Pier Mario Fasanotti
Consigli per gli acquisti

Il giallo delle illusioni

Una storia inventata e una vera: il nuovo romanzo di Simenon e la biografia di Mata Hari sono due libri in bilico tra l'indifferenza e l'eccitazione. Ma sempre nel segno di un'illusione sfrenata (quando non dolorosa)

Basta così. Come accade nelle leggi della fisica, molti protagonisti dei moltissimi (si calcola all’incirca 300) romanzi di Georges Simenon hanno a un dato momento della loro esistenza un punto di rottura, una svolta radicale capace di ribaltare un’intera narrazione esistenziale. L’autore ci avverte, magari cominciando a porre in rilievo un particolare, un gesto, una frase, una smorfia, un’abitudine repentinamente modificata. Il lettore quindi sa che qualcosa di importante sta per accadere. Basta aspettare, basta fare attenzione, e questa sorta di vigilia è la grande cupola sotto la quale si snoda una vicenda che inevitabilmente è a trama gialla, poco importa se esistano o no cadaveri. La figura dell’investigatore esiste, ed è ovviamente in primissimo piano, se a indagare e Jules Maigret. Gli altri testi simenoniani sono chiamati “roman roman”.

Si incastona in questo genere il nuovo oggi edito in Italia (ma scritto nel 1960) dalla Adelphi. S’intitola L’orsacchiotto, 147 pagine, 18 euro. Si muove nella Parigi che conta il professor Jean Chabot, ginecologo di fama, comproprietario di una clinica e responsabile della Maternità di Port-Royal. Vita intensa ma sobria, giornate scandite da parti, e quindi anche da complicazioni e imprevisti che condizionano la sua quotidianità. Impegni mondani relativamente pochi e non sempre così graditi, almeno all’inizio, ha una moglie elegante con cui non va mai in vacanza (né lei con lui), un’amante (molto discreta) che gli fa da autista e parziale confidente nonché competentissima segretaria e, alla fine, inevitabile scrigno di cose riservate, due figli dei quali si cura relativamente poco (il maschio, David gli comunicherà disinvoltamente di non voler terminare il liceo, mentre la figlia corteggia la carriera di attrice), il dottor Chabot comincia, sul limitare dei 50 anni, a rimuginare sul senso della propria vita, senza esimersi in autoritratti emotivi che, partendo dall’enigmatica figura del padre scomparso, alla fine lo buttano in un vortice di crescente disagio. Poco alla volta avverte il non senso della sua esistenza, spinto in questo da un episodio che lo “marchia”: in clinica ha un rapporto intimo (e fugace) con un’alsaziana, una donna non particolarmente attraente, somigliante in un orsacchiotto. La donna, Emma, riesce a lasciare l’ospedale (incinta) e sarà trovata annegata. Nel contento il dottor Chabot trova sul tergicristallo un foglio minaccia: “Io ti uccido”. È uno dei tanti turbamenti. Si trova a vagare, anche senza l’amante-autista nelle strade parigine che conosce a menadito. Ma praticamente non sa dove andare, tenendosi sempre lontano da salotti e ritrovi che aumentano il senso del proprio estraniamento. Comincia a tenere in tasca una rivoltella. Questo oggetto invece di rassicurarlo, lo pone in uno stato di estraniamento e insieme lo avvicina sull’orlo di un burrone del quale non sa misurare né la profondità né i contorni. Quel che il lettore verrà s sapere che il dito del famoso ginecologo farà pressione. Molto insolita, e sorprendente, è la conclusione.

Femme fatale. La maggior parte – noi crediamo – la ricordano come spia. Ma è stata, e per molto tempo, ben altro: una danzatrice. Dai costumi molto liberi, ossessionata dal potere che credeva e voleva esercitare sugli uomini: Mata Hari, nata in Olanda e dalle origini confuse (e artefatte) orientali. Il nome vero era Margaretha Geetruida Zelle, meglio nota come Margaretha Leod. Lasciò il marito che la maltrattava, un figlio morto e una bambina che successivamente vide una sola volta, e frettolosamente, in una stazione ferroviaria, è si trasferì a Parigi, considerando la Ville lumiere il teatro naturale della sua arte e occasione per accalappiare mecenati, amanti occasionali, tutti considerati trampolini di lancio per una carriera che a volte ebbe periodi strepitosi. La sua vita (romanzata) è disegnata da un’abilissima giornalista, Eva-Maria Bast, nel libro L’illusione perduta di Mata Hari (editore tre60Tea, gruppo Mauri Spagnol 316 pagine; 18 euro) Ballava su richiesta, in case private e in teatri, parzialmente nuda a eccezione del seno verso il quale aveva forti complessi considerandolo non all’altezza delle sue sinuose forme. Ebbe anche un agente e alla fine convisse con una connazionale. Tra gli ammiratori anche Giacomo Puccini. Da Parigi, furbescamente approfittando delle occasioni, molte delle quali cercate od offertele, si spostò in varie città europee, tra cui, assiduamente, Berlino e Madrid. Il suo grande rimpianto fu quello di non interpretare la Salomè di Richard Strauss. Fortemente istrionica, s’illudeva di avere il mondo ai suoi piedi. Fece molti soldi e molti li perse rasentando la miseria più buia. Fu sottoposta a umiliazioni da due russi e in quell’occasione prese atto di non essere più capace a esercitare potere sugli altri, fonte vera della sua eccitazione. Per rimanere a galla accettò finti ruoli e finti coniugi, giungendo inevitabilmente a delusioni cocenti. Si spostava da una città all’altra con enormi bauli, era riverita e corteggiata, molto abile a lanciare occhiate abilmente e sfacciatamente sensuali. Con lo scoppio della seconda guerra mondiale e il mondo che si rendeva confuso e ambiguo, fece l’errore fatale: si calò nelle vesti della spia. Pe questo fu fucilata, non capendo fino alla fine a quale “gioco” s’era prestata a fare.

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