Periscopio (globale)
Zweig e il teatro
L'uscita del dramma “La casa sul mare“ offre l'occasione per parlare di un aspetto poco noto della produzione di Stefan Zweig: il teatro. Dalle suggestioni elisabettiane a quelle pirandelliane, con un occhio fisso alla tragedia greca
Non sempre fra un autore e la materia narrata, o il genere prescelto, si instaura una corrispondenza d’amorosi sensi. Spesso, anzi, proprio materia e genere si fanno per uno scrittore, malgrado le sue migliori intenzioni, elusivi, sfuggenti. È quanto è capitato, per fare un esempio, a Stefan Zweig con una forma espressiva che pure amava moltissimo, il teatro. Diciamo subito che Zweig è famoso per tutt’altro, in particolare per le sue biografie di personaggi storici e letterari, e poi per le novelle, in cui ha saputo – insieme ad altri narratori del suo stesso periodo e ambiente – appropriarsi delle teorie psicoanalitiche, in particolare freudiane, giungendo a risultati cospicui nell’analisi psicologica dei personaggi. In compenso, a parte due casi rimasti isolati (uno dei quali peraltro incompiuto), Zweig si è avvicinato con difficoltà e ritrosia al genere novecentesco per eccellenza, ovvero al romanzo, e dopo una prima fiammata giovanile, che pure lasciava ben sperare, ha abbandonato completamente la poesia, rendendosi probabilmente conto di non poter competere con quelli che erano percepiti dal pubblico come veri e propri monumenti viventi, quali Hofmannsthal, Rilke o George.
Ma cos’è accaduto invece con il teatro, del quale era un appassionato frequentatore? In realtà, con il loro crescendo di tensione già le novelle mettono spesso in luce un impianto implicitamente teatrale – tanto che diverse di esse sono state in seguito adattate con successo per i palcoscenici di mezzo mondo. Nella biografia dedicata a Maria Stuarda, poi, Zweig farà precedere la narrazione da un vero e proprio elenco di dramatis personae, neanche avesse pensato appunto a un’elaborazione drammaturgica. E quanto alla scrittura drammatica vera e propria, Zweig è pur sempre l’autore di una decina di opere teatrali, che sono però oggi completamente assenti dai cartelloni dei nostri teatri. Perfino l’unico libretto, da lui scritto a metà degli anni Trenta per Richard Strauss – l’opera in questione è Die schweigsame Frau (La donna silenziosa) –, risulta poco conosciuto, visto che si tratta di una delle opere di Strauss meno famose e rappresentate. Ma, si badi bene, non è solo una questione di distanza temporale, se si considera che continuiamo invece a mettere in scena senza alcuna remora, e anzi a volte con notevoli risultati, i lavori di Pirandello, Cechov, Ibsen o Strindberg che a prima vista potrebbero apparire altrettanto datati. E certo il problema della scarsità di rappresentazioni non si poneva ai tempi di Zweig: possiamo anzi ripercorrere facilmente circostanze e vicissitudini delle prime teatrali, assai ben pubblicizzate (era un autore di enorme successo), di molti suoi drammi, così come della famosa traduzione-rielaborazione del Volpone di Ben Jonson, a tutt’oggi, forse, il suo lavoro teatrale di maggior successo.
Come molte passioni, anche quella per il teatro – unita inestricabilmente all’amore per la poesia – era iniziata quasi sui banchi di scuola, quando un giovanissimo Zweig si appostava alle entrate dei maggiori teatri viennesi per fare incetta di autografi degli attori più in vista del momento e per assistere più o meno en cachette a prove generali e rappresentazioni. In un certo senso, era stato subito testimone di una tragedia legata al mondo dello spettacolo: aveva infatti appena una settimana di vita, Stefan, quando il Ringtheater, situato dirimpetto a casa sua, andò in fumo e cenere a seguito di un incidente che provocò la morte di centinaia di persone. Leggenda vuole che in quell’occasione i genitori lo abbiano preso in braccio per condurlo alla finestra e farlo assistere per qualche attimo al macabro spettacolo, di cui è stato quindi forse il più giovane testimone oculare.
