A cent’anni dalla nascita
Riverberi dal prisma di Enrico Panunzio
Ritratto critico e personale dello scrittore e poeta che ebbe con la modernità italiana del secondo '900 rapporti non semplici. Definito “barocco”, la sua prosa originalissima si serve di una “sintassi di complessità vertiginosa”, custodendo il suo “disordine”
Ricordare a cent’anni dalla nascita Enrico Panunzio (Molfetta 1923 – Roma 2015) in pochi tratti non è cosa semplice, se anche il discorso su di lui possiede un fulcro assai preciso: Enrico Panunzio è stato uno scrittore, un poeta; è stato quello che voleva essere ed era profondamente; lo è stato in maniera sorgiva e perfino impulsiva, e al tempo stesso elaboratissima e controllatissima. Nei casi in cui la critica – una critica quasi sempre distratta – si è occupata di lui l’aggettivo più ricorrente è stato “barocco”; un noto e allora influente letterato lo paragonò a Daniello Bartoli, e non voleva essere un complimento. In realtà il noto letterato coglieva nel segno: da lì veniva la lingua di Enrico Panunzio, per specchiarsi più avanti in quella delle Operette morali di Leopardi, e lasciarsi infine incantare dall’ampiezza del respiro ottocentesco e victorhughiano sia lirico che narrativo: i suoi rapporti con la modernità italiana del secondo Novecento non sono stati semplici, e la sua storia editoriale ne ha certo risentito.
Ho conosciuto Enrico Panunzio a Parigi, nel gelido inverno dell’85, a casa del comune caro amico Pino Lombardi, un fine storico dell’età dell’Umanesimo troppo presto scomparso e allora direttore della biblioteca dell’Istituto italiano di cultura in rue de Varenne, la stessa che Enrico aveva diretto per vent’anni in parallelo con una libreria sul Boulevard Saint-Michel oggi scomparsa e celebre per un teatro dei burattini che incantò Sciascia e Calvino. Enrico era rimasto assai sorpreso dal fatto che avessi letto l’Apofasia del cav. Ciro Saverio Paniscotti, un libro uscito da Guanda nell’82 che segnava il suo ritorno al romanzo dopo anni di silenziosa incubazione: un testo arduo e raffinatissimo che aveva avuto pertanto solo una manciata di lettori. Di lì nacque una corrente di simpatia che sarebbe divenuta presto amicizia, per durare negli anni. Parigi era sotto la neve e i clochards trovavano rifugio di notte nelle stazioni della metropolitana; con Pino e Enrico andammo a cena in un piccolo ristorante arabo nella rue Monsieur le Prince. Mi era sfuggito, vivendo ormai da due anni fuori dall’Italia, che dopo l’Apofasia era uscito da Bompiani Il balcone di casa Paù, ma quella sera, davanti a un cous cous che avrebbe ricordato a lungo, Enrico ci intrattenne sul nuovo ampio disegno narrativo sul quale stava riversando tutte le sue doti e energie non comuni di scrittore: il suo entusiasmo era contagioso e il romanzo si sarebbe chiamato Malfarà.
Feci ritorno a Roma in quello stesso inverno e la prima persona che ritrovai fu proprio Enrico Panunzio, che apriva agli amici scrittori e poeti la sua bella casa in Trastevere (ricordo Alberto Moravia, Ivos Margoni, Piero Sanavio, Dario Bellezza, fra tutti il più assiduo); una casa, quella di Enrico, piena di edizioni rare, soprattutto francesi e di antiche statuine di presepi napoletani, una sua grande passione. Portargli in lettura le cose che scrivevo, con quella incoscienza dei giovani che provano a farsi le ossa, divenne per me un’abitudine che andava insieme all’ascolto dei racconti che lui veniva scrivendo in quegli anni: straordinaria officina di scrittura, bosco di varianti, sperimentazione fonica felicemente e ostinatamente tonale: ne ero ammaliato. Sto parlando dei racconti poi confluiti ne L’idiota celeste, in cui la sua amatissima materia pugliese e quella francese venivano a convivere attraverso l’elaborazione letteraria di un giacimento enorme di esperienze, immagini, letture, extravaganze. Enrico era lettore mirabile delle sue storie, e ho pensato più volte a cosa sarebbe successo se quelle stesse fossero cadute sotto gli occhi del suo grande conterraneo Carmelo Bene. Un incontro che purtroppo non avvenne mai.
Enrico non usava il computer, se ne tenne lontano quando cominciò a diffondersi tra gli scrittori alla fine degli anni Ottanta: ricordo centinaia di pagine di grafia fittissima su vecchie agende macchiate di cenere e di caffè che trasferiva poi su fogli extra strong, ugualmente macchiati e battuti a macchina, pieni a loro volta di correzioni manoscritte, cancellature e listarelle di carta in aggiunta, che restituiscono l’idea del lavoro meticoloso, appassionato sulla parola e sul ritmo: insomma un patrimonio di scrittura che mi auguro non vada disperso, a costituire la base per future edizioni critiche di opere così importanti e poco conosciute, oggi per lo più introvabili. Un sentiero di accesso privilegiato, in altri termini, a una prosa originalissima, lessicata e servita da una sintassi di complessità vertiginosa che ricorda non tanto il forse sopravvalutato Pizzuto, quanto Landolfi e Gadda. Ma di Landolfi Enrico non aveva la cristallina freddezza e a differenza di Gadda non fu mai tentato dalla parodia, fedele fino in fondo, come amava dire, all’unicità del suo “prisma”, e tenendo per sacro, rimbaldinamente, il disordine affascinante che custodiva entro di sé.
Nella foto vicino al titolo, Enrico Panunzio sulle Murgie negli anni 90. Foto © Raimondi (particolare)