La Festa della Liberazione
25 aprile 2023
Il 25 Aprile 2023 appare come un orizzonte vuoto, la testimonianza della sconfitta ineluttabile di un intero Paese. La Storia è andata avanti, noi siamo rimasti inchiodati a settantotto anni fa. Come se i nostri padri e i nostri nonni avessero combattuto inutilmente
È con un misto di noia e di sconforto che ci si trova qui, alla nostra età, ancora a dover affermare – in occasione del 25 Aprile – che cosa è stato giusto e che cosa è stato sbagliato. La Storia costruisce il futuro di tutti, e lo fa perfezionando i segni del passato: lasciando indietro inesorabilmente ciò che è stato sbagliato. A prescindere da quel che qualche miserabile capetto dell’ultima ora può blaterare; a prescindere dall’incapacità di tanti di fare i conti con il passato, il 25 aprile 1945 degli italiani ha segnato uno spartiacque dal quale non si può tornare indietro: è la Storia ad aver sconfitto il fascismo, prima ancora che gli eserciti inglese e americano coadiuvati da un pugno di partigiani italiani.
Negli anni Settanta, vaste zone di Roma, la città in cui sono nato e cresciuto, erano presidiate da bande di picchiatori neofascisti. Neofascisti in senso proprio: erano ragazzi della mia età che inneggiavano a Mussolini, alla superiorità della razza bianca (e dei maschi sulle femmine), che abborrivano i lavoratori e chiamavano zecche chiunque non la pensasse come loro. Facevano pena, principalmente: erano dei residuati bellici accatastati accanto a una discarica, di quelli che non hanno nemmeno la dignità di reperti da museo.
All’epoca, per recarmi in motorino ad allenarmi a pallacanestro, dovevo transitare necessariamente, quasi ogni giorno, per una piazza (è intitolata ai Giochi Delfici) che rappresentava il cuore di uno dei territori controllati dai suddetti neofascisti. Nelle ore di punta, al centro della piazza, sopra la rotatoria, uno sparuto gruppo di questi individui stazionava agitando delle catene di ferro. Le facevano prima roteare in modo spettacolare e poi le scagliavano sulle spalle di quei motociclisti che loro, a insindacabile giudizio, ritenevano delle zecche. Il più celebre fra costoro era un energumeno con gli occhi piccoli e vicini e il naso schiacciato. Lo chiamavano Roccia, o King Kong, perché innalzando le catene emulava il bestione dell’omonimo film all’epoca appena uscito nelle sale. E rideva, rideva come un ebete. Ogni giorno mi toccava schivare quelle catenate, e non sempre mi riusciva, ma purtroppo l’urbanistica romana non mi consentiva vie alternative per raggiungere la palestra da casa mia. Non ho mai visto un solo poliziotto, un carabiniere, un vigile urbano intervenire per sospendere quel miserabile spettacolo.
Ebbene, quei giovani idioti e i loro famigli oggi governano questo disgraziato paese. Le cui redini sono state consegnate loro da un elettorato per metà stanco della incapacità e dell’autoreferenzialità di una certa cosiddetta sinistra, per metà instupidito da un buon quarantennio di diseducazione civica condotta attraverso le trasmissioni delle tv commerciali. I titolari dei palinsesti ci hanno detto in tutte le maniere che il rispetto delle regole, l’istruzione, la memoria e la cultura critica sono d’ostacolo alla operosità individuale e abbiamo finito per credergli. Ognuno si occupa di sé. E basta.
Ciò che mi spaventa dei nostri attuali governanti non è nelle affermazioni dementi sulla pulizia etnica, su fascismo e antifascismo, sulla presunta “emergenza immigrazione”, sul pervertimento rappresentato dall’aborto o sulla tutela delle famiglie regolari: salvo casi eccezionali, si tratta di questioni che la Storia ha già risolto. I capetti che ancora agitano tanto stupidamente queste questioni forse non si rendono neanche conto di essere stati spazzati via dalla Storia. A partire dal 25 aprile di settantotto anni fa. Ma i loro elettori godono di questi politici che sanno soltanto dissimulare: i loro elettori vogliono praticare liberamente il proprio cinismo e badare in pace ai propri affari. Questi governanti, infatti, li lasciano in pace.
Mi spaventa di più la dissennata politica economica adottata fin qui da questo esecutivo che inanella menzogne una dopo l’altra destinando fondi a iniziative sbagliate quando non dannose. Mi spaventano le norme introdotte da questi governanti per controllare le attività pubbliche e liberare da vincoli di trasparenza, al contrario, quelle private. Mi spaventa la sicumera da ignoranti con la quale si proclamano “orgogliosi” di aver contrastato politiche ecologiche in ambito europeo. Mi spaventa la costanza con la quale i rappresentanti di questo governo votano insieme alla feccia dell’Europa contro i Paesi più saggi ed evoluti. Mi spaventa l’introduzione di norme fiscali che matematicamente favoriscono i più abbienti e i – sempre più numerosi – evasori fiscali. Mi spaventano i condoni variamente mascherati che si susseguono da qualche mese a questa parte nel silenzio più assoluto, predicando – loro dicono – la necessità uno Stato meno oppressivo (quando lo Stato, da sempre, chiude non uno, ma due occhi su chi lo calpesta a proprio esclusivo vantaggio). E invece vedo i capi di una non brillante opposizione concentrarsi solo sulle ombre, sui piattelli lanciati in aria dai dichiaratori seriali (quelli della pulizia etnica, delle famiglie regolari, del fascismo/antifascismo) per distogliere l’attenzione dai problemi seri.
