Su “Il mondo è troppo per me”
Il mite Camardese
Un documentario di Vania Cauzillo racconta la storia e l'arte defilata di Vittorio Camardese, il chitarrista che inventò il tapping. Ua grande talento vissuto sempre nell'ombra, malgrado i suoi rapporti con tanti grandi del jazz
Se Epicuro fosse nato nella Magna Grecia, e in particolare a Potenza, si sarebbe chiamato Vittorio Camardese, a suo modo fedele interprete del motto epicureo “vivi nascosto”, anche quando per caso si è trovato su una ribalta. Ma chi era Vittorio Camardese? Il mondo è troppo per me, di Vania Cauzillo (un documentario di quasi un’ora, sceneggiato da Laura Grimaldi, integrato da una bella animazione con colori pastello di Elisa Lipizzi) ne ricostruisce la figura in modo minuzioso e partecipe. È stato proiettato a Potenza qualche giorno fa in anteprima. Camardese (1929-2010) , potentino e immigrato a Roma negli anni dell’università con una borsa di studio, faceva di professione il medico radiologo (al San Filippo Neri), ma è stato soprattutto un grande artista della musica (soprattutto, ma non solo, jazz), l’inventore del tapping – tecnica chitarristica rivoluzionaria in parte sviluppata in un negozio di barbiere di Potenza (con la destra si percuotono le corde sul manico) – che negli anni ’60 e ’70 ha incantato chiunque abbia avuto la fortuna di ascoltarlo, nei salotti privati (dove a un certo punto sopraggiungeva l’atteso “momento di Vittorio”) o nel mitico Folkstudio.
Artista appartato, schivo, non ha lasciato tracce e non ha mai inciso nulla: di lui restano tre apparizioni televisive, una fondamentale con Arnoldo Foà nella trasmissione Chitarra amore mio (disponibile in Rete: guardatela, perché sennò non riesco a spiegarvi cosa è il tapping), due in trasmissioni di Renzo Arbore. Quando la prima è stata messa su YouTube, qualche anno fa, divenne subito un caso, che oltrepassò i confini nazionali. Per la cronaca il tapping negli anni ’70 fu applicato da Eddie Van Halen – pare emulo del padre – alla chitarra elettrica nel rock.
Accennavo all’invito di Epicuro, che morì a 72 anni, dunque nove anni prima di quanto accadde a Camardese, perché anche nelle apparizioni televisive dell’artista si manifesta interamente il suo pudore vagamente aristocratico, il sorriso timido e riservato, l’aria dimessa ed elegante da dandy (potrei aggiungere: l’umiltà di chi sa comunque di essere il migliore e non lo esibisce). Ho avuto la fortuna di sentirlo tante volte in quegli anni, specie nella casa al mare, vicino Lavinio, di Nicoletta Costantino sorella maggiore di un mio compagno di scuola (e caro amico), e qui nel documentario testimone e storyteller principale.
Una volta in quella casa – una specie di effervescente “Ristorante di Alice”, uno spazio permanente e festoso di jam session – venne Gianni Boncompagni con uno dei primi registratori a quattro piste, portatile: registrò allora un intero brano tutto suonato da Vittorio (chitarra solista, chitarra accompagnatrice, basso e bongò), una registrazione mitologica, di cui naturalmente non è rimasto nulla se non forse nell’archivio personale di Boncompagni.
Il documentario ricostruisce meticolosamente una vicenda umana e artistica nata entro un liceo potentino, anzitutto con la fisarmonica, e capace di influenzare musicisti lontani tra loro, da Antonello Infantino a un po’ tutto il giro arboriano. Arrivato a Roma Camardese partecipò alla trasmissione a premi Primo applauso, una specie di dilettanti allo sbaraglio, e vinse il primo premio, un ambito televisore, di fronte a un pubblico di fan venuti dalla sua città. Gianni Bisiach, qui intervistato, dice che Camardese sembrava chiedere scusa per il solo fatto di esserci, insomma l’opposto del pervasivo narcisismo patologico della nostra società. E, come ho detto, anche quando si trovava al centro dell’attenzione ci appare sempre un po’ decentrato: sotto i riflettori sembrava attratto dall’ombra.
Ora, se io davvero ritengo che il mondo sia “troppo” per me – perché non reggo alla sua inesauribile varietà – allora sono portato a darmi un limite, per accoglierne almeno una parte. E anche qui torniamo alla Grecia, dove la hybris, la tracotanza, veniva punita. Camardese, persona mite e gentile, non sopportava i maleducati, dei quali a volte voleva personalmente punire la volgare arroganza. Se guardate in Rete la trasmissione già citata con Foà, solo pochi minuti, capirete subito tutto di lui. La assoluta e disarmata trasparenza di un genio venuto dalla provincia. Dopo aver ammirato la sua strepitosa musicalità – senso innato del ritmo e della melodia, gusto sublime, interpretazioni originalissime – potrete ammirare il suo stile “umano” fatto di discrezione e misura. Come sottolinea Nicoletta Costantino era un ribelle iperconservatore, un eretico gelosamente legato ai riti borghesi, un bohèmienne scapigliato e insieme tradizionalista, ma alla borghesia annoiata – e alla ricerca di sovreccitanti – dei salotti mondani (da cui pure era attratto) non assomigliava perché lui aveva un cuore.
Fra i testimoni, oltre a quelli citati (e a tanti altri: Irio De Paula, Harold Bradley…), e a un suo caro amico e sodale potentino, ricordo soprattutto il musicista Marcello Rosa, suo amico fraterno (che ricorda l’amicizia di Camardese con Lionel Hampton, dopo quella con Chet Baker: eppure non sapeva una parola di inglese!).
Camardese, di cui nel documentario si ricorda la fama dongiovannesca (anche qui: un dongiovannismo signorile, non invadente), ma anche la fedeltà negli amori veri, sposò la madre di Robertino Angelini – “Nunno” –, di fatto da lui “adottato”, il quale oggi ne custodisce con affetto e gratitudine la memoria, dopo aver da lui appreso la tecnica chitarristica, che ripropone nelle sue performance di cantautore.
Vivere nascosti, ma allo scoperto: a ben vedere un’arte zen della Magna Grecia, un tapping discreto dell’esistenza.