Dopo le prime prove poetiche e i primi racconti, imprese coronate da un certo successo, a poco meno di trent’anni Zweig decide di lanciarsi nell’avventura teatrale. Lo fa nel 1907 con il dramma Tersites, in cui fin da subito fa capolino la sua poetica degli esclusi e dei vinti, in parte mutuata dall’insegnamento di Romain Rolland. Spedisce il testo del suo dramma in giro, a diversi teatri, e la fortuna del principiante fa sì che il testo piaccia in particolare ai responsabili del maggiore dei teatri berlinesi, il Berliner Schauspielhaus, dove si deciderà di metterlo in cartellone, affidando la parte non del protagonista Tersite, ma del deuteragonista Achille, a un attore all’epoca molto in voga, Adalbert Matkowsky. Poco dopo, tuttavia, la doccia fredda: a Zweig viene infatti comunicato che per ragioni di salute il famoso attore non potrà assumere il ruolo, cosa che il giovane scrittore interpreta come una manovra neanche troppo elegante della direzione del teatro per scaricarlo, al punto che deciderà di ritirare il suo dramma e offrirlo ad altre compagnie. In realtà, l’appena cinquantaduenne Matkowsky è malato sul serio, e muore poco dopo, il 16 marzo 1909, per un infarto. Anche se Zweig non può saperlo, questa sarà solo la prima di una serie di disavventure che coinvolgeranno lui e i principali attori e registi chiamati a metterne in scena le opere.
L’anno successivo – siamo nel 1910 – dovrebbe andare in scena la prima dell’atto unico Der verwandelte Komödiant, che Zweig aveva scritto per il principale attore austriaco dell’epoca, Josef Kainz. Tutto era pronto, al Burgtheater di Vienna; il protagonista era entusiasta e aveva memorizzato una parte che gli calzava a pennello (e scrivere su misura per Kainz era stata del resto l’intenzione non troppo dissimulata di uno smaliziato Zweig). Accade ancora una volta l’inaspettato: anche Kainz muore, il 20 settembre, a pochi giorni dal previsto inizio delle prove. La versione stampata dell’opera sarà poi doverosamente dedicata alla memoria dell’attore, ma intanto il debutto di Zweig al Burgtheater dovrà essere rinviato, e di non poco.
Arriviamo infatti all’autunno del 1912, per l’esattezza al 26 ottobre, quando Zweig finalmente esordisce, ma con un altro dramma, Das Haus am Meer (La casa sul mare), che avrebbe dovuto essere messo in scena ancora prima di quella data, non si fossero verificati altri due episodi: in primis, l’incontro di Zweig con Friderike, donna sposata e madre di due figlie, che poi diverrà la sua prima moglie e che per un breve periodo lo distrae dal suo ferreo e produttivo metodo di lavoro; e poi, l’ennesima morte improvvisa, stavolta di Alfred Freiherr von Berger, il direttore del teatro, che della nuova opera di Zweig aveva deciso di assumere la regia.
Ma le peripezie di Zweig con i suoi attori e registi non finiscono qui: come racconta anche nell’autobiografia Die Welt von gestern (Il mondo di ieri), nel 1934 il Nostro tradurrà in tedesco Non si sa come di Luigi Pirandello – autore che ha testé ottenuto il premio Nobel e che è quindi attualissimo – su commissione dell’amico attore Alexander Moissi, un altro dei talenti istrionici del suo tempo, che voleva portare il testo pirandelliano sulle scene tedesche. Zweig, tuttavia, non lo vedrà mai rappresentato: per l’improvvisa e inaspettata morte dello stesso Moissi (ebbene sì, ancora una volta!), di cui racconto più dettagliatamente nel mio Stefan Zweig. L’anno in cui tutto cambiò, romanzo edito da Bottega Errante a cui rimando anche per i complessi rapporti fra Zweig, i teatranti e gli intellettuali del suo tempo.
Mi preme invece soffermarmi qui su questa terza prova teatrale, Das Haus am Meer, prendendo spunto dal fatto non indifferente che ne è da poco uscita, per una casa editrice meritoriamente dedita al teatro qual è Editoria & Spettacolo, una notevole traduzione italiana. La dobbiamo all’impegno scrupoloso di Diana Battisti, una giovane e valente germanista che su Zweig e il suo entourage ha già scritto diversi saggi.
Gran parte delle opere teatrali di Zweig sono ascrivibili alla prima fase della sua scrittura, con cui partecipa attivamente a quella che lui stesso definisce la “teatromania” del borghese di Vienna, un atteggiamento che non di rado si tramutava in un vero e proprio culto di tutto quanto fosse collegato al mondo dello spettacolo. In questo contesto, spesso tonitruante e celebrativo, Zweig cerca di inserirsi con quelle che all’epoca potevano essere recepite come opere di rottura, o comunque portatrici di novità: all’eroe classico e invitto del teatro drammatico classico Zweig oppone infatti quella che è stata definita una “poetica dei vinti”, volta a mettere in luce la superiorità morale di coloro che all’eroe si oppongono e che quindi presto o tardi soccombono. Ecco allora in Tersites la figura principale, piccola e gobba, che si contrappone al muscoloso Achille, o in Jeremias il profeta, pacifista ante litteram, che vorrebbe impedire al re degli Ebrei di dichiarare guerra ai Caldei, o ancora nell’opera omonima il protagonista Adam Lux che sfida i cinici giacobini della Rivoluzione francese.