Un caso malaugurato ha voluto che consumassi tutta la mia vita adulta – dopo essermi formato su ben altri princìpi – all’ombra della criminale retorica imprenditoriale berlusconiana. Dovrebbe essere ormai chiaro a tutti che Silvio Berlusconi è intervenuto nella vita politica italiana solo per difendere i propri affari. Al punto che le sue imprese, in gravi difficoltà fino al 1994, anno della discesa in campo, da allora macinano utili grazie alla costante alterazione del mercato pubblicitario nei mezzi di comunicazione di massa. Silvio Berlusconi aveva bisogno di trasformare i cittadini in consumatori per allargare il suo giro d’affari e, dal nobile scranno del governo del Paese, si è occupato di dar corso solo a norme che garantissero questa trasformazione: svuotando di senso ogni concetto di bene pubblico, di cultura, di tutela dei valori etici condivisi e stravolgendo l’idea stessa di educazione e istruzione.
Ma lo stesso caso malaugurato mi ha costretto anche a vedere una opposizione cieca e stolta che per decenni ha creduto di combattere Silvio Berlusconi non contrastando in Parlamento e nel Paese le norme banditesche che quello via via emanava, bensì puntando tutto su una soluzione giudiziaria che ne pregiudicasse l’onorabilità senza minimamente scalfire la potenza politica dei suoi strumenti di persuasione di massa. Anzi, i miseri leader della sinistra degli ultimi quarant’anni (non serve fare i nomi, li conoscete bene, sono vecchi arnesi il cui peso nelle lobby politiche non è mai venuto meno) hanno pensato di servirsi degli stessi strumenti persuasivi di Silvio Berlusconi, hanno ritenuto che bastasse gestire qualche talk-show televisivo per mettersi in bella mostra e vincere la battaglia. E invece la battaglia andava combattuta nella politica, mantenendo alta la centralità della scuola, dell’università e della ricerca pubbliche, garantendo ai giovani un ingresso privilegiato nel mercato del lavoro, contrastando l’ignoranza con la cultura. Ho nitida, nella memoria, l’affermazione di un giornalista che all’epoca (anni Novanta) si proclamava comunista e che oggi, dopo mille giravolte e cazzate di ogni genere, dice di voler ridare vita allo storico quotidiano di sinistra che ha contribuito a uccidere: «La cultura non serve a niente, è l’ignoranza il valore che dobbiamo imparare a difendere». Appunto.
Nel 1943, a diciannove anni, mio padre era partigiano, staffetta portaordini. Metteva in comunicazione il comando di Roma con la casamatta sul Monte Soratte e la base militare nascosta a Palo Laziale. Il comando di Roma cui mio padre faceva riferimento era ubicato nello studio legale di suo padre – il nonno di cui porto il nome – tra via del Viminale e via Nazionale, dietro la cui carta da parati era sistemata l’antenna clandestina che consentiva le comunicazioni tra i dirigenti del Cnl e i comandi militari alleati. Mio nonno era avvocato e sovente, durante il ventennio fascista, aveva difeso individui ingiustamente vessati dal regime. Quando morì, nel 1946, lasciò un monte di debiti sulle spalle della famiglia: difendeva gratis i suoi clienti.
L’altro mio nonno, il padre di mia madre, è vissuto un po’ più a lungo e ho fatto in tempo a conoscerlo. Non ricordo d’averlo mai visto con la cravatta: non la indossa nemmeno nella fotoceramica che lo ritrae al Verano. Era anarchico. Lo era diventato combattendo a Caporetto (bersagliere motorizzato, ossia in bicicletta) da dove aveva riportato sana e salva la pelle prima di finire vittorioso la Grande Guerra a Trento, il 4 novembre del 1918. Tornato dal fronte, conobbe l’olio di ricino prima di perdere il lavoro (disegnava giardini) perché non prese mai la tessera del Partito nazionale fascista.
Ammetterete che è seccante ancora una volta dover rispondere alla domanda «chi fuor li maggior tui»: più o meno le stesse cose le raccontai qui dieci anni fa (clicca qui per leggere l’articolo) per il 25 aprile del 2013, ma ripeterle ora è una questione di chiarezza. Malgrado il tedio.
Ma è per questo che il 25 Aprile 2023 mi appare un orizzonte vuoto, la testimonianza della sconfitta ineluttabile di un intero Paese. La Storia è andata avanti, noi siamo rimasti inchiodati a settantotto anni fa. Come se i nostri padri e i nostri nonni avessero combattuto inutilmente o solo per consentire ai dementi di oggi di roteare le loro catene. Novelli King Kong.
Le fotografie sono di Roberto Cavallini