comprensibile allontanarne lo spettro negli universi paralleli in cui proiettiamo i sogni e i desideri dei nostri alter ego posticci. Appagati dal piacere di una bellezza in aggiunta del qui e ora che l’artificio ben governato e sorretto da una propria intuizione d’autore può strappare. E lasciarsi cosi inghiottire dalla melma di pollini e colori che il messicano Refik Anadol ci riversa addosso ad ondate. O ipnotizzare dal flusso filamentoso di immagini che cambiano continuamente forma e dimensioni su schermi nero lavagna, manovrati dagli algoritmi scelti dal gruppo Fuse. O avanzare a tentoni nella stanza che Alex Braga ha arredato con un pianoforte collegato a sensori che danno il via allo spettacolo: ombre di scheletri giallognoli che solo dopo qualche secondo decifriamo come riflessi dei nostri corpi che si agitano nella sala. Quasi una beffa del metaverso, illuderci di esser noi i primi attori e poi sbugiardarci come intrusi in transito.


La mostra resterà in cartellone fino al 23 luglio. Palazzo Cipolla è al numero 320 di via del Corso, a Roma. Accanto al titolo: Andrea Pozzo bozzetto per la cupola di S.Ignazio, 1685.

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