Tra questi suoi lavori della prima fase, La casa sul mare si caratterizza per l’insistenza sul protagonista, Thomas, quale portatore di speranze utopiche, e per l’impianto realistico, anzi decisamente naturalistico, che richiama fortemente le atmosfere ibseniane e in parte anche strindberghiane. Questo la rende una delle opere teatrali di Zweig più godibili alla lettura e una delle meno ostiche a un’eventuale rappresentazione (sebbene in questo caso un regista contemporaneo prevederebbe, immagino, diversi tagli). All’epoca il testo fu accolto con un certo entusiasmo, non solo a Vienna (nel libro curato da Diana Battisti è riportato in appendice il cartellone della prima), ma in seguito anche presso i teatri di Monaco, Amburgo e Berlino (con la regia di Max Reinhardt), e il testo fu anche pubblicato poco prima che andasse in scena. La regia viennese di Albert Heine, in particolare, si rivelò un vero successo, successo in cui non credeva troppo neanche lo stesso Zweig, il quale invece continuò a nutrire anche in seguito seri dubbi sull’opera, e in particolare sullo squilibrio strutturale (e in parte anche stilistico) fra la prima e la seconda parte. Dubbi ripresi peraltro anche da molta critica dell’epoca, che, pur indulgente in genere con l’autore, con La casa sul mare non fu poi così tenera.
Non mi soffermerò qui troppo a lungo sul contenuto, in cui compaiono alcuni temi forti del pensiero e della scrittura di Stefan Zweig: la brutalità della guerra e il pacifismo, la denuncia della falsità dei retori, il rispetto dei diritti inalienabili di ogni creatura umana, il contrasto fra la tradizione e il cambiamento radicale, la seduzione dell’eterno femminino che rischia di rompere equilibri duraturi, l’impossibilità dell’idillio, il peso del passato e la difficoltà di un riscatto, la speranza in una vita migliore. La vicenda si svolge alla fine del Settecento nel porto di una cittadina tedesca, dove Gotthold Krüger – sessantenne e quindi considerato nel testo, ahimé, vecchissimo e superato – gestisce con il nipote Thomas una locanda. L’idillio iniziale, che verrà presto spezzato, è dato dalla storia d’amore e dal rapporto intenso fra Thomas e la moglie Katharina. I due sono sposati da poco, hanno idee sicuramente più avanzate di Gotthold, e tutto lascerebbe presagire uno sviluppo della vicenda nel solco della continuità e di un moderato benessere. Così naturalmente non sarà: per un eccesso d’innovazione da parte di Katharina, ma soprattutto per la tempesta provocata dall’arrivo di un battaglione di soldati che devono essere imbarcati per l’America e la cui presenza finirà per distruggere completamente tanto il “piccolo mondo antico” di Gotthold quanto la felicità dei neosposi. Non dirò altro per non guastare il piacere della lettura, ma, sebbene in qualche modo prevedibile, il restante svolgimento dei fatti ha le caratteristiche d’ineluttabilità della tragedia greca.
Stilisticamente, com’è stato già rilevato da molti critici, fra cui la stessa Battisti, la scelta del Blankvers – il verso drammatico classico tanto nella letteratura tedesca, quanto in quella inglese –, con la sua solennità e il suo andamento cerimonioso, non è delle più felici, tanto da rendere alcuni passi drammatici del tutto incongrui (e quindi anche particolarmente difficili da tradurre). Sebbene meno che in altri testi, anche qui Zweig si lascia sedurre dalle lusinghe del monologo, che tuttavia si fa presto declamatorio e retorico, indebolendo il messaggio che voleva trasmettere. Meglio funziona, il testo, nelle parti dialogiche, che portano a un minimo di azione scenica, anche se spesso ancora limitata e tradizionale. Resta tuttavia di grande interesse, questa Casa sul mare, sia come documento di una fase importante della scrittura di Zweig, sia come testimonianza dell’impasse in cui il teatro naturalistico si era andato impantanando e da cui non si sarebbe potuto uscire se non sconvolgendo completamente le convenzioni della scrittura teatrale, come avverrà anzitutto con Brecht, e in seguito con la generazione successiva, quella dei vari Ionesco, Genet e Beckett (e molti altri, naturalmente).
Per chi fosse interessato all’opera di Zweig e agli interrogativi che suscita in particolare questo dramma, segnalo in chiusura che ne faremo, con la curatrice e con l’editore, una presentazione alla Libreria Altroquando di Roma il 12 aprile prossimo alle 19. Vi aspettiamo.