In memoria di un campione
Le nuvole di Fosbury
Come il Cavalcanti di Boccaccio che «leggerissimo era, prese un salto e fussi gittato dall'altra parte», anche Dick Fosbury ha unito eleganza e potenza. Inventando un nuovo modo di volare, con la faccia ben piantata sulle nuvole
Andate a guardare il filmato di un atleta che salta in alto con lo stile ventrale. Per esempio il russo Gavrilov che alle olimpiadi di Città del Messico del 1968 partì come uno dei favoriti e finì terzo. Ci sembra che faccia molta fatica, che le gambe si aprano in un movimento innaturale e pericoloso, che la gravità agisca più pesantemente e spinga con forza verso l’asticella.
Quelle Olimpiadi di cinquantacinque anni fa, nella specialità del salto in alto le vinse uno studente statunitense nato nella popolosa città di Portland, contea di Multnomah, stato dell’Oregon. Aria allampanata, l’avresti detto perso tra le nuvole, appunto. Il sorriso di uno che sembrava fosse passato per caso da quelle parti, nella parte interna della curva di una pista d’atletica, pedana del salto in alto. Vai Dick, ora tocca a te. A me?
Quella medaglia d’oro la vinse saltando in un modo che allora apparve strano e innaturale, che poi è diventato lo stile da tutti utilizzato, perché permette di andare più in alto, di guardare il cielo mentre si vola, le nuvole che danzano leggere, anche loro, oltre l’asticella, gli uccelli che se ne infischiano, le farfalle che vorrebbero imparare. Quella tecnica eccentrica, quel modo strambo di slanciarsi e rimbalzare, da allora prende il nome da quel ragazzo un po’ timido, all’apparenza sempre fuori posto, che fino a quel 1968 nella vita di tutti i giorni non era stato per nulla originale, uno fra i tanti, a cui piaceva molto la matematica, che studiava per diventare ingegnere e al quale gli allenatori dicevano che saltava in maniera divertente, ma senza futuro.
Si chiamava Dick Fosbury e aveva da qualche mese compiuto ventuno anni. È morto ieri l’altro, ma rimarrà per sempre nella storia dell’atletica per quel salto che apparve allora un po’ scriteriato e folle («ti romperai l’osso del collo», dicevano). Gli appassionati parlarono da quel momento di uno stile Fosbury Flop, riprendendo l’immagine di un giornalista che aveva scritto di un movimento flopping, dondolante, come di qualcuno che si dimena, come quello, aveva precisato, di un pesce preso all’amo. E in effetti Dick sembrava preso all’amo e trascinato su, a vincere il peso del corpo, a muovere le gambe in una specie di balletto antigravitazionale, a far fluttuare le braccia come se cercassero di non esserci, come se volessero diventare anch’esse aria.
Un braccio Dick Fosbury lo alzò anche dal gradino più alto del podio, facendo prima il segno della pace e poi mostrando il pugno, mentre suonava l’inno degli Stati Uniti e si alzava The Star-Spangled Banner. Lo alzò in segno di protesta, come avevano fatto qualche giorno prima dal podio dei 200 metri piani Smith e Carlos a sostegno degli Olympic Project for Human Rights. Ma di Fosbury e del suo pugno bianco contro il paese che mandava a morire tanti suoi coetanei in Vietnam (lui la chiamata alle armi l’aveva scampata, paradossalmente, per una malformazione congenita alla colonna vertebrale) non parlò nessuno, tutti ancora sorpresi da quelle braccia che sparivano, dal corpo che volava.
Ma perché quella rincorsa curva verso l’ostacolo, perché saltare in quel modo? A nessuno verrebbe in mente di voltarsi di spalle prima di scattare verso l’alto. Eppure l’azione è certamente efficace, al punto che oggi nessuno più tra gli atleti pratica il salto ventrale. Non solo: il salto che aveva permesso allo statunitense di vincere la medaglia d’oro era del tutto artificioso, quasi improbabile, ma estremamente elegante, straordinariamente armonico, come se fosse composto dei movimenti più semplici per andare verso l’alto. Viene da pensare che non esista altro modo per essere insieme potenti e pieni di grazia. L’esatta complicità tra forza fisica e leggiadria, tra mente e leggenda.
Torna alla memoria il Guido Cavalcanti protagonista della nona novella della sesta giornata del Decameron di Boccaccio, che vistosi attorniato all’interno di un cimitero da un gruppo di malintenzionati che volevano «dargli briga», perché non accettavano quella sua strana filosofia di vita che lo rendeva solitario e supponente, «posta la mano sopra una di quelle arche, che grandi erano, sì come colui che leggerissimo era, prese un salto e fussi gittato dall’altra parte, e sviluppatosi da loro se n’andò».
Così Fosbury, con quel suo modo visionario che gli ha permesso di vedere un salto dove gli altri vedevano il modo di rompersi il collo, ha agito «come colui che leggerissimo era». Lui, il matematico, l’ingegnere, aveva fatto quello che fanno i poeti. Perché utilizzare rime, assonanze, un ritmo particolare, figure retoriche che aprono scenari impensati, per esprimere una sensazione, un sentimento, per raccontare un avvenimento? A chi verrebbe in mente di dire i propri pensieri in un modo così ricercato e innaturale, artificioso e armonico? Forse agli stessi che saltano girandosi di spalle.